Poesia del dopoguerra (superiori)

Il dramma della seconda guerra mondiale e le difficoltà della ricostruzione indussero anche nei poeti nuovi interrogativi e una maggiore partecipazione al reale.[1] Il nuovo orizzonte ideologico e culturale portò anzitutto al tentativo di dar vita a una corrente neorealista anche in poesia; tuttavia, i risultati più importanti si devono a poeti legati ancora alla tradizione lirica novecentesca. In questi decenni proseguirà l'attività di Saba e Montale, che come è noto pubblicheranno importanti raccolte, e si affermeranno nuove voci.[2]

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Poesia del dopoguerra (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 3
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

Caratteri della poesia del dopoguerra

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La poesia del Novecento non presenta caratteri di omogeneità, e per questo motivo i critici letterari si sono divisi sui criteri da adoperare per analizzarla. Luciano Anceschi ha proposto di distinguere tra una poesia degli oggetti, legata all'esperienza di Montale, e una poesia dell'analogia, affine alla poetica ungarettiana.[3] Esiste però anche un'altra interpretazione, secondo cui vi sarebbero

  • una linea sabiana, che comprende poeti come Betocchi, Bertolucci, Penna, Caproni, Giudici;
  • e una linea novecentista, erede di Montale e Ungaretti, a cui si riconducono Luzi, Sereni e altri.

È bene però non attribuire a queste classificazioni un valore assoluto, poiché ogni autore presenta caratteristiche differenti e originali. Si può comunque parlare, in termini generali, di un superamento dell'ermetismo attraverso una «strenua fedeltà al carattere conoscitivo della poesia», intesa come esperienza totale e segno del rapporto tra io e mondo.[4] La poesia diventa più discorsiva, dinamica, e il linguaggio diventa più comunicativo, tende a coinvolgere un pubblico più largo e arriva ad accogliere elementi narrativi tipici del parlato.[1]

Carlo Betocchi

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La poesia di Carlo Betocchi (Torino, 23 gennaio 1899 – Bordighera, 25 maggio 1986), che negli anni trenta è stato tra gli animatori della rivista cattolica fiorentina Il Frontespizio, si caratterizza per il suo sguardo morale sulle cose, espresso attraverso un linguaggio influenzato dalle esperienze di Pascoli, Rebora, Saba.

Le raccolte risalenti alla prima fase della sua produzione sono direttamente legate al cattolicesimo tradizionalista, teso ad affermare il valore oggettivo delle cose e il rapporto tra mondo e piano divino. Durante questo periodo vengono pubblicate Realtà vince il sogno (1932), Altre poesie (1939) e Notizie di prosa e poesia (1947), che confluiranno insieme a Tetti toscani nel volume Poesie (1955). A una seconda fase sono invece riconducibili le opere degli anni sessanta e settanta (come L'estate di san Martino del 1961, Un passo, un altro passo del 1967, Ultimissime del 1974), in cui la sua poesia assume una profonda tensione problematica. Chiudono la produzione di Betocchi le Poesie del sabato (1980), in cui sono riuniti componimenti recenti insieme a testi degli anni quaranta, e Tutte le poesie (1984), che presenta anche testi inediti.[5]

In generale, la poetica di Betocchi tende a contrapporre al soggettivismo tipico della cultura moderna un atteggiamento di rinnegamento del sé per dar vita a una poesia universale. Le cose sono quindi poste in un piano divino, che giustifica la loro condizione di creature. Ricollegandosi alla tradizione cristiana e agli scrittori del Trecento, il poeta scrive di tutto ciò che vive e si trasforma senza volere essere altro diverso da sé, in un vero e proprio «realismo creaturale».[5]

Sandro Penna

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Sandro Penna (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977) è considerato uno dei maggiori rappresentanti della linea sabiana, sia per il richiamo diretto alla «vita» sia per la sua fedeltà alle forme classiche.[6] Pubblica la prima raccolta, Poesie, nel 1939, a cui seguono Appunti (1950) e Una strana gioia di vivere (1956), tutte riunite, insieme ad alcuni inediti, nel volume Poesie (1957). Nelle nuove edizioni di questa raccolta sono poi via via confluite le pubblicazioni successive.

Come Saba, Penna parte dalla realtà comune, prendendo le distanze dalle strutture analogiche tipiche dell'ermetismo.[7] La sua produzione poetica costituisce un canzoniere in continua crescita, dove vengono ripresi motivi e accenti musicali, e dove è possibile ritrovare echi e richiami interni. Il tema centrale dell'amore omosessuale viene sublimato attraverso il riferimento a elementi amorosi generali, e anche quando racconta storie concrete vengono trasferite su un piano superiore.[6] Le composizioni hanno inoltre un carattere epigrammatico, con testi di pochissimi versi attraverso cui si esprime un lungo canto di gioia. Come scrive Ferroni, lo stesso Penna sembra aspirare a una dimensione antica e pagana, trasponendo gli incontri della modernità in un mondo classico e fuori dal tempo. Dietro alla gioia, tuttavia, si nasconde l'angoscia, che costringe il poeta a una morte lenta senza disperazione.[8]

Attilio Bertolucci

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Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000) è stato compagno di studi di Giorgio Bassani all'università di Bologna, dove si è laureato in Lettere ed è stato allievo di Roberto Longhi. Ha quindi insegnato storia dell'arte (1930-1954), e in seguito ha collaborato all'Approdo come giornalista e autore di programmi per la Rai. Ha maturato la sua vocazione poetica nell'ambiente emiliano, a contatto con Cesare Zavattini, Giovanni Guareschi, Silvio D'Arzo, Oreste Macrì. Nel 1939 ha fondato, presso l'editore Guanda, la collana poetica «La Fenice».[9]

Ha esordito negli anni trenta con una poesia che si caratterizza per la gioiosa affermazione di una realtà sensuale e per la singolare intensità dei suoi accenti – una cifra poetica a cui rimarrà fedele fino agli ultimi anni. La prima raccolta, Sirio, appare nel 1929, seguita da Fuochi di novembre (1934).[8] Le brevi liriche che le compongono si rivolgono alla natura e alla sue impressioni sul soggetto, prendendo le distanze dall'Ermetismo che all'epoca si stava sviluppando. La capanna indiana (1951) è un poemetto dall'andamento piano e lontano dal lirismo ermetico e dai toni ideoligici tipici del Neorealismo. In Viaggio d'inverno (1971) la poesia diventa più inquieta e drammatica, toccando i temi della nevrosi e della malattia. La camera da letto (1984 e 1988) è un poema narrativo in due volumi e 46 canti, che ruota attorno alla vita familiare e al succedersi delle generazioni.[9]

La poesia di Bertolucci si immerge nelle cose quotidiane allo scopo di afferrare la bellezza in esse presente, e con un linguaggio semplice canta della città di Parma e della campagna circostante. Al trasferimento da Parma a Roma corrisponde la comparsa di elementi drammatici, legati ai contrasti della guerra e del dopoguerra. Questo è evidente in particolare nel Viaggio d'inverno, dove emergono le immagini di una storia che consuma quel mondo felice. Con La camera da letto Bertolucci riscopre poi la poesia narrativa e il genere del poema, in quello che però è definito da Ferroni un «poema aperto» composto da lunghissimi frammenti e in cui le figure sono sospese in un tempo eterno.[10]

Giovanni Giudici

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Giovanni Giudici nel 1992

Giovanni Giudici (Le Grazie, 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011) ha utilizzato la parola poetica come difesa contro il vortice della modernità e ha inteso la poesia come un dono vitale, che sviluppa con ironia rimanendo però estraneo al vitalismo. Educato secondo i principi cattolici, ha mantenuto un cattolicesimo aperto e ha svolto attività politica nelle file della sinistra. Lontano dagli orientamenti della neoavanguardia degli anni sessanta, ha rifiutato ogni intento programmatico per dedicarsi alla ricerca di libere forme di espressione.[11]

Pubblica nel 1963 la prima raccolta, L'educazione cattolica, che due anni dopo confluirà in un volume più essenziale, La vita in versi. In essa è rilevabile una forte tensione morale, e i versi parlano di una realtà metropolitana e di costrizioni piccolo-borghesi. In Autobiologia (1969) vi è invece la ricerca di una poesia «che affondi nelle sue radici biologiche» e ne sia una manifestazione vitale.[12] Con la raccolta O beatrice (1972) la poesia diventa discorso amoroso verso un'entità salvifica, a cui viene attribuito il nome della Beatrice dantesca. Nelle opere successive Giudici arriva a cercare il plurilinguismo, nuove recitazioni e nuove situazioni della vita quotidiana. Tra queste ricordiamo Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984). Salutz del 1986 è una raccolta di sonetti senza titolo, che affondano le loro radici nella poesia amorosa romanza. In Prove del Teatro (1989) sono raccolti testi diversi, mentre Fortezza (1990) è dedicata alle restrizioni del mondo moderno e alla capacità di resistenza nel proliferare delle cose.[13]

Vittorio Sereni

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Vittorio Sereni a Milano nel 1975

Nato a Luino il 27 luglio 1913 e morto a Milano il 10 febbraio 1983, Vittorio Sereni «fornisce l'immagine più equilibrata e coerente di una borghesia intellettuale progressista»,[14] ponendosi in linea con il razionalismo laicista e democratico lombardo, di ascendenza illuministica.

Dopo gli studi a Brescia frequenta l'università a Milano, dove si laurea con una tesi su Gozzano. Nella città lombarda entra in contatto con i giovani intellettuali della rivista Corrente, tra i quali ha un ruolo di guida il filosofo Antonio Banfi. Nel 1941 compare Frontiera, la prima raccolta di versi, che verrà poi ampliata e ripubblicata con il titolo di Poesie (1942). L'atmosfera di inquietudine che caratterizza gli ambienti lacustri e prealpini descritti nei testi rimanda alla precarietà di un mondo minacciato. Lo stesso titolo rimanda a una situazione di "confine" e al senso di incertezza che genera.[15]

Chiamato alle armi, Sereni è inviato in Grecia e poi in Sicilia, ma dopo lo sbarco delle forze statunitensi viene catturato dagli Alleati e condotto prigioniero in Algeria e Marocco. Da questa esperienza nasceranno i componimenti raccolti in Diario d'Algeria (1947). Qui viene accentuata la componente diaristica già presente in Frontiera, ma la chiusura espressiva derivata dall'ermetismo lascia spazio a una comunicazione più distesa. Si fa largo inoltre l'idea che che si debba accettare integralmente il proprio destino e i propri limiti, senza possibilità di evasione.[15] Viene poi sviluppa la contraddizione tra la staticità del campo di prigionia e gli eventi che si consumano sulla scena del mondo, dove infuria la guerra.[16]

Nel dopoguerra Sereni riprende l'attività di insegnante interrotta allo scoppio del conflitto, quindi lavora nel settore pubblicità della Pirelli e infine diventa dirigente dell'editore Mondadori. La notorietà come poeta arriva nel 1965 con Gli strumenti umani, in cui affronta i problemi sociali nell'Italia del dopoguerra, descrivendo una realtà disgregata: in questa raccolta si trova anche Una visita in fabbrica, di cui abbiamo parlato nel paragrafo dedicato alla letteratura industriale. Anche le forme espressive cambiano, e al monoliguismo si affianca un uso più duro del linguaggio, che si altera e si spezza fino allo scopo di esprimere la frantumazione e la desolazione in cui versa la società.[15]

L'ultima raccolta, Stella variabile (1981), approfondisce il tema del rapporto tra mondo e poesia, e riflette sulla condizione di quest'ultima, che non può dare certezze o donare salvezza. Nella sua esperienza, Sereni ha tentato di trovare continuità con una tradizione umanistica che fosse in grado di confrontarsi con il mondo contemporaneo e la realtà industrializzata del dopoguerra. Nei suoi componimenti appaiono quindi elementi provenienti dalla vita quotidiana degli anni cinquanta e sessanta, dalla cultura di massa ai richiami a fatti di cronaca, dallo sport alla vita in città. In Stella variabile, Sereni sembra però giungere a soluzioni pessimiste, avvicinabili all'ultimo Montale.[16]

Sereni è stato anche traduttore oltre che autore di opere narrativo-diaristico, racconti e testi di critica letteraria. Attualmente la sua intera opera poetica è Oltre che come poeta è stata raccolta in un volume (1995) a cura di Dante Isella, mentre le prose sono riunite in Le tentazioni della prosa (1999), curato da Giovanni Raboni.

Altri poeti

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Nel panorama della poesia novecentesca si riscontrano anche esempi di una diretta continuità con i modelli degli anni trenta, come in Maria Luisa Spaziani (Torino, 7 dicembre 1922 – Roma, 30 giugno 2014), la cui produzione è legata al modello montaliano, e in Silvio Ramat (Firenze, 2 ottobre 1939). Ci sono però anche esperienze singolari, difficilmente classificabili, tra le quali vanno ricordate quelle di Lucio Piccolo (Palermo, 27 ottobre 1901 – Capo d'Orlando, 26 maggio 1969), di Lorenzo Calogero (Melicuccà, 28 maggio 1910 – Melicuccà, 25 marzo 1961), di Angelo Maria Ripellino (Palermo, 4 dicembre 1923 – Roma, 21 aprile 1978) .[17]

La poesia dialettale

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Albino Pierro

Nel corso del Novecento si è assistito allo sviluppo di una nuova poesia dialettale, che superando il modelli del verismo ha portato a risultati molto elevati. Si tratta per lo più di autori appartati, che verranno riscoperti e valorizzati negli anni cinquanta e sessanta grazie all'impulso dato da Pasolini. La scelta del dialetto è un modo per uscire dal movimento distruttivo della storia, dalla consunzione della lingua letteraria tradizionale, e di esprimere sentimenti autentici di cui la lingua comune non è più capace. La poesia dialettale consentiva quindi di recuperare il sublime attraverso una via diversa da quella battuta dalla lirica moderna.[18]

All'inizio del secolo i risultati più significativi arrivano dall'area della Venezia Giulia, grazie ad autori come Virgilio Giotti (pseudonimo di Virgilio Schönbeck, Trieste, 15 gennaio 1885 – Trieste, 21 settembre 1957) e Biagio Marin (Grado, 29 giugno 1891 – Grado, 24 dicembre 1985). Il milanese Delio Tessa (Milano, 18 novembre 1886 – Milano, 21 settembre 1939) nelle sue poesie parla della realtà nella città lombarda, dei suoi oggetti e delle sue atmosfere. I suoi componimenti, raccolti nei volumi L'è el dí di mort, alegher! (1932) e De là del mur (1947, postuma), presentano una continua frammentazione di ritmo e linguaggio, un insieme di pezzi del mondo cittadino che finiscono per dare voce a una danza macabra. La poesia di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi; Noventa di Piave, 31 marzo 1898 – Milano, 4 luglio 1960) ricorse al dialetto veneziano come forma di polemica contro la modernità, utilizzando come lingua nobile per esprimere riserve contro la sopravvalutazione delle scelte umane. Fu inoltre un intellettuale dotato di una vasta cultura internazionale, lontano dall'idealismo e dall'ermetismo; antifascista, fondò a Firenze La Riforma letteraria nel 1936.[19]

Anche nel secondo dopoguerra si registra il ritorno al dialetto come lingua poetica, incoraggiato, come già ricordato, da Pasolini. Il dialetto continua a rappresentare una fuga dalla modernità alla riscoperta di una realtà originaria pura, estranea alla trasformazioni dell'età industriale. In questo modo, però, il dialetto perde la sua funzione comunicativa per diventare una lingua astratta e artificiale. Tra gli autori inquadrabili in questo filone si ricordano Ignazio Buttitta (Bagheria, 19 settembre 1899 – Bagheria, 5 aprile 1997), Tonino Guerra (Santarcangelo di Romagna, 16 marzo 1920 – Santarcangelo di Romagna, 21 marzo 2012), Albino Pierro (Tursi, 19 novembre 1916 – Roma, 23 marzo 1995), Franco Loi (Genova, 21 gennaio 1930).[20]

  1. 1,0 1,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetto e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di storia della letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 187.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1089.
  3. Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Milano, Marzorati, 1962.
  4. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1089-1090.
  5. 5,0 5,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1090.
  6. 6,0 6,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1091.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetto e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di storia della letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 239.
  8. 8,0 8,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1092.
  9. 9,0 9,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetto e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di storia della letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 246.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1092-1093.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1106.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1107.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1108.
  14. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1095.
  15. 15,0 15,1 15,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetto e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di storia della letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 251-252.
  16. 16,0 16,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 1096.
  17. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1097-1098.
  18. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 991.
  19. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, p. 992.
  20. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 1098-1099.