Vita buona e conoscenza del bene: Socrate, Platone, Aristotele, Plotino

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Vita buona e conoscenza del bene: Socrate, Platone, Aristotele, Plotino
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Filosofia morale
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 75%

In questa lezione affronteremo quello che nell'ambito della Filosofia morale viene alluso al comportamento, al costume e al modo di agire degli uomini in particolare della vita buona e la conoscenza del bene secondo Socrate, Platone, Aristotele e Plotino. Fin dalle origini della filosofia la domanda "Che cosa è il bene?" è stata motivo di profonde discussioni e comizi, già a partire da Socrate si dà inizio ad un'indagine su cosa è la vita buona, come va intesa e come può essere definita. La risposta a questi interrogativi per la filosofia greca è che la vita buona risiede nella virtù (arete) che qualifica l'uomo rispetto a tutti gli altri esseri, a partire da Platone questa riflessione assume un connotato ontologico infatti l'idea del bene tende conoscibili le cose quindi tutto è centrato sulla conoscenza.

SOCRATE: il bene e la virtù

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Socrate fu il primo ad affrontare la questione del bene, ma non lasciò nulla di scritto. Tutto ciò che sappiamo di lui è grazie agli scritti di Aristofane, Senofonte, Platone e Aristotele. Platone, discepolo di Socrate, è fortemente entusiasta della grandezza del maestro, il quale diventa il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi giovanili, detti anche "socratici". Di tali dialoghi giovanili prenderemo in esame l'"Alcibiade primo". Come sappiamo che cosa sia bene o male per noi? Questa è la domanda alla quale Socrate, dopo averla esposta ad Alcibiade, tenta di trovare risposta. Per sapere cosa sia bene o male per noi dobbiamo tenere presente una sola cosa: "Conosci te stesso". Per Socrate, infatti, solo se saremo in grado di conoscere noi stessi potremo sapere che cosa è il bene e il male per noi e per gli altri, cioè la polis. Dalla cura di sé si arriva quindi alla conoscenza degli altri uomini e della vita in comune nella "polis". A questo punto possiamo delineare che, capendo chi sono io, capisco che cosa è il bene per me e per gli altri, perché noi siamo la nostra anima dove risiede la razionalità, quella parte divina che è in noi. Il bene alla luce di ciò, è ciò che è consono alla dimensione migliore di noi stessi. Nell' "Alcibiade primo" viene affrontato il problema del bene non solo sotto l'aspetto della conoscenza di se stessi, ma anche della virtù. Non è infatti possibile essere felici se non si è saggi e buoni, e quindi virtuosi. Se si è buoni e virtuosi si è anche liberi, perché la nostra intelligenza ci consente di cogliere ciò che è più bello per la propria vita; al contrario, l'uomo malvagio è servo della sua anima razionale. Egli non conosce la virtù ed è per questo indirizzato a provocare disgrazia a sé e agli altri. La forza, la ricchezza e la bellezza sono utili solo se vengono controllate dall'intelligenza altrimenti sono nocive, quindi si può riassumere la tesi di Socrate affermando che: "l'intelligenza rende liberi, l'ignoranza rende schiavi." Esaminando l'argomentazione di Socrate, dove, la conoscenza del bene determina l'essere virtuosi e l'ignoranza l'essere malvagi, si arriva a parlare di "intellettualismo etico"': la conoscenza del bene è condizione necessaria e sufficiente per la virtù quindi per fare del bene basta possedere la scienza del bene.

PLATONE: l'idea del bene e la vita mista

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La riflessione di Platone su tale argomento è molto più ricca e complessa: essa investe riflessioni di tipo antropologico, etico, metafisico e ontologico. Troviamo conferma in ciò che è stato appena menzionato nel mito della caverna, dove la struttura del reale e del mondo delle idee trova la sua finalizzazione nell'Idea del bene. Nei passi della Repubblica si capisce che per Platone la vera realtà non risiede nel mondo sensibile ma in quello soprasensibile delle idee, il quale può essere conosciuto grazie al sapere scientifico della ragione e dall'intelligenza. Ricordando la stima e la fedeltà che aveva Platone nei confronti del suo maestro Socrate, possiamo illustrare che cosa è il bene per Platone. Egli, riprendendo l'idea del suo maestro, amplia la conoscenza del bene alla conoscenza del bene supremo. La virtù nell'uomo esiste se si riferisce al bene assoluto cioè all'idea del bene che è principio di realtà di tutte le idee e di tutte le cose sensibili. L'Idea del bene, alla quale Platone si riferisce, è "al di là dell'essere" e viene paragonata al sole. Soltanto esso, infatti, è in grado di permettere alla vista di percepire il sensibile grazie alla luce che emana, mentre nutre e fa crescere le realtà visibili con il proprio calore. Stesse caratteristiche possono attribuirsi al bene, in quanto causa dell'essere delle altre idee. Nel libro VI e VII della Repubblica vengono esposti i gradi dell'essere e del conoscere. La realtà e la conoscenza sono così strutturate secondo una pluralità di gradi: Al livello più basso si trovano le immagini sensibili delle cose, seguite dagli enti sensibili che non costituiscono la realtà pienamente vera, data dal mondo soprasensibile. Tale mondo comprende i numeri, le figure geometriche, gli enti matematici in genere da un lato, mentre dall'altro, al livello più alto, le idee. Tra queste vi è anche la più importante di tutte: l'idea del bene. Ai due gradi della realtà sensibile si applica la conoscenza dell'opinione, la quale è suddivisa in immaginazione e credenza. La vera conoscenza è costituita dalla scienza che si esplica attraverso la ragione e l'intelligenza pura. Nel Filebo, Platone affronta la questione di che cosa sia la vita buona per l'uomo e lo fa mettendo a confronto due tesi contrapposte:

  • La prima tesi: è sostenuta da Filebo e Protarco: il bene consiste in una vita di piacere e di godimento;
  • La seconda tesi: avanzata da Socrate: il bene viene identificato con il pensiero e l'intelligenza.

Per Platone, né il piacere, né il pensiero considerati separatamente possono essere definiti "bene"; infatti, una vita piena di piaceri, ma priva di pensiero, non sarebbe una vita buona degna di un uomo, soprattutto perché è solo grazie all'intelligenza che possiamo distinguere il piacere dal non piacere. Anche una vita di sola intelligenza, però, non è sufficiente a costituire un bene compiuto. A tal proposito, Socrate indica una "terza possibilità": la vita buona per l'uomo deve essere mista di pensiero e di piacere anche se nel "Filebo" si sottolinea la dominanza dell'intelligenza sulla vita fatta solo di piaceri.

ARISTOTELE: la felicità e la critica dell'Idea platonica del bene

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Come abbiamo visto, secondo Platone il bene è il fine di ogni azione umana. Il pensiero Aristotelico nasce e si sviluppa proprio su tale teoria, creando una dottrina fondata tra il rapporto del bene supremo e il bene dell'uomo. Nell'Etica Nicomachea, Aristotele fornisce questa definizione: il bene è "ciò a cui tutto tende", quindi ogni arte, ogni ricerca, ogni azione, tende ad un bene che porta a identificare il bene a più possibili finalità, le quali sono molteplici tanto quanto sono i beni. Esiste solo un fine che non dipende da altro e dal quale dipendono tutti gli altri fini: il bene supremo che nell'uomo è rappresentato nella sua felicità. Ma che cosa è la felicità? L'uomo la identifica sotto forme diverse, l'onore, il piacere, la ricchezza; ma questi beni per Aristotele non possono assicurare l'autosufficienza. Una vita interamente dedicata ai piaceri, infatti, ci renderebbe schiavi di questi; la stessa cosa vale per l'onore, che ci farebbe dipendere dal giudizio altrui, come per la ricchezza, non identificata come una felicità dal momento in cui secondo Aristotele questa è un mezzo e non un fine. Nell'Etica Nicomachea Aristotele espone quale è la sua idea di felicità: ogni arte, ogni ricerca, ogni azione, ogni scelta mira infatti a un fine, ovvero a un bene, che viene definito come "ciò a cui tutto tende" e la felicità è proprio il fine ultimo, il bene supremo, che si basa nel praticare al meglio ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri.