Divina Commedia - Inferno - V Canto (superiori)
Il Quinto Canto dell' Inferno di Dante Alighieri si svolge nel secondo cerchio, dove sono puniti i lussuriosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300.
Lettura e Parafrasi del Canto
modificaMinosse |
Minosse è un personaggio della mitologia greca, figlio di Zeus e di Europa, figlia di Agenore.
Minosse fu re giusto e saggio di Creta. Per questo motivo, dopo la sua morte cruenta, divenne uno dei giudici degli inferi, insieme a Eaco e Radamanto. Nei miti attici invece viene dipinto come estremamente tirannico e crudele. Si racconta che, in seguito alla morte del re Asterione, padre adottivo di Minosse, egli costruì un altare a Poseidone in riva al mare, per dimostrare il suo diritto alla successione al trono, ma Minosse pregò Poseidone di inviargli un toro per il sacrificio ed il dio lo esaudì. Minosse non sacrificò l'animale, poiché era molto bello. Poseidone, adirato, fece innamorare del toro Pasifae, la moglie di Minosse. Da questa unione nacque il Minotauro, mezzo uomo e mezzo toro. Minosse incaricò dunque Dedalo di costruire un labirinto in cui nascondere il mostro. Minosse ebbe otto figli da Pasifae: Catreo, Deucalione, Glauco, Androgeo, Acalla, Senodice, Arianna, Fedra. Ebbe inoltre Eussantio da Dessitea, mentre dalla ninfa Paria ebbe Filolao, Crise, Eurimedonte e Nefalione. Il regno di Minosse fu caratterizzato da ampi scontri con i popoli vicini, che egli riuscì ad assoggettare. Combatté anche contro Niso, re di Megara, che aveva un capello d'oro a cui era legata la sorte della sua vita e della sua potenza. La figlia di Niso, Scilla, si innamorò al primo istante di Minosse e non indugiò ad introdursi nottetempo nella camera del padre per tagliargli il capello d'oro. Andò in seguito da Minosse offrendogli le chiavi di Megara e chiedendogli di sposarla. Minosse conquistò Megara ma rifiutò di portare con sé a Creta la parricida che, presa dallo sconforto, si gettò in mare ed annegò. Minosse attaccò anche Atene, in seguito all'assassinio del figlio Androgeo causato dal re Egeo. Sconfitti gli ateniesi, Minosse chiese ad essi in tributo la consegna ogni nove anni di sette fanciulli e sette fanciulle, che venivano date in pasto al Minotauro. Tale sacrificio cessò solo grazie all'intervento di Teseo, che con l'aiuto di Arianna, riuscì ad uccidere il Minotauro. Secondo il mito Minosse fu ucciso in una vasca da bagno in Sicilia mentre era ospite nella rocca del re sicano Cocalo. Il racconto è stato ripreso da Diodoro Siculo nella Biblioteca storica che narra come la sua leggendaria tomba si trovasse al di sotto di un tempio di Afrodite e come Terone di Akragas avesse occupato quest'area sacra con il proposito ufficiale di vendicare l'uccisione del re cretese. |
Paolo e Francesca |
Paolo Malatesta e Francesca da Polenta sono due figure di amanti entrate a far parte dell'immaginario popolare sentimentale, pur appartenendo anche alla storia e alla letteratura. A loro è dedicata buona parte del V canto della Divina Commedia di Dante Alighieri. Nella Commedia, i due giovani - riminese lei (anche se nata a Ravenna), della vicina Verucchio lui - rappresentano le principali anime condannate alla pena dell'inferno dantesco, nel cerchio dei lussuriosi.
In vita furono cognati (Francesca era infatti sposata con Gianciotto, fratello di Paolo) e questo amore li condusse alla morte per mano del marito di Francesca. Francesca spiega al poeta come tutto accadde: leggendo il libro che spiegava l'amore tra Lancillotto e Ginevra, i due trovarono calore nel bacio tremante che alla fine si scambiano e che caratterizza l'inizio della loro passione. La tragica vicenda amorosa di Paolo e Francesca è stata rievocata altre volte, sempre in letteratura ma anche nell'opera lirica. Particolarmente conosciuta, apprezzata ed amata è la versione che ne ha dato nel 1914 il compositore italiano Riccardo Zandonai nella sua Francesca da Rimini. Non andrà sottaciuta la commossa "difesa" fatta dal Boccaccio (vedi più avanti) il quale ci racconta che alla base del matrimonio tra Gianciotto e Francesca da Polenta ci fu un terribile equivoco incoraggiato se non architettato dai maggiorenti delle due famiglie. A Francesca, sostiene Boccaccio, fu fatto credere che avrebbe sposato il bello ed elegante Paolo. L'osservazione boccacciana (definita dal Torraca "ultima novella di Boccaccio") è tenera e sentimentale, ma non regge a un minimo di critica storica. Le due famiglie dei da Polenta da Ravenna e dei Malatesta da Rimini erano tra le più rinomate della Romagna. Dopo una serie di scontri esterni e di instabilità politica interna, decisero di allearsi unendo in matrimonio i loro figli. Il patto venne suggellato da un matrimonio che coinvolse la giovane Francesca da Polenta e l'anziano, zoppo e rozzo Gianciotto Malatesta. Per guadagnare l'approvazione della giovane a questo matrimonio, la tradizione, che risale a Giovanni Boccaccio, dice che sia avvenuto per procura, dove il procuratore fu il più giovane e aitante fratello di Gianciotto, Paolo Malatesta di Giaggiolo (rocca nell'Appennino forlivese), del quale Francesca si invaghì per un malinteso, credendo che fosse lui il vero sposo, anche se ciò non poteva essere possibile perché Francesca sapeva benissimo che Paolo era già sposato. Si aggiungono poi al quadro narrativo tradizionale la figura del brutto e crudele Gianciotto, fino al maligno servo che spiava i due amanti e poi il tragico e noto finale del duplice omicidio degli amanti. In realtà, secondo la vera documentazione storica dei fatti, sono pochi i dati veramente riscontrabili: i dati anagrafici dei protagonisti e la loro discendenza. Pare infatti che l'alleanza tra le due famiglie fosse così vantaggiosa per entrambe, grazie a strategie politico-dinastiche complementari, che il fatto di sangue diventò un fatto da mettere a tacere il più presto possibile. Non si sa per esempio dove sia accaduto realmente il duplice omicidio: alcune ipotesi indicano il Castello di Gradara, altre la Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna, ma si tratta solo di congetture. Ancora, altre ipotesi parlano della Rocca di Castel nuovo presso Meldola. |
Punti Notevoli |
L'incontro con Paolo e Francesca è il primo di tutto il poema nel quale Dante parli con un dannato vero e proprio (escludendo infatti i poeti del Limbo). Inoltre per la prima volta in assoluto viene ricordato un personaggio contemporaneo, conformemente al principio che Dante stesso ricorderà in Pa XXVII di ricordare di preferenza le anime di fama note perché più persuasive per il lettore dell'epoca (fatto senza precedenti nella poesia impegnata e per molto tempo senza seguito, come ebbe modo di far notare Ugo Foscolo).
Paolo e Francesca si trovano nella schiera dei "morti per amore", e il loro avvicinarsi è descritto da ben tre similitudini che richiamano il volo degli uccelli, riprese in parte dall'Eneide. Tutto l'episodio ha come motivo conduttore quello della pietà: la pietà affettuosa percepita dai due dannati quando vengono chiamati (tanto da far dire a Francesca un paradossale desiderio di pregare per lui, detto da un'anima infernale), oppure la pietà che traspare dalla meditazione che Dante ha dopo la prima confessione di Francesca, quando resta in silenzio, infine il culmine finale quando il poeta cade svenuto (di pietade / io venni men così com'io morisse). Per questo Dante è molto indulgente nella rappresentazione dei due amanti: non vengono descritti con severità intransigente o sprezzante (per esempio come è descritta freddamente poco prima Semiramide), ma il poeta mette alcune scusanti al loro peccato, sia pure solo sul piano umano (non mette in dubbio per esempio la gravità del peccato, essendo ferme le sue convinzioni religiose). Francesca appare così una creatura gentile intesa come di metodi cortesi cioè di corte. Francesca, nelle sue parole, esprime la teoria dell'amore cortese dello scrittore francese Andrea Cappellano, in parte ripresa dallo Stilnovo. L'amore nasce dai cuori gentili (nobiltà di sentimenti) non per trasmissione ereditaria ed inoltre esso viene generato dalla bellezza e possiede una forza irresistibile. Tuttavia in questo canto Dante-autore, proteso verso un amore virtuoso di chiara ispirazione cristiana, supera la tradizione cortese-stilnovistica la cui concezione dell'amore non procurerebbe un rinnovamento morale e porterebbe quindi ad un obnubilamento della ragione, ad una condizione di peccato. |
Testo | Parafrasi |
Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia, e tanto più dolor, che punge a guaio. 3 |
Così discesi dal I Cerchio al II, che cinge uno spazio minore, ma contiene tanto maggior dolore che spinge a lamentarsi. |
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia. 6 |
Minosse sta orribilmente sulla soglia e ringhia: esamina le colpe dei dannati che si presentano; li giudica e li destina a seconda di come attorcigli la coda. |
Dico che quando l’anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata 9 |
Dico che quando l'anima dannata si presenta davanti a lui, rende piena confessione; e quel conoscitore dei peccati |
vede qual loco d’inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. 12 |
stabilisce in quale zona dell'Inferno debba andare; si cinge con la coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato deve discendere. |
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte. 15 |
Davanti a lui ci sono sempre moltissime anime; una dopo l'altra vanno a sottoporsi al suo giudizio; parlano e ascoltano, poi sono precipitati giù. |
«O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l’atto di cotanto offizio, 18 |
E Minosse, quando mi vide, mi disse questo, tralasciando un momento il suo alto compito: «O tu che vieni in questo luogo di dolore, |
«guarda com’entri e di cui tu ti fide; non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!». E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride? 21 |
bada al modo in cui entri e a chi ti stai affidando! Non ti inganni la facilità dell'ingresso!» E Virgilio rispose: «Perché continui a gridare? |
Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». 24 |
Non impedire il suo viaggio voluto da Dio: si vuole così in Cielo, dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire altro». |
Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. 27 |
Ora inizio a sentire le note dolenti; ora sono giunto in un luogo dove molta sofferenza mi colpisce. |
Io venni in loco d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. 30 |
Io giunsi in un luogo totalmente buio, che risuona come il mare in tempesta quando soffiano venti contrari. |
La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. 33 |
La bufera infernale, che è incessante, trascina rapinosamente le anime; li tormenta sbattendoli e percuotendoli. |
Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. 36 |
Quando arrivano davanti alla rovina, allora emettono urla, pianti, lamenti; qui bestemmiano Dio. |
Intesi ch’a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. 39 |
Capii che a questa pena sono dannati i peccatori di lussuria, che sottomettono la ragione al piacere. |
E come li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali; 42 |
E come d'inverno gli stornelli sono trasportati in volo dalle loro ali, formando una larga schiera, così quel vento trasporta gli spiriti malvagi; |
di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. 45 |
li trascina qua e là, su e giù; non hanno alcuna speranza che li conforti, né di riposo né di una diminuzione della pena. |
E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid’io venir, traendo guai, 48 |
E come le gru emettono i loro lamenti, formando in cielo una lunga riga, così vidi venire sospirando |
ombre portate da la detta briga; per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l’aura nera sì gastiga?». 51 |
delle anime, trasportate da quella tempesta; allora dissi: «Maestro, chi sono quelle anime castigate così dalla oscura bufera?» |
«La prima di color di cui novelle tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle. 54 |
«La prima di coloro di cui vuoi avere notizie,» mi rispose allora Virgilio, «fu imperatrice di molti popoli. |
A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. 57 |
Fu così dedita al vizio di lussuria, che rese lecito nella sua legge tutto ciò che le piaceva, per eliminare la condanna morale che le spettava. |
Ell’è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che ’l Soldan corregge. 60 |
Ella è Semiramide, di cui si legge che fu sposa di Nino al quale poi succedette: governò la terra che ora è governata dal Soldano. |
L’altra è colei che s’ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussuriosa. 63 |
L'altra è colei che si suicidò per amore (Didone), e non tenne fede alla memoria del marito Sicheo; poi c'è la lussuriosa Cleopatra. |
Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi ’l grande Achille, che con amore al fine combatteo. 66 |
Vedi Elena, per cui si combatté una lunga e sanguinosa guerra, e vedi il grande Achille, che combatté a scopi amorosi. |
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch’amor di nostra vita dipartille. 69 |
Vedi Paride, Tristano»; e mi indicò col dito più di mille anime, che morirono a causa dell'amore. |
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito nomar le donne antiche e ’ cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 72 |
Dopo aver sentito il mio maestro nominare le donne antiche e i cavalieri, fui presto da turbamento e quasi mi smarrii. |
I’ cominciai: «Poeta, volontieri parlerei a quei due che ’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri». 75 |
Cominciai: «Poeta, parlerei volentieri a quei due che volano insieme e sembrano essere trasportati tanto lievemente dal vento». |
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno». 78 |
Mi rispose: «Aspetta quando saranno più vicini a noi: allora pregali in nome di quell'amore che li trascina ed essi verranno». |
Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s’altri nol niega!». 81 |
Non appena il vento li portò verso di noi, iniziai a parlare: «O anime affannate, venite a parlarci se Dio ve lo consente!» |
Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate; 84 |
Come le colombe chiamate dal desiderio volano verso il dolce nido (per accoppiarsi), con le ali ferme e alzate, portate dal desiderio, |
cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettuoso grido. 87 |
allo stesso modo i due uscirono dalla schiera di Didone, venendo a noi attraverso l'aria infernale, tanto forte e affettuoso fu il mio richiamo. |
«O animal grazioso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 90 |
«O creatura cortese e benevola, che nell'aria oscura visiti noi che tingemmo il mondo di sangue, |
se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’hai pietà del nostro mal perverso. 93 |
se il re dell'universo ci fosse amico lo pregheremmo perché ti dia pace, visto che mostri pietà del nostro terribile male. |
Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 96 |
Noi vi ascolteremo e vi parleremo di ciò che volete, mentre il vento tace come fa in questo punto. |
Siede la terra dove nata fui su la marina dove ’l Po discende per aver pace co’ seguaci sui. 99 |
La terra dove sono nata (Ravenna) sorge alla foce del Po, dove il fiume si getta in mare per trovare pace coi suoi affluenti. |
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. 102 |
L'amore, che si attacca subito al cuore nobile, prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e il modo ancora mi danneggia. |
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. 105 |
L'amore, che non consente a nessuno che sia amato di non ricambiare, mi prese per la bellezza di costui con tale forza che, come vedi, non mi abbandona neppure adesso. |
Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. 108 |
L'amore ci condusse alla stessa morte: Caina attende colui che ci uccise». Essi ci dissero queste parole. |
Quand’io intesi quell’anime offense, china’ il viso e tanto il tenni basso, fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». 111 |
Quando io sentii quelle anime offese, chinai lo sguardo e lo tenni basso così a lungo che alla fine Virgilio mi disse: «Cosa pensi?» |
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!». 114 |
Quando risposi, dissi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio portarono questi due al passo doloroso!» |
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. 117 |
Poi mi rivolsi a loro e parlai dicendo: «Francesca, le tue pene mi rendono triste e mi spingono a piangere. |
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?». 120 |
Ma dimmi: al tempo della vostra relazione, in che modo e in quali circostanze Amore vi concesse di conoscere i dubbiosi desideri?» |
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 123 |
E lei mi disse: «Non c'è nessun dolore più grande che ricordare il tempo felice quando si è miseri; e questo lo sa bene il tuo maestro. |
Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. 126 |
Ma se tu hai tanto desiderio di conoscere l'origine del nostro amore, allora farò come colui che piange e parla al tempo stesso. |
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. 129 |
Un giorno noi leggevamo per svago il libro che narra di Lancillotto e di come amò Ginevra; eravamo soli e non sospettavamo quel che sarebbe successo. |
Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. 132 |
Più volte quella lettura ci spinse a cercarci con gli occhi e ci fece impallidire; ma fu solo un punto a sopraffarci. |
Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, 135 |
Quando leggemmo che la bocca desiderata di Ginevra fu baciata da un simile amante, costui, che non sarà mai diviso da me, |
la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». 136 |
mi baciò la bocca tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse; quel giorno non leggemmo altre pagine». |
Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea; sì che di pietade io venni men così com’io morisse. 139 |
Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva, così che io venni meno a causa del turbamento, proprio come se morissi. |
E caddi come corpo morto cade. 142 | E caddi come un corpo privo di vita. |
Analisi del Canto
modificaIl canto si presenta unitario e compatto, nello sviluppo completo del proprio argomento: descrive infatti il secondo cerchio infernale, quello dei lussuriosi, dal momento in cui Dante e Virgilio vi scendono fino al loro congedo dal mondo di queste anime.
Il secondo cerchio, Minosse - versi 1-24
modificaDante e Virgilio giungono nel secondo cerchio, più stretto (dopotutto l'Inferno è come un imbuto con cerchi concentrici), ma molto più doloroso, tanto che i dannati sono spinti a guaire, che è verso bestiale già citato per gli ignavi (III v.22).
Qui sta Minosse orribilmente e ringhia di rabbia: egli è il giudice infernale (da Omero in poi), che giudica i dannati che gli si parano davanti, attorcigliando la sua coda attorno al corpo tante volte quanti sono i cerchi che i dannati dovranno scendere per ricevere la loro punizione (è ambiguo se la coda sia lunga da essere attorcigliata in tanti giri quanti il "girone" o se sia corta quindi piegata più volte). Quando i dannati gli si parano davanti infatti confessano tutte le loro colpe, spinti da una forza divina, e Minosse decide, quale gran conoscitor de le peccata.
Minosse, vedendo Dante, interrompe il suo compito e tenta di farlo desistere dal proseguire avvertendolo di guardarsi dal fatto che sia facile entrare nell'Inferno, di diffidare da chi lo guida e che non lo inganni l'ampiezza della porta infernale (come a voler dire che entrarvi è facile, ma uscirne no). Virgilio allora prende subito la parola e, come aveva già fatto con Caronte, lo ammonisce a non ostacolare un viaggio voluto dal Cielo, usando le stesse identiche parole: Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole e più non dimandare.
Minosse, sebbene sia descritto con i tratti grotteschi di un mostro ha nelle sue parole un atteggiamento regale e solenne e sparisce di scena senza alcun cenno: egli è considerato come un puro servitore della volontà divina.
I lussuriosi - vv. 25-72
modificaOltrepassato Minosse, Dante si trova per la prima volta a contatto con dei veri dannati puniti nel loro girone:
«Or incomincian le dolenti note |
(vv. 25-27) |
In questo luogo buio, dove riecheggiano i pianti, si sente muggire il vento come quando in mare scatta una bufera, per via dei venti contrari che si incrociano; ma questa tempesta infernale non si arresta mai e trascina gli spiriti con la sua violenza, in particolare quando essi arrivano davanti al bordo del baratro infernale, la ruina. Davanti a quel precipizio aumentano le strida, il compianto, il lamento e le bestemmie. Cosa sia di preciso questa ruina non è chiaro, se la spaccatura dalla quale esce la tempesta o una di quelle frane prodotte dal terremoto dopo la morte di Cristo (cfr. Inf. XII, 32 e Inf. XXIII, 137), o forse il luogo dove i dannati devono discendere per la prima volta nel girone dopo la condanna di Minosse.
Dante in questo caso capisce al volo chi siano i dannati qui puniti: i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento, cioè i lussuriosi che hanno fatto prevalere l'istinto sulla ragione.
Seguono due similitudini legate al mondo degli uccelli: gli spiriti (che sono trascinati dal vento di qua, di là, di giù, di sù e che spererebbero almeno in un'attenuazione della pena). Alcuni di questi sembrano gli stormi disordinati, ma compatti, quando, all'arrivo del freddo, sono in partenza per la migrazione invernale; altri come le gru che volano in fila. Dante chiede spiegazione a Virgilio.
Egli lo accontenta e inizia ad elencare le anime di coloro che hanno la particolarità di essere tutti morti per amore:
- Semiramide, che fece una legge per permettere a tutti la libido nel suo paese e quindi non essere biasimata nella sua condotta libertina; è anche indicata come moglie e successore di , che regnò nella terra che oggi governa il Sultano, cioè Babilonia, anche se ai tempi di Dante il sultano regnava su Babilonia d'Egitto.
- Didone, personaggio virgiliano, che il maestro ha la delicatezza di non citare per nome, ma che indica come colei che ruppe fede al giuramento sulle ceneri di Sicheo e che si uccise per amore (di Enea).
- Cleopatra lussurïosa.
- Elena di Troia, per la quale tanto male nacque.
- Achille, il grande Achille, che combatté per amore (durante il medioevo si narrava che si fosse innamorato follemente di Polissena, figlia di Priamo, e per questo amore si fosse lasciato trarre in un agguato dove fu ucciso a tradimento, vedi anche le Metamorfosi di Ovidio).
- Paride.
- Tristano.
Dopo aver sentito parlare di queste anime, di antiche eroine e cavalieri (in senso lato, secondo l'accezione medievale, come personaggi mitici e importanti in genere), Dante è al colmo della "pietas" e ne resta quasi smarrito.
Paolo e Francesca - vv 73-142
modificaL'attenzione di Dante viene attirata da due anime che si muovono in fila, ma che, al contrario delle altre, sono affiancate l'una all'altra e sembrano leggère nel vento, quindi chiede a Virgilio di poter parlare con loro: questi acconsente e consiglia Dante di chieder loro di fermarsi quando il vento le porterà più vicino.
Dante allora si rivolge a loro: "O anime affannate, / venite a noi parlar, s'altri (cioè Dio) nol niega!". Allora esse uscirono dalla schiera dei morti per amore (dov'era Didone) come le colombe che si alzano insieme per volare al nido.
Le anime giungono così dal cielo infernale, grazie alla richiesta pietosa del Poeta. Parla la donna: (parafrasi) "Oh persona gentile e buona che visiti nell'oscuro inferno le anime di noi che tingemmo la terra di rosso sangue, se Dio fosse nostro amico, noi lo pregheremmo raccomandandoti a lui, perché hai avuto pietà di noi peccati perversi. Dicci cosa vuoi sapere e noi parleremo con te, finché il vento ci permette di riposare. La città dove nacqui si trova dove il Po trova la pace, sfociando nel mare coi suoi affluenti (Ravenna). L'amore che attecchisce velocemente nei cuori gentili fece invaghire lui (Paolo) della mia bella presenza, che oggi non ho più; il modo mi offende ancora" (verso ambiguo: Francesca intendeva che è ancora soggiogata dall'intensità (dal modo) dell'amore di Paolo, oppure che il modo in cui le fu tolta la sua bella persona (cioè il suo corpo) la urta ancora, alludendo all'omicidio? Per parallelismo con la terzina successiva in genere si preferisce la prima interpretazione): "Amor, che a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte...". Dunque, l'amore non esonera nessuna persona amata dall'amare a sua volta. Dante qui richiama esplicitamente la teologia cristiana secondo la quale tutto l'amore che ciascuno dona agli altri, tornerà indietro parimenti, anche se non nello stesso tempo o forma. Infine Francesca rappresenta un'eroina romantica, infatti in lei abbiamo la contraddizione tra ideale e realtà: lei realizza il suo sogno, ma riceve la massima punizione.
Queste furono le parole che essi dissero (sebbene parli solo Francesca). Dante china il viso pensoso, finché Virgilio lo sprona chiedendogli "A che pensi?"
Dante non dà una vera e propria risposta ma sembra proseguire ad alta voce i suoi pensieri: (parafrasi) "Che bei pensieri amorosi, quanto desiderio reciproco portò queste anime alla dannazione!". Poi, rivolgendosi di nuovo a loro: "Francesca, le tue pene mi fanno diventare triste e pio, al punto di aver voglia di piangere. Ma dimmi, con quali fatti e come siete passati dai dolci sospiri alla passione che porta tanti dubbiosi desideri?"
Ed essa rispose: (parafrasi) "Niente è peggiore per me che ricordare i tempi felici ora che sono in questa misera condizione, e lo sa bene il tuo dottore. Ma se proprio vuoi sapere l'origine del nostro amore, te lo racconterò tra le lacrime ("come colui che piange e dice"). Un giorno stavamo leggendo per passatempo dell'amore di Lancillotto. Eravamo soli e non sospettavamo niente. Più volte quella lettura ci spinse a guardarci e ci fece sbiancare temendo di affrontare l'amore... ma fu in un punto preciso che fu vinta la nostra volontà: quando leggemmo il bacio tra Lancillotto e Ginevra, Paolo, che da me non verrà mai diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto' fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno non andammo più avanti nella lettura.
Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva in modo talmente pietoso, che mi sentii morire e caddi per terra come cade un corpo morto."
Queste sono le due anime di Paolo Malatesta e di Francesca da Polenta che furono travolte dalla passione; vennero sorpresi da Gianciotto Malatesta, rispettivamente fratello di Paolo e marito di Francesca e trucidati a tradimento.
Francesca commossa dalla pietà mostrata da Dante gli racconta di quella passione così forte che li ha uniti sia nella vita che nella morte dal momento in cui i due si resero conto del loro amore reciproco, e durante tutto il racconto Paolo singhiozza. Dante infine vinto dall'emozione perde i sensi e cade a terra.