Dario Fo (superiori)

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Dario Fo (superiori)
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La vita modifica

 
Dario Fo nella seconda metà degli anni settanta

Dario Fo nasce a Leggiuno Sangiano, in provincia di Varese, il 24 marzo 1926. Studia all'Accademia di belle arti di Brera e al Politecnico di Milano, dove si iscrive corso di laurea in architettura. Negli anni cinquanta lascia l'università per dedicarsi allo spettacolo. Inizia a collaborare ad alcune trasmissioni radiofoniche con Franco Parenti e Giustino Durano, e porta in scena due opere, Il dito nell'occhio (1953) e Sani da legare (1954). Nel 1956 tenta anche la carriera cinematografia, come protagonista del film Lo svitato di Carlo Lizzani. In questi anni conosce l'attrice Franca Rame, che diventerà sua moglie nel 1954 e da cui avrà un figlio, Jacopo, nel 1955. Nel 1959 forma una compagnia insieme alla moglie, scrivendo testi su misura per sé e per la compagna. Si tratta di commedie dai toni farseschi, buffoneschi e surreali, caratterizzate da una forte satira politica e sociale, come Gli arcangeli non giocano al flipper (1959), Settimo: ruba un po' meno (1964), La signora è da buttare (1967).

Nel clima di contestazione che si sviluppa dopo il Sessantotto, Fo e Rame abbandonano il teatro "boghese" e decidono di allargare il loro pubblico a fasce sociali un tempo escluse dal teatro. Fondano l'associazione Nuova Scena e organizzano i loro spettacoli nei circoli vicini al Partito Comunista e ai sindacati. L'associazione viene sciolta nel 1970, quando la coppia di attori dà vita al Collettivo La Comune. Nelle loro opere diventa più forte l'aspetto politico, con posizioni vicine a quelle della sinistra extraparlamentare.[1]

Il teatro della coppia Fo-Rame incorpora ora elementi provenienti dalla Commedia dell'arte, dal teatro popolare e, in alcuni casi, persino dal teatro dei burattini. Le commedie continuano però a essere sempre strettamente legate all'attualità, e il teatro diventa strumento di lotta politica. Tra i drammi di questi anni si ricordano Morte accidentale di un anarchico (1970, sulla morte dell'anarchico Pinelli), Pum! Pum! Chi è? La polizia! (1972), Il Fanfani rapito (1975). Il capolavoro di Fo è però Mistero buffo del 1969. Negli anni ottanta e novanta prosegue con l'idea che il teatro debba essere uno strumento politico, sebbene nei nuovi drammi si faccia meno forte l'aspetto militante. Porta sulle scene Quasi una donna. Elisabetta (1985), Il Papa e la strega (1990), Il diavolo con le zinne (1997). Fo ha ormai raggiunto un'autorità in campo teatrale, riconosciutagli anche all'estero. Il culmine si ha nel 1997, quando viene insignito del premio Nobel per la letteratura.[2]

Negli anni successivi Fo ha proseguito la sua attività teatrale. Ha inoltre pubblicato vari volumi, tra cui biografie di artisti (Giotto, Mantegna) e romanzi storici, come La figlia del papa (2014, su Lucrezia Borgia), Ciulla, il grande malfattore (2014), C'è un re pazzo in Danimarca (2015, sul re Cristiano VII di Danimarca) e Razza di zingaro (2015). Muore a Milano il 13 ottobre 2016.[3]

Caratteristiche e stile modifica

 
Dario Fo alla Mostra del cinema di Venezia del 1985

Fra le caratteristiche più note dell'opera di Fo ci sono l'anticonformismo, l'anticlericalismo e, più in generale, l'esercizio di una forte critica rivolta, attraverso lo strumento della satira, alle istituzioni (politiche, sociali, ecclesiastiche) e alla morale comune. La sua costante opposizione a ogni forma di potere costituito rende Fo non soltanto un artista "scomodo", ma l'antitesi degli intellettuali organici, tutti presi dal compito di conservare l'egemonia culturale già esistente o di crearne una alternativa. Dario Fo è ateo[4].

All'interno della sua vastissima produzione (circa settanta lavori), i personaggi dell'attualità, della storia o del mito sono presentati sempre in un'ottica rovesciata, opposta a quella comune (il gigante Golia è buono e pacifico, mentre Davide è un litigioso rompiscatole, Napoleone e Nelson si comportano come bambini che si fanno reciproci dispetti, ecc.). Già nei primi spettacoli compare, sia pure in embrione, quella satira fatta di smitizzanti ribaltamenti tanto frequente nei successivi lavori di Fo.

Tanto importante quanto la componente critica della satira di Fo è la capacità di costruire e mettere in scena delle perfette macchine per far ridere, sul modello delle farse e dei vaudeville (commedie brillanti) e con rimandi sia al filone popolare dei lazzi della Commedia dell'arte, sia alle gag del circo e del cinema muto. Questo è il tipo di produzione alla quale Fo si è dedicato dal 1957 al 1961. Si tratta di testi che, anche a distanza di anni, mantengono una straordinaria vis comica e che, inoltre, risultano godibilissimi alla lettura.

Fo torna sempre ad usare i meccanismi della farsa, fondendoli con una satira di rara efficacia. Rispetto alle prime commedie, però, col tempo si fanno più accentuati gli intenti satirici nei confronti del potere costituito. Lo spettacolo spesso si articola, secondo lo schema del "teatro nel teatro", in una struttura a cornice, con una storia esterna che ne contiene un'altra. La commedia si inserisce in un filone demistificatorio, ossia nel tentativo di raccontare fatti e personaggi della storia e dell'attualità secondo un'ottica alternativa (magari totalmente immaginaria), priva di quella retorica e di quegli stereotipi a cui la cultura ufficiale fa ricorso tanto di frequente. Questo è un nodo centrale nella poetica di Dario Fo, come egli stesso dichiara:

«La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune… anzi, è più vero… o almeno, più credibile.»

(da Dario Fo parla di Dario Fo, Lerici, 1977)

Un personaggio frequente nel teatro di Fo è quello del Matto a cui è permesso dire le verità scomode (vedi ad esempio Morte accidentale di un anarchico). Spesso il mondo delle commedie di Fo è popolato da personaggi "da sottobosco", visti però in chiave positiva: ubriachi, prostitute, truffatori carichi di inventiva, matti che ragionano meglio dei sani e simili.

Anche la burocrazia è presa di mira: in Gli arcangeli non giocano a flipper, un personaggio scopre di essere iscritto all'anagrafe come cane bracco. Pur avendo scoperto che l'errore è frutto della vendetta di un impiegato impazzito per una mancata promozione, il protagonista è costretto dalle ferree leggi della burocrazia a comportarsi da vero cane bracco e solo dopo che, come cane randagio, sarà stato ufficialmente soppresso potrà tornare uomo e riscuotere i soldi che gli spettano. Qui la burocrazia ha una sua logica chapliniana, per cui non ciò che esiste viene annotato sulle carte, ma ciò che le carte certificano deve esistere.

Questa surreale situazione può essere vista come variazione in chiave vaudeville, de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Non è chiaro se la parodia sia voluta o meno, ma certo è che, dopo le accuse di eccessivo cerebralismo che Fo ha sempre mosso a Pirandello, non è da escludere una deliberata volontà parodistica. Il rapporto tra Fo autore e Fo attore può essere riassunto da ciò che egli stesso scrive in un articolo nel 1962: "Gli autori negano che io sia un autore. Gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l'autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l'attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi"[5].

Se c'è un testo che però non può prescindere dalla presenza scenica di Fo, questo è "Mistero buffo" (1969), lungo monologo in grammelot che imita il dialetto padano, che offre una versione smitizzata di episodi storici e religiosi, coerente con l'idea che "il comico al dogma fa pernacchi, anzi ci gioca, con la stessa incoscienza con cui il clown gioca con la bomba innescata". Una delle idee guida dello spettacolo è che la cultura alta abbia sempre rubato a mani basse elementi della cultura popolare, rielaborandoli e spacciandoli per propri (sul rapporto tra Fo e la cultura popolare, si veda Antonio Scuderi, Dario Fo and Popular Performance, Legas 1998 e, dello stesso autore, Le cuit et le cru: il simbolismo zoomorfico nelle giullarate di Dario Fo, nel volume Coppia d'arte citato nella bibliografia conclusiva).

Figura centrale di tutto lo spettacolo è quella del giullare, in cui Fo si identifica, rifacendosi alle origini dì questa figura come quella di colui che incarnava e ritrasmetteva in chiave grottesca le rabbie del popolo. Negli anni sessanta e settanta nella società italiana personaggi come Dario Fo e Leonardo Sciascia esplicavano, tramite l'analisi dialettica della situazione politica e socio-culturale e, soprattutto, del linguaggio eufemistico e accomodante di cui si avvale la classe politica, per mostrare il marciume, le fallacie logiche, le segrete connivenze fra le classi dominanti e i favoreggiamenti che si celano sotto il perbenismo politico.

Commedie come Morte accidentale di un anarchico (questa pièce sul decesso dell'anarchico Pinelli durante un interrogatorio in seguito alla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) è, insieme con la giullarata Mistero buffo, il capolavoro di Fo) non sono altro che il coerente accorpamento di tutti i dati e di tutte le comunicazioni ufficiali, sempre contrastanti e sconcertanti, se raccolti sistematicamente, e segno dell'arroganza del potere. Gli interventi di Fo sull'argomento sono tipici della Commedia dell'arte e della tradizione comica italiana così come della più feroce satira politica tedesca: la forma rende il testo umoristico e nel contempo mette a nudo i soprusi del potere e la crudeltà inarrestabile della burocrazia, la fabula vera e propria invece è desunta dalla realtà.

Il procedimento usato in questi casi è quello, già visto anche in altri autori, di portare alle estreme conseguenze l'affermazione dell'avversario fino a farla cadere. Qui tale tecnica è arricchita dal fatto che colui che la usa finge di stare dalla stessa parte di chi vuol sbugiardare. Gli elementi farseschi dovuti alla girandola di situazioni create dai continui cambi di identità del protagonista, servono a mantenere lo spettacolo, pur di argomento così drammatico, su quel registro comico, essenziale per Fo, al fine di evitare il rischio della catarsi e dell'indignazione (come in Pirandello).

Fo attualizza la tecnica e la figura del giullare come reincarnazione delle voci eretiche del passato, con una funzione fortemente polemica nel presente; sincronizza passato e presente realizzando un effetto straniante, usando il grottesco e la logica e, senza confondere i piani temporali, insinua nel presente un frammento di passato che ha una valenza negli avvenimenti politici contemporanei.

In un altro contesto l'opera di Fo può essere ricondotta a [[../Luigi Pirandello|Pirandello]], infatti i suoi personaggi si confrontano con una società snaturante e con una crisi esistenziale che li spinge a lottare per affermare le proprie ragioni e per smascherare le false verità imposte dall'alto.

Note modifica

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggististica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 285.
  2. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggististica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 285.
  3. Dario Fo, in Enciclopedia Treccani. URL consultato il 13 ottobre 2016.
  4. cfr. sua dichiarazione in Wikiquote aggiornata al 3 maggio 2013 (da Dario Fo: "Il paese dei mezaràt", Feltrinelli, Milano, 2004)
  5. Panorama, dicembre 1962.

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