Divina Commedia - Inferno - VI Canto (superiori)
Il Sesto Canto dell' Inferno di Dante Alighieri si svolge nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300. In questo canto si affronta un tema politico, come ogni VI canto dell'opera.
Lettura e Parafrasi del Canto
modificaCerbero |
Cerbero nella mitologia greca era uno dei mostri che erano a guardia dell'ingresso degli inferi, su cui regnava il dio Ade. È un mostruoso cane a tre teste, le quali simboleggiano la distruzione del passato, del presente e del futuro. Tutto il suo corpo è ricoperto, anziché di peli, di velenosissimi serpenti, che ad ogni suo latrato si rizzano, facendo sibilare le proprie orrende lingue. Il suo compito è impedire ai vivi di entrare ed ai morti di uscire. In realtà nell'antichità il "nudo suolo" era definito Cerbero (o "lupo degli dei") poiché ogni cosa seppellita pareva essere divorata in breve tempo.
Il nome di Cerbero è entrato nella lingua italiana per esprimere, per antonomasia e spesso ironicamente, un guardiano arcigno e difficile da superare. Cerbero è figlio di Tifone e di Echidna e quindi fratello dell'Idra, di Ortro e della Chimera. Cerbero è un mastino gigantesco e sanguinario che emette dalle fauci dei latrati che scoppiano come tuoni. Il suo compito era sorvegliare l'accesso dell'Ade o Averno affinché nessuno dei morti ne uscisse. Nessuno è mai riuscito a domarlo, tranne Eracle e Orfeo. |
Ciacco |
Ciacco è un personaggio letterario, citato da Dante Alighieri nell'Inferno tra i golosi (VI, vv. 34-75) e anche da Giovanni Boccaccio in una novella del Decamerone. La sua figura non è ancora stata individuata storicamente.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: così questo personaggio si presenta a Dante e Virgilio nel VI canto. Ciacco è un sostantivo al quale si attribuiva normalmente il significato di "porco"; ma Ciacco era semplicemente da intendere come il diminutivo dei nomi Jacopo e Giacomo. Non sappiamo quale dei due significati abbia voluto intendere Dante, ma è probabile che intendesse entrambe le interpretazioni come valide. Il passo dantesco lascia spazio a numerose interpretazioni, come ad esempio quella di Francesco da Buti, uno dei più antichi commentatori della Commedia, che suggerisce una natura dispregiativa di questo nome: "Ciacco dicono alquanti che è nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua". In realtà l'uso della parola Ciacco come sinonimo di porco non è documentata prima del testo dantesco. Dalle parole di Dante sappiamo solo che egli era ancora in vita quando Dante era nato, per cui si può presumere che sia un personaggio della generazione precedente a quella del poeta. Generalmente non accettata, perché senza alcun riscontro plausibile, è l'identificazione con il poeta Ciacco dell'Anguillara. Il suo personaggio ha dei tratti grotteschi, per la sua apparizione improvvisa, per i suoi bruschi silenzi (e più non fe' parola... "Più non ti dico e più non ti rispondo") e per quel suo modo di guardare Dante storcendo gli occhi alla fine dell'episodio: forse per lo sforzo di restare seduto mentre il suo destino lo rispinge in basso, forse perché riassalito dalla bestialità del suo girone dopo aver conosciuto quei pochi minuti di lucidità che gli erano stati concessi per parlare con Dante. |
Il Contrappasso |
La pena dei golosi è una punizione di contrappasso per analogia generica: in quanto simili a bestie in vita saranno accovacciati per terra come animali, nella loro sporcizia e flagellati dalle intemperie. Essi infatti sono prostrati a terra e la pioggia li fa urlare come cani (come bestie); essi si fanno schermo l'un l'altro (strisciando quindi come vermi) e si rigirano spesso, questi miseri profani. Ma il contrappasso può essere anche per contrasto: mentre in vita i golosi sono andati alla ricerca delle più grandi prelibatezze culinarie, ora all'inferno sono costretti a stare sdraiati nel fango sotto una pioggia greve e maleodorante; e mentre in vita hanno vissuto per le esigenze del corpo, ora essi appaiono a Dante come vane ombre, vedendosi negato l'involucro di carne. Inoltre, la soddisfazione dell'odorato tramite i cibi, è punita dal fetore della terra, nella quale sono costretti a sprofondare in eterno. |
Testo | Parafrasi |
Al tornar de la mente, che si chiuse dinanzi a la pietà d’i due cognati, che di trestizia tutto mi confuse, 3 |
Quando mi tornarono i sensi, sopraffatti davanti all'angoscia dei due cognati (Paolo e Francesca) che mi riempì di tristezza, |
novi tormenti e novi tormentati mi veggio intorno, come ch’io mi mova e ch’io mi volga, e come che io guati. 6 |
mi vedo intorno nuove pene e nuovi dannati, in qualunque modo mi muova, e mi guardi intorno. |
Io sono al terzo cerchio, de la piova etterna, maladetta, fredda e greve; regola e qualità mai non l’è nova. 9 |
Sono nel III Cerchio, dove cade una pioggia eterna, maledetta, fredda e molesta; il suo ritmo e la sua qualità non mutano mai. |
Grandine grossa, acqua tinta e neve per l’aere tenebroso si riversa; pute la terra che questo riceve. 12 |
Nell'aria oscura si riversano una grandine spessa, acqua sporca e neve; la terra che ne è bagnata manda un odore sgradevole. |
Cerbero, fiera crudele e diversa, con tre gole caninamente latra sovra la gente che quivi è sommersa. 15 |
Cerbero, belva crudele e mostruosa, latra come un cane con tre teste sopra i dannati che sono sdraiati nel fango. |
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, e ’l ventre largo, e unghiate le mani; graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. 18 |
Ha gli occhi rossi, il muso sporco e unto, il ventre gonfio e le zampe con artigli; graffia, scuoia e fa a pezzi i dannati. |
Urlar li fa la pioggia come cani; de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo; volgonsi spesso i miseri profani. 21 |
La pioggia li fa urlare come cani; cercano di proteggersi l'un l'altro coi fianchi; i miseri peccatori si voltano spesso. |
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo, le bocche aperse e mostrocci le sanne; non avea membro che tenesse fermo. 24 |
Quando Cerbero, il mostro orribile, ci vide, spalancò le fauci e ci mostrò le zanne; non aveva parte del corpo che non tremasse. |
E ’l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne. 27 |
E il mio maestro aprì le mani, prese un po' di terra e la gettò coi pugni pieni nelle fauci fameliche del mostro. |
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ’l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, 30 |
Come quel cane che abbaia ed è affamato, e poi si placa quando addenta il boccone, poiché non ha altro pensiero che divorarlo, |
cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ’ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde. 33 |
allo stesso modo si placarono le facce sozze del demonio Cerbero, che rintrona a tal punto le anime che vorrebbero essere sorde. |
Noi passavam su per l’ombre che adona la greve pioggia, e ponavam le piante sovra lor vanità che par persona. 36 |
Noi camminavano sulle anime che la pioggia pesante abbatte, e poggiavamo i piedi sui loro corpi inconsistenti, dall'aspetto umano. |
Elle giacean per terra tutte quante, fuor d’una ch’a seder si levò, ratto ch’ella ci vide passarsi davante. 39 |
Esse erano tutte sdraiate per terra, tranne una che si mise a sedere non appena ci vide passare davanti. |
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto», mi disse, «riconoscimi, se sai: tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto». 42 |
Mi disse: «O tu che sei guidato attraverso l'Inferno, riconoscimi, se ne sei in grado: tu nascesti prima che io morissi». |
E io a lui: «L’angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, sì che non par ch’i’ ti vedessi mai. 45 |
Gli risposi: «L'angoscia che dimostri ti rende irriconoscibile, proprio come se non ti avessi mai visto. |
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente loco se’ messo e hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente». 48 |
Ma dimmi chi sei tu, che sei posto in un luogo così doloroso e subisci una pena tale che, forse, altre sono più gravi, ma nessuna è altrettanto spiacevole». |
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. 51 |
E lui rispose: «La tua città, che è tanto piena di invidia che ormai ha raggiunto il limite, mi ospitò nella vita terrena. |
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. 54 |
Voi fiorentini mi chiamaste Ciacco: a causa della colpa della gola, come vedi, sono fiaccato dalla pioggia. |
E io anima trista non son sola, ché tutte queste a simil pena stanno per simil colpa». E più non fé parola. 57 |
E io non sono l'unico dannato qui, poiché queste altre anime sono soggette alla stessa pena per lo stesso peccato». Poi non disse più nulla. |
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno 60 |
Io risposi: «Ciacco, il tuo affanno mi angoscia al punto che mi viene da piangere; ma dimmi, se lo sai, quale sarà il destino |
li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione per che l’ha tanta discordia assalita». 63 |
degli abitanti della città divisa (Firenze); se qualcuno di loro è giusto; e dimmi la causa della discordia che l'ha assalita». |
E quelli a me: «Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione. 66 |
E quello a me: «Dopo una lunga contesa verranno allo scontro violento, e la parte del contado (i Bianchi) caccerà l'altra (i Neri) con gravi danni. |
Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia. 69 |
Poi è destino che i Bianchi cadano prima di tre anni, e che l'altra parte prenda il sopravvento con l'aiuto di un uomo (Bonifacio VIII) che, ora, si tiene in bilico fra le due fazioni. |
Alte terrà lungo tempo le fronti, tenendo l’altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che n’aonti. 72 |
I Neri resteranno a lungo al potere, opprimendo i Bianchi con pesanti condanne, nonostante le loro lamentele. |
Giusti son due, e non vi sono intesi; superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi». 75 |
I fiorentini giusti sono solo due (sono pochissimi) e nessuno li ascolta; superbia, invidia e avarizia sono le tre scintille che hanno acceso i cuori». |
Qui puose fine al lagrimabil suono. E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni, e che di più parlar mi facci dono. 78 |
Qui smise di parlare con tono lamentoso. E io gli dissi: «Voglio che tu mi spieghi altre cose e che parli ancora con me. |
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni, 81 |
Dimmi dove sono Farinata Degli Uberti, e il Tegghiaio, che furono così degni cittadini, Iacopo Rusticucci, Arrigo, Mosca dei Lamberti e tutti gli altri che si adoperarono con l'ingegno per far bene: |
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca; ché gran disio mi stringe di savere se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca». 84 |
fa' che io conosca il loro destino, poiché ho gran desiderio di sapere se il Cielo li addolcisce o l'Inferno li avvelena». |
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere: diverse colpe giù li grava al fondo: se tanto scendi, là i potrai vedere. 87 |
E lui: «Essi sono tra le anime più malvagie: varie colpe li collocano nel fondo dell'Inferno e se scenderai fin laggiù, li potrai vedere. |
Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo». 90 |
Ma quando sarai tornato nel dolce mondo terreno, ti prego di ricordarmi ai vivi: non ti dico altro e non ti rispondo più». |
Li diritti occhi torse allora in biechi; guardommi un poco, e poi chinò la testa: cadde con essa a par de li altri ciechi. 93 |
Allora Ciacco strabuzzò gli occhi, mi guardò un poco e poi chinò la testa: ricadde insieme alle altre anime dannate. |
E ’l duca disse a me: «Più non si desta di qua dal suon de l’angelica tromba, quando verrà la nimica podesta: 96 |
E il maestro mi disse:«Non si rialzerà più, fino al suono della tromba angelica, quando verrà la potestà nemica (Cristo giudicante): |
ciascun rivederà la trista tomba, ripiglierà sua carne e sua figura, udirà quel ch’in etterno rimbomba». 99 |
ciascuno di essi rivedrà la triste tomba, si rivestirà del proprio corpo mortale, ascolterà la sentenza finale». |
Sì trapassammo per sozza mistura de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti, toccando un poco la vita futura; 102 |
Così oltrepassammo la sozza mescolanza delle anime e della pioggia, a passi lenti, parlando un poco della vita ultraterrena; |
per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti crescerann’ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran sì cocenti?». 105 |
allora dissi: «Maestro, queste pene aumenteranno dopo la sentenza finale, o diminuiranno, o resteranno immutate?» |
Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza, che vuol, quanto la cosa è più perfetta, più senta il bene, e così la doglienza. 108 |
E lui a me: «Torna alla tua scienza (la Fisica aristotelica), secondo la quale, quanto più una creatura è perfetta, tanto più sentirà il piacere e il dolore. |
Tutto che questa gente maladetta in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta». 111 |
Anche se questi dannati maledetti non saranno mai perfetti, tuttavia dopo il Giudizio raggiungeranno la completezza del loro essere». |
Noi aggirammo a tondo quella strada, parlando più assai ch’i’ non ridico; venimmo al punto dove si digrada: 114 |
Noi percorremmo il Cerchio in tondo, dicendo molte altre cose che non riferisco; venimmo al punto in cui si scende nel IV Cerchio |
quivi trovammo Pluto, il gran nemico. 115 | e qui trovammo Pluto, il gran nemico. |
Analisi del Canto
modificaI golosi, Cerbero - versi 1-33
modificaIl canto inizia con Dante che si riprende dallo svenimento dopo aver parlato con i due cognati Paolo e Francesca e già, mentre ancora è confuso dalla tristezza e l'angoscia (Dante usa il termine pieta, ma con significato, appunto, di angoscia, secondo altre interpretazioni prova pietà perché anche lui ha rischiato di cadere nell'amore passionale prima di essere salvato da Beatrice) per quegli sventurati, vede nuovi dannati e nuove pene tutto intorno a sé.
Il terzo cerchio dove egli si trova è quello de la piova / etterna, maladetta, fredda e greve, che cade sempre uguale con la stessa intensità; essa è composta da grossa grandine mischiata a acqua nera e neve, e si riversa nell'aria tenebrosa: la terra ricevendo questa pioggia puzza e diventa fanghiglia.
Qui si trova Cerbero fiera crudele e diversa (strana), che latra con tre teste sui dannati sommersi nella fanghiglia.
Anche Cerbero è un personaggio dell'Averno di Virgilio (Eneide, libro VI, v.417) e la descrizione di Dante si basa su quella del suo maestro, ma qui la bestia è più mostruosa, per una descrizione tra l'umano e il bestiale e per il fatto che inghiotte il fango gettato da Virgilio e non una focaccia soporifera, contenente miele e farina "drogata", come accadeva nel viaggio di Enea. Esso viene descritto con gli occhi rossi, la barba unta e nera, la pancia gonfia e le mani con unghie (non "zampe e artigli"), con le quali graffia i dannati e li squarta; inoltre con le sue urla gli 'ntrona (li "rintrona") li fa impazzire, così che essi vorrebbero essere sordi (vv. 32-33). Nella mitologia Cerbero è un simbolo di ingordigia (ecco perché lo troviamo in questo canto) e anche di discordia, per le lotte tra le sue diverse teste: non a caso nel canto si parlerà proprio delle discordie fiorentine.
Quando Cerbero vede Dante e Virgilio, apre le bocche e mostra loro le zanne, senza tenere fermo un singolo muscolo. Allora Virgilio distende le mani e getta nelle sue bramose canne (gole, secondo un linguaggio triviale) due pugni pieni di terra, che il cagnaccio si affretta a mangiare, come quei cani che desiderosi del pasto abbaiano e poi si interrompono subito appena lo ottengono.
Ciacco - vv. 34-93
modificaMentre Dante e Virgilio attraversano la massa di fango e anime abbattute ("adonate") dalla pioggia calpestandole (questo è uno dei pochi casi nell'Inferno dove le anime sono solo ombre senza corpo, una condizione teoricamente generica ma che all'Inferno Dante spesso non considera, mentre sarà frequente nel Purgatorio) una si alza in piedi appena essi le passano davanti.
Questi parla a Dante sfidando a riconoscerlo, poiché il poeta era vivo prima che il dannato fosse disfatto (cioè morto), ma Dante non lo riconosce per via del suo stato pietoso (sia fisico per la deturpazione, sia morale). Allora Dante gli chiede chi sia e cosa faccia sotto questa pena, affermando che se ne esistono anche di maggiori, nessuna è così poco dignitosa e spiacevole, sia a vedersi che a subirsi.
Allora Ciacco si presenta con il suo nome (o nomignolo); non si è certi perché è un personaggio che non è mai stato identificato esattamente: si pensa che il nome Ciacco, che, anche se senza fondamento, potrebbe significare "porco", sia riferito al modo e alla quantità di cibo che assumeva, oppure, più probabilmente, sia un diminutivo fiorentino di Jacopo o Giacomo, originario della stessa città di Dante (Firenze), che è piena d'invidia sì che già trabocca il sacco(metafora); è condannato per il peccato della gola, per il quale è fiaccato sotto la pioggia, ma non è solo, poiché tutte le anime attorno stanno lì per la stessa pena. E più non fé parola: il tono di questo incontro è ben diverso dal precedente con Paolo e Francesca ed è caratterizzato dalla grottesca figura di Ciacco a tratti comico (si pensi alla scelta del linguaggio di Dante piuttosto popolaresco, con rime su doppie consonanti poco liriche come -acco, -aggia e -anno) e a tratti inquietante, come dopo le brusche interruzioni del discorso come questa.
Spinto da una sua intuizione, il poeta gli chiede una profezia sulla sorte di Firenze (in realtà Dante non sapeva fino ad ora che le anime, anche quelle dei dannati, potessero profetizzare il futuro) e, dopo una veloce captatio benevolentiae sulla pietas provata nel vedere la sua pena, pone al dannato tre domande:
- A cosa arriveranno (verranno) i cittadini della città divisa (partita, cioè divisa in due parti, Firenze)?
- Esistono persone giuste?
- Quale fu la causa di tanta discordia? (ciò che causò le lotte interne fiorentine)
Ciacco risponde allora con precisione fiscale e alle tre domande nello stesso ordine nel quale gli sono state poste:
- La prima risposta è la celebre profezia su Firenze, la prima della Commedia, che tratta delle lotte tra guelfi bianchi e neri tra il 1300 e il 1302: dopo una lunga tenzone (dopo molte lotte) essi verranno al sangue (le zuffe del Calendimaggio 1300, dove uno dei Cerchi venne ferito gravemente in volto) e la parte selvaggia (rappresentati dai guelfi bianchi, poiché i Cerchi, in quanto capi fazione, venivano dal contado) caccerà l'altra con molta durezza; poi sarà questa altra parte a cadere entro tre anni (tre soli) e salirà l'altra fazione, grazie alla forza di qualcuno che ora sta in bilico (che testé piaggia, è Bonifacio VIII nel 1300 ancora neutrale); questa fazione terrà superbamente le fronti alte per molto tempo, tenendo l'altra sotto gravi pesi, per quanto essa pianga e si indigni.
- Ci sono solo ''due'' giusti (due inteso come cerchia ristretta di persone, e non precisamente due), e nessuno li ascolta: forse più che a due figure reali si deve pensare all'eco biblico dell'episodio della Genesi dove Abramo cercando di salvare una città distrutta dalla corruzione fa un patto con Dio, cercando almeno cinquanta uomini "giusti"; alla fine, nonostante lo sconto a dieci, egli non riesce a trovare nessuno tranne Lot e le sue figlie.
- superbia, invidia e avarizia sono le tre scintille che hanno acceso i cuori (accusa che Dante farà ripetere anche a Brunetto Latini, in Inf. XV).
Il fatto che Ciacco non parli a Dante del suo esilio ha fatto pensare ad alcuni (in particolare al Boccaccio) che queste prime cantiche dell'Inferno fossero state scritte verso il 1301, prima cioè che il poeta venisse a sapere della sua condanna. In realtà queste intuizioni si basano su indizi molto flebili (lo stesso Ciacco cita avvenimenti del 1302 e dice quanto l'egemonia dei Neri sarà lunga), e oggi si è propensi a pensare che il poeta volesse semplicemente sviluppare gradualmente il tema politico e quello delle profezie, lasciando per più tardi il vaticinio del suo esilio, pronunciato da Farinata degli Uberti nel X canto.
Nelle tre colpe (superbia, invidia, avarizia) si sintetizza il giudizio di Dante sulla storia del Comune, profondamente minato dalle invidie insorgenti fra le parti, dalla superbia e smania di dominare sia dei grandi sia del popolo, dall'avarizia e cupidigia mercantile.
Dopo queste parole Ciacco torna muto ed è Dante che deve sollecitare un'altra richiesta: "Qual è la sorte di un gruppo di fiorentini illustri della passata generazione, «ch'a ben far puose li 'ngegni?» (v. 81), li addolcisce il cielo o li avvelena (attosca) l'inferno? Essi sono Farinata degli Uberti, Arrigo (non più nominato nella Commedia), Mosca dei Lamberti, Tegghiaio Aldobrandi, Jacopo Rusticucci. Ciacco dice che essi sono tra le anime più nere e che si trovano nei cerchi inferiori dell'Inferno per diverse colpe.
Qui avviene un'altra tappa del processo di conversione del poeta: dopo aver visto che anche gli effetti della poesia amorosa, al quale aveva aderito in gioventù, possono portare alla dannazione, con l'episodio di Paolo e Francesca, adesso il poeta scopre che anche il valore politico in vita non garantisce la salvezza divina.
Infine Ciacco prega Dante di ricordarlo nel mondo dei vivi, poi si interrompe bruscamente: "più non ti dico e più non ti rispondo". Allora storce grottescamente gli occhi, attenuando lo sguardo forse per lo sforzo di restare seduto mentre il suo destino lo spinge nuovamente in basso, forse perché riassalito dalla bestialità del suo girone dopo aver conosciuto quei pochi minuti di lucidità che gli erano stati concessi per parlare con Dante; china la testa e sprofonda di nuovo nella fanghiglia, mentre Virgilio assicura che non si alzerà mai più da lì fino al Giudizio Universale, quando l'angelica tromba annuncerà la nimica podestade, cioè Dio, nemico dei dannati.
Condizione dei dannati dopo il Giudizio universale - vv. 94-115
modificaVirgilio prosegue dicendo che Ciacco non si risveglierà fino al giorno del Giudizio universale, nel quale ogni anima riprenderà il suo corpo e udirà quel ch'in etterno rimbomba, cioè la sua sentenza definitiva di condanna. Nel frattempo, mentre passano nella sozza mistura di anime e fango, Dante prende lo spunto per chiedere se i dannati, dopo la gran sentenza, avranno pene accresciute, minori o tali e quali. Virgilio risponde, ma non prima di aver invitato Dante a tornare alla sua scienza, ossia ai suoi maestri di filosofia e di teologia, che sono Aristotele e San Tommaso d'Aquino, secondo i quali, quanto una cosa è più perfetta, perché unione di corpo e d'anima, tanto più è destinata a percepire in misura maggiore il bene e il male, perché ogni sentimento è amplificato. E sebbene questa gente maladetta non sarà mai in vera perfezion, essa aspetta di miglior grado più il futuro (il di là) che la loro condizione attuale (di qua).
Così essi girano in tondo lungo l'orlo del cerchio, parlando di molte altre cose che Dante non riporta (è già la seconda volta che tace, dopo la conversazione con i quattro grandi poeti nel Limbo). Arrivano così al punto dove si digrada e qui trovano il guardiano del cerchio successivo: Pluto, il gran nemico.
All'interno della Divina Commedia questi passi costituiscono una primizia: è questo il primo punto in cui Dante tratta di una questione dottrinale. Prende come riferimento, in questo passo del VI canto della cantica infernale, Aristotele ("tua scienza" = la scienza che tu hai ben studiato, della quale sei a conoscenza) e la stessa dottrina di Tommaso d'Aquino.