La lirica siciliana (superiori)
In seguito alla crociata degli Albigesi molti trovatori provenzali si trovarono costretti a emigrare in Italia, dove la loro poesia fu accolta con favore, in particolar modo nelle regioni settentrionali (tra cui il Monferrato e la Marca trevigiana) e in Sicilia, alla corte di Federico II di Svevia.[1] La corrente letteraria nata nell'isola dalla rielaborazione di temi e stili trobadorici, della quale capostipite è considerato Iacopo da Lentini, è chiamata scuola siciliana.
Alcune caratteristiche di questo movimento esulano dal solido legame con la lirica provenzale: il poeta non è una figura professionale ma dilettantistica, mentre sul piano letterario troviamo la definitiva separazione del testo dalla musica (le liriche non sono più indirizzate al popolo ma a un ambiente ristretto e colto) e l'adozione, per la prima volta in Italia, di un codice poetico in lingua volgare, il siciliano.
Dalle tematiche affrontate sono estromesse politica, esperienze personali e tutto quanto non concerne l'amor fino, per lasciare a esso totale spazio. Ricorrenti sono le similitudini col mondo naturale e i riferimenti alla società feudale, benché essa non fosse propria del regno di Federico. Le strutture metriche più utilizzate sono la canzone, la canzonetta e il sonetto, la prima usata per trattare gli argomenti più seri, la seconda per i più leggeri, mentre il sonetto, destinato a diventare la forma tipica delle tenzoni poetiche, veniva adattato a più occasioni. La lingua utilizzata è il volgare siciliano, privato dei termini dialettali e arricchito da strutture periodiche tipicamente latine.
Storia
modificaFederico II di Svevia
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Federico II, imperatore e re di Sicilia, creò sull'isola uno Stato ordinato e pacifico. La sua corte fu operosa tra il 1230 e il 1250, anni in cui si sviluppò la scuola siciliana. I poeti siciliani presero i provenzali come modello e si ispirarono a loro per comporre poesie d'amore. Vengono però eliminati i riferimenti alla vita cortigiana, il tema dell'amore si sposta su un piano più astratto, ricorrendo a modi comunicativi più elevati.[2] I poeti narravano la completa sottomissione che si rende alla donna, proprio come un vassallo verso il suo padrone.
Fu un uomo molto colto: parlava il tedesco, il francese (aveva madre normanna e padre svevo), conosceva il greco, il latino, l'arabo, il volgare siciliano che egli stesso volle valorizzare, e l'ebraico. La sua inestinguibile curiosità intellettuale gli fece guadagnare l'appellativo di Stupor Mundi, ovvero «meraviglia del mondo». Fu molto tollerante verso le altre religioni; fondò una scuola retorica a Capua, una scuola medica a Salerno e un'università a Napoli.
Federico II, incoronato imperatore a Roma da Onorio III (1220), non mantiene subito il primo impegno. Federico aveva infatti prestato giuramento di imbarcarsi per la Terra Santa nel 1217, ma successivamente si tira indietro e Onorio rinvia ripetutamente la data di inizio della spedizione. Prima di indire la crociata, egli vuole compiere nel regno di Sicilia un vasto programma di riforma politica.
Per stroncare le pretese dei baroni feudali, abbatte i castelli costruiti senza autorizzazione e ne innalza di propri, su tutto il territorio; protegge l'economia locale dalle speculazioni dei genovesi; crea l'Università di Napoli (famosa per gli studi giuridici) e quella di Salerno (prima per la medicina); finanzia gli studenti, obbligandoli però a iscriversi alle sue università; ferma la repressione dei musulmani e li trasferisce nella colonia musulmana di Lucera, dove sono lasciati liberi, purché a lui fedeli. Nel 1231, promulga una raccolta di leggi (le costituzioni di Melfi), con cui dà ordine al regno e controlla i poteri amministrativo, legislativo e giudiziario. Ne risulta una nuova forma di Stato, laico, accentrato, burocratico che anticipa la struttura dei futuri Stati europei.
Sulla mentalità di Federico II, un altro rilievo che può dare un'indicazione importante sul suo temperamento e la sua lungimiranza è il progetto di riforma delle proprietà terriere, che fu realizzato dal capuano Pier delle Vigne. Infine, va ricordato che fu letterato egli stesso, autore di un trattato di falconeria De arte venandi cum avibus, che è anche un libro simbolico e filosofico, e di alcuni componimenti poetici, ritrovabili nelle raccolte della scuola siciliana.
L'esperienza politica, filosofica e letteraria
modificaLa scuola siciliana si sviluppò tra il 1230 e il 1250 presso la corte itinerante di Federico II.[3] La Sicilia dell'epoca era luogo di incontro e fusione di molte culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove l'imperatore creò una scuola di poeti e intellettuali che ruotavano intorno alla sua figura, ed erano parte integrante della sua corte. Federico II, uomo di grande cultura anche linguistica, intendeva avvalersi di ogni possibile mezzo per stabilire la sua supremazia sull'Italia e in Europa. A questo fine attuò una politica strumentale, anche nel campo culturale. Con la scuola siciliana volle creare una nuova poesia che fosse laica, e si potesse così contrapporre al predominio culturale che la Chiesa aveva nel periodo, non municipale, da opporsi alla produzione poetica comunale (l'imperatore era in lotta con i Comuni) e aristocratica, che ruotasse cioè intorno alla sua figura.
I poeti di questa corrente letteraria appartenevano all'alta borghesia ed erano tutti funzionari di corte, o burocrati che lavoravano presso la corte di Federico. È importante rilevare che tutti erano impegnati in attività e funzioni di organizzazione, di cancelleria, di amministrazione. La produzione poetica era riservata alla libertà dello spirito e non costituiva un lavoro o una funzione. In questo senso, la scuola siciliana fu un tentativo di realizzare una cultura universale e spirituale, nel rispetto delle religioni manifestate ma senza condizionamenti né, tanto meno, subordinazione. Non a caso uno dei castelli più importanti della casa di Svevia è il nome da cui deriva l'etimologia del termine "ghibellino".
Forme strofiche italiane |
È durante il XIII secolo che si svilupparono la maggior parte delle forme strofiche della poesia italiana. Abbiamo così:[4]
Le forme liriche più importanti sono però
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I temi
modificaLa poetica della scuola siciliana affronta, come già accennato, la tematica amorosa da un punto di vista "feudale", insistendo sul rapporto vassallatico tra il poeta e la donna-signora, la quale deve essere seguita con dedizione. Tuttavia, a differenza dei provenzali, ai loro componimenti è escluso il pathos dovuto alla distanza e all'inaccessibilità della donna, la quale continua a essere depisitaria di ogni virtù e pregio. Il rapporto con questa avviene attraverso la vista, e le forme della comunicazione amorosa sono definite mediante la visione oggetti fisici, ai quali sono però associati significati astratti: la superiorità della donna viene paragonata, di volta, ai fiori, alle pietre preziose, agli astri.[3] Inoltre, la poesia e la fedeltà all'amata, lontana ed evanescente, nobilitano il poeta e lo rendono socialmente più degno. La forma poetica più usata è la canzonetta, che spesso esprimeva invettive[5]
La lingua: il siciliano illustre
modificaI componimenti della scuola siciliana sono scritti in siciliano illustre, una lingua nobilitata dal continuo raffronto con le lingue auliche del tempo: il latino e il provenzale (la lingua d'oc). Meno forte nei contenuti, la poesia lirica dei "Siciliani" (come li chiamava Dante) contiene in sé un linguaggio sovrarregionale, qualitativamente e quantitativamente ricco rispetto ai dialetti locali, data anche la sua capacità di coniare parole nuove per neologismo e sincretismo, assimilando rapporti dialettali italiani e francesi (è dimostrata la stretta relazione tra i siciliani e la Marca Trevigiana, con cui Federico aveva stretti contatti) alle lingue d'oltralpe. Tale ricchezza fu dovuta anche alle caratteristiche intrinseche alla Magna Curia, che spostandosi al seguito dell'irrequieto imperatore nel corso delle sue campagne politico-militare, non poteva per forza di cose prendere a modello della nuova lingua un singolo dialetto locale. Limitandoci solo al discorso sui dialetti, vi sono già differenze (non troppo marcate) tra la parlata catanese e palermitana, e a queste dobbiamo aggiungere alcune influenze continentali, ma non esclusive, alla zona della Puglia.
La poesia siciliana diede l'opportunità al volgare, che fino ad allora era usato solo in qualche canto plebeo o giullaresco, di diventare pregevole e di essere degna della poesia (come discuterà poi Dante nel 'De Vulgari Eloquentia'). La scuola siciliana ha anche il credito di aver introdotto un sistema metrico nuovo e rivoluzionario, il Sonetto, che finirà per essere il sistema canonico per eccellenza per fare poesia (Petrarca infatti userà questo sistema, mettendo in rilievo la praticità e musicalità che questa forma poetica dimostra).
I poeti
modificaI componimenti dei poeti siciliani ci sono arrivati prevalentemente attraverso il manoscritto Vaticano Latino 3793, che è stato compilato da un copista toscano. Sebbene non ci sia motivo di ritenere che vi siano stati scarti notevoli, è da rilevare però che il copista ha adattato dal volgare siciliano al volgare toscano: così non si dispone di una perfetta testimonianza della vera lingua utilizzata dai poeti della corte di Federico II. Degli originali si è salvato soltanto un componimento intero, Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, e tre spezzoni: le ultime due stanze (versi 43-70) della canzone di Re Enzo S'iu truvassi Pietati, la stanza iniziale (versi 1-12) della canzone Gioiosamente canto di Guido delle Colonne e un frammento di "Allegru cori plenu" di Re Enzo; tutto ciò grazie a una trascrizione dell'erudito emiliano Giovanni Maria Barbieri, che nel Cinquecento disse di aver trascritto questi versi da un manoscritto di cose siciliane, oggi perduto.
Gli esponenti principali della scuola siciliana furono: Giacomo da Lentini, considerato anche il caposcuola e largamente noto perché considerato l'inventore della forma metrica del sonetto, Pier della Vigna, Ruggieri d'Amici, Odo delle Colonne, Rinaldo d'Aquino, Arrigo Testa, Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Filippo da Messina, Mazzeo di Ricco, Iacopo Mostacci, Percivalle Doria, Re Enzo, lo stesso Federico II e Giacomino Pugliese. A questi vanno aggiunti Tommaso di Sasso, Giovanni di Brienne, Compagnetto da Prato, Paganino da Serzana e Folco di Calavra.
Tra i componimenti giunti a noi da rilevare Meravigliosamente di Iacopo da Lentini e il contrasto Rosa fresca aulentissima di Cielo d'Alcamo. Diversi componimenti si distaccano già dalla poesia provenzale nella forma e nello stile, presentando già anticipazioni di esiti stilnovistici (Segre: 1999). La terminologia cavalleresca francese è tuttavia rivisitata e non copiata pedissequamente, attraverso il conio di nuovi termini italiani mediante anche nuovi sistemi di suffissazione in -za (<fr.-ce) e -ière (< -iera), novità linguistica notevole per quest'epoca.
Cielo d'Alcamo e la parodia dell'amor cortese
modificaPer leggere su Wikisource il testo originale, vedi Rosa fresca aulentissima (Lucas)
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Nel Contrasto di Cielo d'Alcamo, noto con il titolo di Rosa fresca aulentissima e databile agli anni Trenta o Quaranta, le forme auliche della poesia siciliana si uniscono a temi del genere comico. Si tratta di un dialogo tra un giullare e una fanciulla, la quale dapprima respinge il corteggiamo e poi cede via via alle sua insistenze dell'uomo. Nella lingua, invece, sono riscontrabili un fondo siciliano con elementi di derivazione campana. Il risultato è un'originale parodia dell'amore cortese, basata su un gioco di esagerazioni e continue asimmetrie nella disputa tra i due protagonisti;[6] l'amor cortese viene quindi ribaltato, assumento termini sensuali e carnali.[3]
La tradizione posteriore
modificaLa scuola siciliana fu travolta dal sistema di congiure e di complotti che fu ordita contro il sistema di governo di Federico II, eccessivamente illuminato per il suo tempo e forse, soprattutto, per la paura che lo Stato Pontificio aveva della possibilità che Federico II riunificasse la corona di Sicilia con quella di Germania, circostanza che avrebbe costretto il papato nella morsa del regno di Hohenstaufen. Della congiura di cui fu accusato Pier delle Vigne nei confronti di Federico II dà monumentale testimonianza Dante Alighieri,[7] peraltro asserendo l'estraneità di Pier delle Vigne alle accuse. Dopo la morte di Federico, la scuola ebbe un rapido tramonto.
Alla morte di Manfredi di Sicilia nel 1266, la scuola siciliana si scioglie. Grazie alla fama che aveva già ricevuto in tutta Italia e all'interesse dei poeti toscani, tale tradizione venne per così dire ripresa, ma con risultati minori, da Guittone d'Arezzo e i suoi discepoli, con cui fondò la cosiddetta scuola neo-siciliana.
A quel punto, però, i poeti toscani lavoravano già su manoscritti toscani e non più su quelli siciliani: furono infatti i copisti locali a consegnare alla tradizione il corpus della scuola siciliana, ma per rendere i testi più "leggibili" essi apportarono modifiche destinate a pesare sulla tradizione successiva e quindi sul modo in cui venne percepita la tradizione "isolana".
Non solo vennero toscanizzate certe parole più aderenti al latino nel testo originale (cfr. gloria > ghiora in Iacopo da Lentini), ma per esigenze fonetiche il vocalismo siciliano fu adattato a quello del volgare toscano. Mentre il siciliano ha cinque vocali (discendenti dal latino nordafricano: i, è, a, o, u), il toscano ne ha sette (i, é, è, a, ò, ó, u). Il copista trascrisse la u > o e la i > e, quando la corrispondente parola toscana comportava tale variazione. Alla lettura, quindi le rime risultarono imperfette (o chiusa rimava con u, e chiusa con i, mentre anche quando la traduzione permetteva la presenza delle stesse vocali, poteva accadere che una diventava aperta, l'altra chiusa). Mentre questo errore fu considerato una licenza poetica da Guittone e poi dagli Stilnovisti, alla lunga contribuì probabilmente a svalutare i pregi metrico-stilistici della scuola, soprattutto nell'insegnamento scolastico. Pochi, infatti, sono i manoscritti siciliani originali rimastici: quelli di cui disponiamo sono solo copie toscane.
È ormai quasi certa per tutti gli studiosi l'ascrizione della paternità del sonetto vero e proprio a Giacomo da Lentini, nella forma metrica ABAB - ABAB / CDC DCD. Il sonetto avrà nei secoli una fortuna costante, mantenendo inalterata la forma classicamente composta da due quartine e due terzine di endecasillabi (variando invece a livello di schema rimico): una fondamentale raccolta di sonetti è l'opera non teatrale di William Shakespeare. Il sonetto è stato ampiamente utilizzato da Charles Baudelaire. Ancora nel Novecento, infatti, dopo la parentesi negativa di Giacomo Leopardi che nell'Ottocento aveva rifiutato questa forma, grandi poeti come Giorgio Caproni, Franco Fortini e Andrea Zanzotto hanno scritto sonetti. Da non dimenticare le composizioni del portoghese Fernando Pessoa e del catalano Josep Vicenç Foix i Mas.
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Note
modifica- ↑ G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Moduli di storia della letteratura. L'età cortese e comunale, Paravia, Torino, 2001, p. 47.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, pp. 75-76.
- ↑ 3,0 3,1 3,2 G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Moduli di storia della letteratura. L'età cortese e comunale, Paravia, Torino, 2001, p. 48.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, p. .
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, pp. 75-76.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, pp. 76-77.
- ↑ Inferno XIII