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Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus) nacque in Campania intorno al 98 a.C. e morì nel 55 a.C., egli fu un importante poeta e filosofo latino, sostenitore della dottrina materialista e dell scuola epicurea.

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Lucrezio
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura latina

Biografia

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Le ipotesi sulla vita

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Le informazioni sulla sua vita sono estremamente poche ed imprecise, eccettuate le discusse notizie tramandate da San Girolamo nel Chronicon. Inizialmente si pensava che fosse nato nel 94 a.C. e che, divenuto folle a causa di un filtro d'amore, fosse morto suicida nel quarantaquattresimo anno di età. Questi dati sono desunti dal De poetis di Svetonio di cui Gerolamo si serviva come fonte per le notizie sui poeti latini. Tuttavia essi sono stati messi in dubbio per varie ragioni dagli studiosi, molti dei quali ritengono che sia opportuno accertare la notizia della scomparsa del poeta a 43 anni, e anticipare di qualche anno le date di nascita e di morte, risalendo al 98 a.C. per la nascita ed al 55 a.C. per la morte. Per quanto riguarda la pazzia intermittente e il suicidio si è supposto che Gerolamo abbia accolto una leggenda nata in ambito cristiano in funzione denigratoria del poeta che si era impegnato a fondo per dimostrare la mortalità dell'anima e l'inesistenza di una vita oltre la morte.

Sul luogo d'origine non abbiamo particolari conferme, se non per il fatto che il cognome Carus risulta attestato nel territorio di Napoli e di Pompei, inoltre dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all'aristocratico Memmio non si riesce ancora a capire se fosse anch'egli un aristocratico oppure un liberto. Nato dunque nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario è probabile che trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si rileva in molti passi della sua opera il De rerum natura e che, essendo nato poco dopo Cesare, ebbe modo di vedere la nomina di questo a console, la conquista della Gallia e le tormentate vicende del cosiddetto primo triumvirato quando la repubblica stava per soccombere nel disordine delle bande di Clodio e Milone, a servizio delle smodate ambizioni di alcuni grandi.

L'amicizia tra Lucrezio e Gaio Memmio

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Nel De Rerum Natura Lucrezio offre la sua amicizia a Gaio Memmio, un uomo appartenente alla nobiltà, concordemente identificato col pretore del 58 a.C. e il governatore della Bitinia, secondo il sentimento epicureo che vede nell'amicizia la più valida garanzia della sicurezza esterna e conseguente tranquillità: essa era coltivata non tanto per avere un aiuto quanto per la convinzione che, in caso di bisogno, quell'aiuto non sarebbe mancato. Il poeta confida nell'aiuto dell'amico e ciò gli procura grande gioia («sperata voluptas suavis amicitiae»)[1] e gliene dà la prova dedicandogli il poema, ma ciò non rivela animo servile, anzi pone i due personaggi sul piano della parità, perché tale è l'effetto della vera amicizia.

La presunta pazzia

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La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. È chiara però la strumentalizzazione fatta da teologi cristiani come San Gerolamo ed altri, specialmente teologi cattolic contemporanei, per farne un ateo psicotico e in preda alle forze del male. Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi qualcuno infatti ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico. La pazzia di Lucrezio è con tutta evidenza una mistificazione di teologi cristiani in cattiva fede per evitare che il più pericoloso dei poeti atei potesse far proseliti, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue.

Appare strana la scelta di Lucrezio di esporre la filosofia epicurea utilizzando la forma poetica, dal momento che lo stesso pensiero epicureo lo condannava perché lasciava troppo spazio alla mitologia e alle passioni e non era in grado di rappresentare fedelmente la realtà. Lucrezio decide di utilizzare la poesia perche vuole che la sua opera sia apprezzata anche dai ceti sociali romani più elevati e cerca di rendere meno difficile e ostico il pensiero filosofico di Epicuro. Lucrezio spiega che come i genitori somministrano le medicine ai bambini cospargendole di miele per renderle meno sgradevoli, così lui intende fare con la filosofia: vuole cioè cospargere col miele delle Muse una dottrina apparentemente amara, che riduce l'esistenza dell'uomo al mondo terreno. Quest'idea, di sfuggita, è ripresa anche da Torquato Tasso in La Gerusalemme liberata. La conclusione del poema, improntata ad una concezione del mondo irrimediabilmente pessimistica, è prova dell'originale spiritualità dell'autore, che si sovrappone alla dottrina ottimistica dell'epicureismo che pur vuole illustrare. In altri termini, potremmo affermare che per provare la necessità di un equilibrio razionale garante della felicità, egli non veda altro mezzo didattico che mostrare i mali prodotti dalla condizione contraria, cioè dall'ignoranza e dalla passionalità.

Riassunto del De rerum natura

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Primo libro
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Il primo libro si apre con un lungo proemio che contiene l'Inno a Venere, l'Elogio di Epicuro e un discorso inerente alla fisica epicurea. Venere è simbolo dell'amore, forza vitale della natura, ed è la fecondatrice dell'universo e simbolo della voluptas epicurea, ovvero il sommo bene. Inoltre la dea è genitrice degli Eneadi e quindi madre della stirpe romana. Lucrezio chiede aiuto a Venere nel convincere Marte, suo amante, a porre fine alla guerra civile in corso in quel periodo a Roma. Non è facile spiegare perché l'autore nell'Inno a Venere, nonostante la sua intenzione di demolire la religione tradizionale, abbia sentito il bisogno di invocare una divinità tra le più tipiche del patrimonio mitologico, la quale oltretutto, è simbolo di quell'amore che la filosofia epicurea condanna in maniera inequivocabile. La spiegazione va cercata nell'ampio ventaglio di significati allegorici che essa può assumere: Venere, infatti, può essere identificata sia con la potenza creatrice della natura, sia con il piacere in movimento che produce la ricomposizione degli atomi, sia con il piacere in riposo, sia con la forza dell'amore che si contrappone a quella dell'odio, che viene impersonata nel poema da Marte. L'Inno a Venere è seguito dall'Elogio a Epicuro, visto come salvatore dell'umanità, colui che ha vinto le tenebre con la luce del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, rivelando la natura del mondo e l'assurdità della superstizione religiosa. Lucrezio critica la superstizione ed il timore per gli Dei perché vuole dimostrare che essa ha spinto gli uomini a commettere in suo nome i delitti più nefandi. In seguito sono spiegati i principi generali della filosofia epicurea la quale riprende le teorie atomistiche di Leucippo e Democrito: «Nulla nasce dal nulla, ma tutto si trasforma.»[2] Le cose nascono per aggregazione di atomi ed hanno una fine perché gli atomi si disgregano, di conseguenza le cose si trasformano in realtà diverse. Gli atomi vengono descritti come invisibili e indivisibili (la parola atomo deriva appunto dal greco atomos e significa indivisibile), dunque anche il cosmo essendo composto da atomi avrà una sua fine.

Secondo libro
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Nel secondo libro vi è una breve introduzione sulla felicità del sapiente epicureo, il quale vive lontano dalle passioni e dai tumulti del mondo; viene poi presentata la fisica atomistica attraverso la descrizione del moto incessante degli atomi e la loro aggregazione per formare elementi corporei. Gli atomi sono eterni ed infiniti, cadono dall'alto verso il basso, ma deviano casualmente e spontaneamente la loro normale traiettoria verticale rettilinea. Tale deviazione prende il nome di Clinamen e rappresenta la caratteristica più originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo. Il clinamen svolge due importanti funzioni: se non ci fosse, da un lato, il mondo non si sarebbe potuto formare, esso è, infatti, dato dallo scontro degli atomi e dalla loro successiva aggregazione; ma se essi cadessero verticalmente nell'infinito non potrebbero mai incontrarsi; con il clinamen, invece, per una qualche legge che sfugge al rigido determinismo, può succedere che qualche atomo si allontani dal suo moto verticale e vada a scontrarsi con altri atomi. Tale teoria rende inoltre possibile il libero arbitrio dell'uomo, il quale è, per Epicuro e per Lucrezio, artefice del proprio destino: l'idea che nel mondo non tutto vada secondo necessità, secondo leggi rigidamente determinate è dimostrato dal fatto che gli atomi subiscano il clinamen (deviazione) e si scontrino, dando origine al mondo; viene così garantito un margine di libertà all'agire umano. Gli atomi sono elementi che non hanno sapore, colore, sensibilità ed essendo infiniti hanno creato altri mondi e altre specie viventi oltre all'uomo. In tutto il cosmo regna la legge della natura, secondo la quale ogni realtà vive finché incrementa i suoi elementi atomici che la costituiscono e decade quando li perde, come accade sulla Terra che va verso un inevitabile declino.

Terzo libro
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Il terzo libro si apre con una solenne celebrazione di Epicuro, liberatore dell'umanità dalla paura degli dei. Lucrezio tratta poi della natura dell'anima, ossia il principio vitale di ogni corpo il quale è composto da atomi di vento, calore, aria più una quarta essenza che non ha nome e che è coinvolta nei sentimenti e nella riflessione che hanno sede nel petto. L'anima è mortale, essendo costituita da atomi e cesserà di vivere insieme al corpo. Se dunque le sensazioni risiedono nell'anima e l'anima è mortale, allora non vi deve essere alcuna paura della morte perché essa è negazione di qualunque sensazione.

Quarto libro
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Nel quarto libro Lucrezio espone la teoria delle sensazioni che sono prodotte da sottilissime membrane di atomi che si chiamano simulacra e che si staccano dalla superficie delle cose, conservando la forma dell'oggetto. Queste immagini giungono poi ai nostri occhi mentre le illusioni ottiche e i miraggi sono invece frutto di errori della ragione poiché i sensi non ingannano mai. Alla fine del libro vi è la visione dell'amore che viene descritto come una folle e pericolosa illusione dei sensi che conduce alla follia, annebbiando la ragione. L'amore inoltre provoca disagio e ansia in chi né è vittima.

Quinto libro
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Lucrezio apre il quinto libro con un nuovo elogio a Epicuro, dopo il quale espone la sua teoria sulla mortalità del mondo (inteso come uno degli infiniti mondi esistenti), analizzandone il processo di formazione. Il mondo, che è composto da quattro elementi (terra, acqua, fuoco e aria), inoltre si è formato per caso, dunque la Terra è prossima alla fine. In seguito espone la teoria sugli Dei, secondo la quale gli Dei esistono, ma sono al di fuori del mondo, le loro sedi, infatti, si trovano negli intermundia . Essi sono non curanti degli uomini per cui Lucrezio nega il concetto di provvidenza. Il mondo non è stato creato dagli Dei, ma si è formato per caso e i fenomeni terreni sono determinati da cause naturali e non da interventi divini. Gli Dei non si devono temere perché essi non si preoccupano delle vicende umane. Viene poi ricostruita in maniera grandiosa e poetica la storia dell'umanità e del progresso. L'umanità ha inizio con le comunità degli uomini primitivi e selvaggi, i quali si sono poi evoluti con la scoperta del linguaggio, del fuoco, dei metalli, della tessitura, dell'agricoltura e della monogamia. Malgrado tutto, l'avidità di ricchezze, le guerre conseguenti e il timore religioso causarono paure d'ogni tipo e la degenerazione della società.

Sesto libro
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Anche il sesto libro si apre con un altro elogio di Epicuro per poi fornire spiegazioni e descrizioni dei fenomeni naturali come il tuono, il fulmine, le nubi, i terremoti e le eruzioni vulcaniche, sottolineando che sono indipendenti dalle volontà divine. Si sofferma inoltre su alcuni fenomeni misteriosi come le esondazioni del [w:Nilo|Nilo], le esalazioni mortifere degli Averni, le calamità e le epidemie descrivendo la peste che colpì Atene nel 430 a.C., già descritta dallo storico greco Tucidide. Il poema però è incompleto perché Lucrezio morì senza averlo completato e riordinato, infatti sembra che dovesse finire con la descrizione delle dimore dei beati: gli intermundia. Ogni libro ha un proemio più o meno ampio ed un finale che contiene la trattazione di un tema specifico non propriamente digressivo perché e sempre inerente all'argomento del libro e logicamente connesso con quanto segue, ma che per l'estensione e per il valore artistico acquista un suo autonomo rilievo, infatti nel terzo libro vi è la paura della morte, nel quarto libro si parla di sesso e amore, il quinto libro presenta la storia dell'umanità e il sesto libro invece la descrizione della peste di Atene.

Epicureismo

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Epicuro (Samo 341 a.C. - Atene 270 a.C.), fu il filosofo greco fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana. La dottrina filosofica di Epicuro è detta anche «filosofia del giardino» ovvero il luogo, una casa con giardino appena fuori da Atene, dove egli dal 306 a.C. impartiva lezioni ai suoi discepoli. La sua filosofia si basa sull'atomismo pur discostandosi da Democrito. Egli, infatti, riprende la teoria degli atomi, traendone conclusioni di tipo etico, capaci di liberare l'uomo da alcune delle sue paure primordiali, come quella della morte e ritiene che il criterio della verità sia la conoscenza sensibile, ovvero solo i sensi sono veri ed infallibili. Grazie alle impronte che le cose sensibili lasciano nell'anima l'uomo è in grado di formulare dei pregiudizi che però non sempre corrispondono alla verità. L'Epicureismo si articola in tre discipline: l'etica, la fisicae la logica.

L'Etica è il criterio di verità. Esso è dato sempre dalla sensazione definita come piacere. La natura mostra che il piacere non è qualcosa che si aggiunga all'esistenza da fuori, il piacere è la vita liberata dal turbamento e dal dolore. Il piacere può essere di tipo stabile, che non dipende dal bisogno e dal desiderio, cioè l'aponia (assenza di dolore) e l'Atarassiaatarassia (assenza di turbamento), solo in questa risiede la vera felicità; e di tipo cinetico, che consiste nella gioia e nella letizia, che sono felicità temporanee e brevi.

La fisica è una teoria riguardante gli atomi che riprende in parte il modello democriteo. Epicuro ritiene che gli atomi siano divisibili in frammenti di grandezza inferiore, non ulteriormente divisibili e che costituiscano tutto l'universo. Anche l'anima è un surrogato di atomi, anche se più piccoli del normale.

La logica viene chiamata da Epicuro «canonica», è la teoria della conoscenza, perché deve fornire il criterio della verità e quindi un canone (regola) per spingere l'uomo verso la felicità. Questo criterio è individuato dalla sensazione, perché solo in essa è presente la realtà.

Tetrafarmaco

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Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni passione irrequieta: «Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura»[3]. Parole che mostrano un certo disprezzo per la curiosità ed il desiderio della conoscenza in sé, come se tutto il bisogno di conoscere nascesse dalla paura dell'ignoto. Propone quindi un «tetrafarmaco», capace di liberare l'uomo dalle sue quattro principali paure, ovvero la paura degli dei e della vita oltre la morte, alla quale associa come soluzione quella di pensare che se gli Dei non si interessano degli uomini, non c'è motivo di temerli; la paura della morte, la quale suppone che non deve essere temuta poiché quando noi ci siamo ella non c'è, quando lei c'è noi non ci siamo; la mancanza del piacere che invece a parere di Epicuro è facilmente raggiungibile, ma bisogna ricercarlo in modo moderato; infine il dolore fisico del quale pensa che se è acuto è momentaneo o porta alla morte, mentre se è leggero è sopportabile. Epicuro riprende la teoria atomica di Democrito introducendo però una deviazione casuale (dal latino: clinamen, anche se la prima volta che il termine compare è nel De rerum natura di Lucrezio) del moto degli atomi che determina collisioni, dalle quali poi si originano i corpi. A differenza quindi dell'atomismo democriteo, il moto degli atomi non è più considerato vorticoso, ma, riprendendo la fisica di Aristotele, esso si svolge secondo un percorso rettilineo, che però incontra in modo spontaneo e imprevedibile una deviazione. Attribuisce quindi anche all'anima una causa materiale, essendo essa stessa composta di atomi, e grazie a questa concezione egli libera l'uomo dalla paura della morte poiché quando questa si verifica il corpo, e con esso l'anima, ha già cessato di esistere e quindi cessa anche di provare sensazioni. Per questo motivo sarebbe stolto temere la morte come causa di sofferenza in quanto la morte è privazione di sensazioni. Egli affronta anche la questione degli dei sostenendo che non si occupano dell'uomo, in quanto vivono negli intermundia, cioè in spazi situati fra gli infiniti mondi reali, e del tutto separati da questi; essi perciò non hanno esperienza dell'uomo. A proposito di questo, tratta la questione del male rispetto agli dei procedendo per gradi:

  • Dio non vuole il male, ma allo stesso tempo non può evitarlo; in questo caso però Dio risulterebbe buono ma impotente e la conclusione è che ciò è impossibile.
  • Dio può evitare il male ma non vuole; dunque in questo caso risulterebbe cattivo ma anche ciò è impossibile.
  • Dio non può e non vuole evitare il male; in questo caso sarebbe dunque cattivo e impotente ma, questa considerazione, risulta nuovamente impossibile.
  • Dio può e vuole; ma poiché il male esiste allora Dio esiste e non si interessa dell'uomo; questa è la conclusione che Epicuro considera vera.

Queste considerazioni di tipo fisico, cosmologico e teologico spingono Epicuro a considerare la felicità come coincidente con l'assenza di paure e timori che condizionano l'esistenza in modo negativo. Ritiene inoltre che il male derivi dai desideri che, se non appagati, generano insoddisfazione e quindi dolore. Questi possono essere artificiali o naturali (necessari e non necessari). È doveroso aggiungere che il motivo per cui Epicuro afferma che gli dei si disinteressino dell'uomo è che essi, nella loro beatitudine e perfezione, non hanno bisogno di occuparsi degli uomini. Affermare che per gli dei sia necessario occuparsi di qualcosa, in questo caso degli uomini, significherebbe dare un limite al loro potere immenso.

Il metodo di ricerca

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Epicuro sottolinea come sia importante avere un modello di riferimento, ovvero una teoria, nella quale inquadrare i fenomeni studiati, e questo è possibile solo se si «riduce il complesso della dottrina in elementi e definizioni semplici»[4]. Egli chiama questo metodo di ricerca, che è preliminare alla ricerca stessa, canonica, ovvero studio del canone. Il concetto di modello è effettivamente ciò che ha reso potente la scienza moderna. Un modello è inteso come qualcosa che si usa per spiegare la realtà, ma che non è la realtà, cioè un fenomeno può essere spiegato da un modello o addirittura con modelli diversi, la cosa importante è che i diversi modelli siano in accordo con i dati sperimentali. Epicuro sostiene che: «non bisogna ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazione di principi teorici, ma in base a ciò che l'esperienza sensibile richiede»[5]. Questa è poi la base della scienza sperimentale.

Il piacere

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Epicuro ritiene che il sommo bene coincida con il piacere (edonè), è dunque necessario comprendere a fondo questo termine. Epicuro sostiene che «Non si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici. Uomo o donna, ricco o povero, ognuno può essere felice.»[6]. Egli distingue due fondamentali tipologie di piacere: catastematico e cinetico. Per piacere cinetico si intende il piacere transeunte, che dura per un istante e lascia poi l'uomo più insoddisfatto di prima. Sono piaceri cinetici quelli legati al corpo, alla soddisfazione dei sensi. Il piacere catastematico è invece durevole, e consiste nella capacità di sapersi accontentare della propria vita, di godersi ogni momento come se fosse l'ultimo, senza preoccupazioni per l'avvenire. La condotta, quindi, deve essere improntata verso una grande moderazione: meno si possiede, meno si teme di perdere. Epicuro paragona la vita ad un banchetto, dal quale si può essere scacciati all'improvviso. Il convitato saggio non si abbuffa, non attende le portate più raffinate, ma sa accontentarsi di quello che ha avuto ed è pronto ad andarsene appena sarà il momento, senza alcun rimorso. Il piacere catastematico è profondamente legato ai concetti di atarassia e aponia. Importante è quindi l'amicizia, intesa come reciproca solidarietà tra coloro che cercano insieme la serena felicità. Per quanto riguarda la società egli riconosce l'utilità delle leggi, che vanno rispettate poiché calpestandole non si può avere la certezza dell'impunità quindi rimarrebbe il timore di un castigo che turberebbe la serenità per sempre. L'uomo dovrà quindi essere contento del vivere nascondendosi serenamente (è la concezione epicurea del «vivere nascostamente» o «vivere di nascosto», in greco λάθε βιώσας). Il disimpegno degli epicurei, che teorizzano una vita serena e ritirata, congiunto ad una particolare interpretazione del termine «piacere», ha portato nei secoli ad una visione distorta dell'epicureismo, spesso associato all'edonismo con cui non ha nulla a che fare. La filosofia epicurea si distingue al contrario per una notevole carica illuministica e morale, insegna a rifiutare ogni superstizione o pregiudizio in una serena accettazione dei propri limiti e delle proprie potenzialità. La lotta della ragione contro le tenebre dell'ignoranza per far prevalere la luce rasserenante della verità è lo scopo dell'immane fatica del poeta, sempre impegnato in una vigorosa polemica contro gli errori dottrinari di chi ignora il messaggio di Epicuro. Gli uomini si affannano perseguendo falsi scopi e non si accorgono che la natura non chiede altro che l'assenza di dolore fisico e spirituale: condizione che si può ottenere con la massima felicità, appagando semplicemente i bisogni elementari.

L'epicureismo a Roma

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A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato, non a caso lo stesso Cicerone aveva trovato un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro, infatti l'epicureismo era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene, distoglieva i cittadini dall'impegno politico per la difesa delle istituzioni. Inoltre l'epicureismo, negando l'intervento divino negli affari umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la religione come strumento di potere. Vi sono poche informazioni a proposito della penetrazione dell'epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente molte divulgazioni dell'epicureismo circolavano presso la plebe che era attratta dalla facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti. Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, Lucrezio scelse la forma del poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell'agire di Lucrezio, infatti se da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall'altro ne fa uso per divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da Lucrezio, così alta e grandiosa, per diffondere il suo messaggio si è pensato di dover spiegare anche l'atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti, il quale evidentemente non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio l'eccezionalità della forma poetica che lo ha spinto a non tenere conto di Lucrezio nella sua polemica all'epicureismo.

La filosofia di Lucrezio

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Religio

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Il De rerum natura si apre con l'invocazione a Venere, dea dell'amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra: Lucrezio, infatti, vive i turbolenti anni della rivolta di Spartaco, della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe politica romana. La via che Lucrezio trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano. All'inizio del poema Lucrezio invita il lettore a non considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere invece su quanto sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (ne è l'emblema il sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone, sacrificata dal padre per ingraziarsi gli Dei). La religione è in grado di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme di paura, ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori che essa comporta. Si vede già dai primi versi come Lucrezio offra un nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi timori nascono dall'ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo.

Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, vale a dire per combattere la paura della morte, delle malattie, del dolore e degli dei, Lucrezio inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i «semina rerum» o «genitalia corpora» come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e così persino l'animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle elementari, c'è in ogni modo spazio per la libertà, infatti all'origine dell'universo c'è una deviazione del moto atomico, un clinamen, che ha dato il via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura. Vi è anche l'ambivalenza delle leggi naturali poiché la natura viene rappresentata a volte giocosa, come forza vitale che genera vita, suoni e colori, a volte invece come fonte di dolori e lutti, causa di sciagure e calamità naturali terribili per l'umanità.

La paura della morte e degli Dei

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Fra le forme di stoltezza più gravi e pericolose ci sono la paura della morte e degli Dei. La prima nasce dall'errata credenza che l'anima sia immortale, dunque per confutarla Lucrezio dimostra la mortalità dell'anima: non può essere infelice chi non c'è più e nell'assenza assoluta di ogni sensibilità non vi è alcuna differenza fra l'essere morti e non essere mai nati. Non esistono castighi ultraterreni per i più malvagi e per giustificare l'inferno e le pene infernali Lucrezio afferma che esse non sono altro che la proiezione, in un ipotetico aldilà, dei tormenti e degli affanni che affliggono gli uomini durante la vita. Gli dei esistono ma non si curano degli uomini: il poeta afferma che essi vivono beati nelle loro sedi del tutto incuranti delle vicende umane. L'universo non è stato creato dalle divinità, ma è frutto della meccanica e casuale aggregazione di atomi. Per Lucrezio il mondo non è stato creato per gli uomini, l'esistenza di immense estensioni terrestri e marine inaccessibili agli uomini, il calore, il freddo, le gravi difficoltà che l'uomo incontra per riuscire a sopravvivere contro le calamità naturali, le belve feroci e le malattie dimostrano che il mondo in cui viviamo non è per l'uomo. Il dolore può essere però sconfitto purché l'uomo aderisca alla verità e alla sapienza epicurea trasformando positivamente una situazione esistenziale dolorosa, sconfiggendo la sofferenza e conquistando la felicità, ecco perché l'uomo invece di preoccuparsi della propria fine dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla inseguendo futili ambizioni.

La guerra

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Il pensiero sul tema della guerra è simile a quello di Leopardi perché la guerra è ritenuta un'atrocità che diviene sempre più spaventosa con il perfezionamento della tecnologia. L'affinamento delle tecniche guerresche è considerato dal poeta un esempio di progresso sciaguratamente applicato.

La politica

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Seguendo gli insegnamenti del maestro Epicuro, Lucrezio rifiuta la politica e vede in essa una fonte di affanni e di tormenti per l'anima umana. Il saggio deve, inoltre, abbandonare le inutili ricchezze e allontanarsi quindi dalla vita politica, dedicandosi a coltivare lo studio della natura con gli amici più fidati, che rappresentano la somma ricchezza della vita umana. Lucrezio pone l'accento sulla vacuità e l'inutilità di ogni forma di potere poiché solo distanti dalla vita politica si può contemplare il mondo serenamente, e guardare tutto e tutti con occhio distaccato, così come è soave guardare dalla terraferma il mare in tempesta e gli uomini che vengono tormentati, compiacendosi dei mali da cui si è indenni. La scelta salutare è dunque vivere appartati secondo il precetto epicureo del vivere nascosto e lasciando agli stolti gli affanni di una vita competitiva.

La voluptas (il piacere)

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Il piacere presente in Lucrezio è lo scopo della vita umana, mentre secondo Epicuro, consiste nell'assenza e nella cessazione del dolore e del desiderio. La felicità secondo Lucrezio coincide con l'atarassia (imperturbabilità) resa possibile dall'eliminazione delle paure irrazionali e delle passioni perturbatrici (amore, odio, ira, cupidigia, ambizione…). L'amore dunque arriva ad essere pari all'ira e ostacola il raggiungimento dell'atarassia. Contro le passioni il poeta conduce la sua battaglia in nome della ragione, in piena coerenza con le dottrine del suo maestro.

Sensi e amore

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I sensi sono descritti nel quarto libro in cui Lucrezio discorre sui sensi, sulla loro veridicità, e su come possano essere turbati. I sensi non fanno altro che captare dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana. Anche dopo aver cercato di trasmettere l'atarassia epicurea, Lucrezio si allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione quanto più può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali. Dopo aver condannato l'amore come sofferenza, furore, amarezza, rimorso, gelosia, cecità, miseria ed umiliazione, Lucrezio cambia tono affermando che a volte i sensi sono in grado di rendere piacevoli momenti consueti della vita quotidiana. All'amore è rivolto invece un atteggiamento di condanna perché le passioni tolgono l'energia intellettuale e la lucidità razionale necessarie a raggiungere l'atarassia e la voluptas. Una delle più futili è la passione amorosa ritenuta desiderio tormentoso e insoddisfatto dal cui effimero appagamento nasceranno solo nuovo dolore e disgusto.

Civiltà e peste

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Nel poema il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita della civiltà. I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell'ingegno e della bellezza di ognuno, senza però cadere in tentazioni positiviste. Con la nascita della civiltà nascono anche l'ambizione e la cupidigia, contro le quali Lucrezio si scaglia con forza e pone molta attenzione sul progresso dell'uomo e ne delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i desideri non necessari e di badare solo al soddisfacimento di quelli realmente utili: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna dunque abbandonare gli sprechi inutili e indirizzarsi verso i piaceri naturali.

L'opera presenta una simmetria contenutistica poiché ogni coppia dei sei libri termina con una visione tragica di dissolvimento: alla fine del secondo libro vi è la profetica e apocalittica immagine della fine del cosmo, al termine del quarto libro vi sono alcune scene e situazioni degradanti dei mali causati dalla folle passione d'amore, alla conclusione del sesto libro la macabra rappresentazione della peste di Atene. L'opera di Lucrezio è percorsa da una patina arcaicizzante, dovuta all'uso di forme morfologiche arcaiche, come il genitivo in -ai o in -um, l'uso di ollus e dell'infinito in -ier. Vi è un ricorrente uso delle figure di suono, quali allitterazioni , onomatopee e fonosimbolismi e un prevalere della desinenza bisillabica -ai e dell'uso dell'enjambement. Bisogna inoltre ricordare che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi in grado di esprimere certi concetti della filosofia greca, Lucrezio si trovò dunque costretto a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli. Il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri li crea ex novo, inoltre dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell'entusiasmo poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma allo stesso tempo anche all'invettiva profetica. Se le teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l'animo, Lucrezio la considera come il miele che, cosparso sull'orlo del bicchiere, aiuta il bambino a prendere la medicina. Il commento di Cicerone, pensatore notoriamente avverso all'epicureismo, riguardo al De rerum natura testimonia che egli ammirava in Lucrezio non solo l'acutezza nel pensare, ma anche le grandi capacità di elaborazione artistica. Concludendo anche lo stile, come l'organizzazione complessiva della materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore.

  1. Tito Lucrezio Caro,De rerum natura.
  2. Democrito, Teoria atomistica.
  3. Epicuro, Teoria filosofica del Tetrafarmaco
  4. Epicuro,Lettera a Erodoto
  5. Epicuro, Lettera a Pitocle
  6. Epicuro,Lettera a Meneceo

Bibliografia

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  • A. Diotti, S. Dossi, F. Signoracci, Millennium, Torino, Sei, 2004
  • M. Del Pra, Sommario di Storia della filosofia, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1973
  • A. Barigazzi, Dizionario degli scrittori greci e latini, vol. II, Settimo Milanese, Marzorati editore, 1988.
  • F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, A. Bianchi, M. De Pasquale, I filosofi e le idee. L'età antica e medievale, vol. I, Mondadori.

Collegamenti esterni

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