Versioni di Ovidio (superiori)
Publio Ovidio Nasone (I secolo a.C. e d.C.)
modificaPublio Ovidio Nasone, più semplicemente Ovidio, è stato un poeta romano tra i maggiori elegiaci. La tendenza al galante e al piccante, a un certo ateismo di maniera, e l'indifferenza alla vita politica gli derivano dalla gioventù dorata imperiale, della quale Ovidio era uno dei rappresentanti più onesti, e per la quale egli scriveva. I rapporti dell'autore con le sue fonti sono problema importante per il filologo; ma più che ai suoi predecessori, egli deve molto all'ambiente culturale che lo circondava.
Cronologia della vita
modifica- 43 a.C.: 20 marzo. Nasce a Sulmona da una famiglia di ordine equestre.
- 31 a.C.: inizia i suoi studi a Roma.
- 8 d.C.: è esiliato a Tomi da Augusto.
- 18 d.C.: muore in esilio a Tomi.
Le opere
modificaOvidio scrisse un gran numero di opere, che possono essere facilmente divise in tre gruppi: le opere giovanili o amorose, le maggiori o della maturità e le opere dell'esilio. Altre opere sono andate pressoché perdute, mentre altre gli sono state erroneamente attribuite. Opere giovanili o amorose
La giovinezza e gli studi
modificaAmōrēs
modificaIn tre libri e 49 carmi che narrano la storia d'amore per una donna chiamata Corinna (personaggio letterario), secondo lo stile e le convenzioni dell'elegia amorosa: il poeta è asservito alla domina, soffre per le sue infedeltà, è geloso degli altri ammiratori e contrappone la vita militare alla vita amorosa. Ma Ovidio non soffre drammaticamente come Catullo e mantiene sempre un certo distacco intellettuale: vede l'amore come un gioco e questa concezione amorosa si traduce e si esplica in un ribaltamento degli atteggiamenti e dei temi tradizionali (Ovidio giunge ad amare anche due donne contemporaneamente, chiede all'amata non di essergli fedele ma di nascondergli i tradimenti affinché lui possa fingere di non sapere).
Mēdēa
modificaTragedia a noi non pervenuta, ma lodata dai contemporanei.
Hērōidēs
modifica21 lettere che Ovidio immagina scritte da donne famose ai loro amanti. Tre lettere, in particolare, hanno una risposta da parte dell'uomo amato. Si tratta di una tipologia completamente nuova per la letteratura latina: il filone erotico-mitologico viene per la prima volta svolto in forma epistolare (alcuni studiosi hanno trovato per questo analogie con le suasoriae, discorsi fittizi rivolti a personaggi mitici o storici per persuaderli o dissuaderli in determinate circostanze). Vi sono numerosi parallelismi con l'epica e con la tragedia (in particolare i monologhi delle eroine euripidee) e non mancano addirittura rivisitazioni e riscritture di alcuni miti (come nel caso della lettera di Fedra a Ippolito, nella quale la matrigna veste i panni di una scaltra seduttrice piuttosto che quelli di una donna disperata).
Ars amātōria
modificaIn tre libri. Secondo Concetto Marchesi, si tratta del "capolavoro della poesia erotica latina" in cui Ovidio si fa praeceptor amōris, un ruolo comunque svolto da quasi tutti i poeti elegiaci ma che, grazie a una sapiente mescolanza di generi (elegia, epica didascalica, precettistica tecnica), riesce ad acquisire un'importanza maggiore. I primi due libri sono dedicati agli uomini e trattano, rispettivamente, la conquista della donna e le tecniche di seduzione, e come far durare l'amore. Il III libro si propone di dare preziosi consigli alle donne. Il modello più frequente è quello "predatorio della caccia". L'oggetto della caccia non è più l'amore, ma il sesso. E infatti Ovidio consiglia di non innamorarsi, ma di saper vivere l'amore come un gioco. Perciò egli ammette anche il tradimento in una relazione. Per Ovidio il tradimento è un elemento base della società del suo periodo. Ma Ovidio specifica anche che non si riferisce al rapporto del matrimonio e neanche alle donne perbene. Egli dà consigli alle liberte, alle schiave e alle cortigiane. Quindi l'opera rappresenta vivacemente il quadro sociale del tempo di Ovidio e dunque non stupisce il fatto che non sia stata apprezzata da Augusto stesso (probabilmente per il velato rifiuto dei modelli etici arcaici).
Medicāmina faciēī fēminae
modificaOperetta sui cosmetici delle donne. Di quest'opera ci sono pervenuti solo 100 versi: i primi 50 costituiscono il proemio, i successivi 50 propongono 5 ricette di creme da applicare sul viso.
Remedia amōris
modifica400 distici elegiaci per resistere all'amore o liberarsene.
Opere maggiori o della maturità
modificaLe metamorfosi (Metamorphoseōn librī XV)
modificaIn 15 libri di esametri. Il capolavoro di Ovidio, ultimato poco prima dell'esilio, contiene più di 250 miti di trasformazioni, dal Caos all'apoteosi di Cesare e Augusto. L'opera si chiude con una preghiera agli dèi, affinché questi preservino a lungo l'imperatore Augusto. Scritto in esametri, in quindici libri (per circa 12 000 versi), vi si trova tutta la storia mitica del mondo, ma riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti continuati. Il criterio generale di compilazione segue l'ordine cronologico, ma molto spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto mosso e articolato, talvolta al limite dell'artificio, che mostra l'abilità stupefacente del poeta di legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune. L'unico principio unificatore è la metamorfosi. Tra gli strumenti adottati dal poeta vi è il racconto nel racconto, grazie al quale il poeta trasforma i personaggi "narrati" in personaggi "narranti" che raccontano vicende proprie o altrui. L'opera lo rese illustrissimo presso i contemporanei.
Fastī
modificaIn 6 libri. Nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto essere di 12 libri, uno per ogni mese dell'anno, ma Ovidio ne scrisse solo 6 (da gennaio a giugno) a causa dell'esilio. Egli intendeva illustrare (secondo un procedimento simile a quello utilizzato negli Aitia di Callimaco) le feste religiose e le ricorrenze varie del calendario romano introdotto da Cesare. Si tratta di un'opera di carattere eziologico ed erudito, ispirata al gusto alessandrino; Ovidio narra aneddoti, favole, episodi della storia di Roma, impartisce nozioni di astronomia, spiega usanze e tradizioni popolari. Ma l'intento celebrativo rimane esteriore, non essendo sorretto né da un interesse storico-religioso, né dal senso patriottico della grandezza di Roma.
Opere della relegazione
modificaTrīstia
modificaIn 5 libri di distici elegiaci: Ovidio riprende qui un tratto tipico della poesia elegiaca, il lamento. Ne derivano un centinaio di componimenti, raggruppati in questi 5 libri. Le elegie dei Tristia sono senza destinatario.
Epistulae ex Pontō
modificaLettere poetiche raggruppate in 4 libri: le Epistulae sono elegie indirizzate a vari personaggi romani (tra cui la terza moglie del poeta, rimasta a Roma) affinché potessero intercedere presso l'imperatore per porre fine all'esilio o, quanto meno, trasferire il poeta in una località più vicina a Roma.
Ībis
modificaCarme imprecatorio contro un anonimo avversario di Ovidio, prima suo amico e poi calunniatore.
Halieutica
modificaPoemetto sulla pesca nel Ponto.
Phaenomena
modificaPoema astronomico non giunto.
Altre opere minori
modificaOvidio scrisse canti di vario genere, ai quali il poeta allude in particolare nelle Epistulae ex Pontō; sono:
- un carme in lingua getica, in onore di Augusto e della famiglia imperiale (Dē Caesare).
- un carme, sempre in lingua getica, in onore di Tiberio, vincitore degli Illiri.
- un elogio in morte di Messalla Corvino.
- un epitalamio per le nozze dell'amico Paolo Fabio Massimo.
Opere erroneamente attribuite
modificaNon sono di Ovidio né il poemetto Nux di 182 versi (elegia in cui un noce si lamenta delle sassate che riceve ingiustamente dai passanti), né una Cōnsōlātiō ad Līviam di 474 versi, carme consolatorio alla moglie di Augusto per la morte del figlio Druso, nel 9 a.C. Qualche tardo manoscritto li attribuisce a Ovidio, ma ragioni stilistiche e metriche, oltre che di contenuto, fanno pensare a qualche imitatore posteriore.
Versioni
modificaVersioni dalle Metamorfosi
modificaVersione 1: (OOo) Incipit delle Metamorfosi
modificaGenere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico.
Ovidio fra il 2 e l'8 d.C. compose le Metamorfosi, un grande poema mitologico di ben 12 000 esametri, in cui si narrano oltre duecento miti. Filo conduttore del poema è la convinzione che la vita dell'universo altro non sia che il risultato di continue e incessanti mutazioni. Il tema è solennemente annunciato nell'incipit e il racconto incomincia dalla prima grande trasformazione, il passaggio dal caos primordiale alla separazione degli elementi ad opera di un dio "ordinatore".
In nova fert animus mutātās dīcere fōrmās
corpora; dī, coeptīs (nam vōs mutāstīs et illās)
adspirāte meīs prīmaque ab origīne mundī
ad mea perpetuum dēdūcite tempora carmen1!
Ante mare et terrās et quod tegit omnia caelum 5
ūnus erat totō natūrae vultus in orbe,
quem dīxere chaos: rudis indīgestaque molēs
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eōdem
nōn bene iunctārum discordia2 semina rērum.
nūllus adhūc mundō praebēbat lūmina Tītān3, 10
nec nova crēscendō reparābat cornua Phoebē4,
nec circumfūsō pendēbat in āere tellus
ponderibus librāta suīs, nec bracchia longō
margine terrārum porrēxerat Amphītrītē5;
utque6 erat et tellus illic et pontus et āēr, 15
sīc erat instabilis tellus, innābilis unda,
lūcis egens āēr; nūllī sua fōrma manēbat,
obstābatque aliīs aliud, quia corpore in ūnō
frigida pugnābant calidīs, ūmentia siccīs,
mollia cum dūris, sine pondere, habentia pondus. 20
Hanc deus et melior lītem7 natūra dirēmit.
nam caelō terrās et terrīs abscidit undās
et liquidum spissō sēcrēvit ab āere caelum.
quae postquam ēvolvit caecōque exēmit acervō,
dissociāta locīs concordī pāce ligāvit:
ignea convexī vīs et sine pondere caelī 25
ēmicuit8 summāque locum sibi fēcit in arce;
proximus est āēr illī lēvitāte locōque;
densior hīs tellus elementaque grandia trāxit
et pressa est gravitāte suā; circumfluus ūmor
ultima possēdit solidumque coercuit orbem. 30
- 1. Con perpetuum carmen Ovidio intende probabilmente un "componimento continuo".
- 2. Discordia è neutro plurale dall'oggettivo discors, discordis!
- 3. Si allude al titano Iperione che generò Elio, cioè il Sole.
- 4. È un altro nome di Artemide/Diana, e rappresenta la Luna.
- 5. Anfitrìte è una divinità marina, simboleggia quindi "il mare": l'immagine del mare che circonda le terre è già presente in Omero.
- 6. Utque = et ut; ut è in correlazione con sic del verso successivo.
- 7. È la contesa fra gli opposti, che nel caos primordiale sono costretti a coabitare, come esemplificato nei versi precedenti.
- 8. La prima metamorfosi consiste nella separazione dei quattro elementi fondamentali ai quali vengono assegnate zone proprie e ben separete: più in alto l'elemento più leggero, il fuoco, quindi, l'aria, poi la terra che trasse a sé gli elementi più pesanti, infine l'acqua che circonda il globo terrestre divenuto solido.
A narrare di forme cambiate in corpi stranieri
mi spinge l'ingegno; al progetto, dèi, date respiro
(siete voi che lo avete cambiato) e guidate i miei versi a discendere
dal primo principio del mondo di seguito fino ai miei giorni.
Prima del mare, dei campi, del ciclo a coprire ogni cosa, 5
per l'universo mostrava la natura un'identica faccia,
il Caos, come l'hanno chiamata: una massa informe e confusa,
nient'altro che un torpido peso e dentro,
ammucchiati e discordi, i germi di cose sconnesse.
Non c'era il Titano a elargire al mondo la luce, 10
né Febe rinnovava la falce crescente;
non stava sospesa, la Terra, con l'atmosfera a recingerla,
per proprio equilibrio, e Anfitrite
non aveva disteso le braccia lungo le sponde.
Se c'erano la terra, il mare e l'aria, 15
la terra era instabile, l'onda innavigabile, l'aria
senza luce: niente riusciva a serbare la stessa forma
e ogni cosa cozzava con l'altra: in un unico corpo
combattevano il gelo col caldo, il bagnato con l'arido,
il morbido insieme col duro, il greve con l'imponderabile. 20
Questo conflitto appianarono un dio e una natura migliore:
prese a staccare le terre dal cielo, e dalle terre le onde,
divise il limpido cielo dall'atmosfera più fitta.
Sbrogliate le cose e strappatele al fosco groviglio,
assegnava un posto a ciascuna, stringendole in lacci concordi di pace.
Nel cavo del ciclo s'accese, senza peso, l'essenza di fuoco 25
facendosi largo nei vertici supremi.
A lei subito sotto per leggerezza e per sede sta l'aria;
più densa di loro attrasse la terra, schiacciandoli sotto il suo peso,
i materiali massicci; l'acqua, versandosi in giro,
Versione 2: (OOo) Mai far arrabbiare Cupido!
modificaGenere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico .
Uno dei più bei miti, immortalato nei secoli non solo da poeti ma anche da pittori e scultori, racconta come Apollo s'innamoro della ninfa Dafne. Il dio, fiero di avere appena sconfitto il mostruoso serpente Pitóne, vide Cupìdo armato di arco e lo derise, disprezzando le sue inutili armi. Cupìdo, offeso, colpì Apollo con la freccia che suscita l'amore, Dafne invece con quella che lo fa rifiutare.
Prīmus amor Phoebī Daphnē Penēia1, quem nōn
fors ignāra dedit, sed saeva Cupīdinis īra,
Dēlius hunc nūper, vīctā serpente2 superbus,
vīderat adductō flectentem cornua nervō3 455
‘quid’ que4 ‘tibi, lascīve puer, cum fortibus armīs?’
dīxerat: ‘ista decent umerōs gestamina nostrōs,
quī dare certa ferae, dare vulnera possumus hostī,
quī modo pestiferō tot iūgera ventre prementem
strāvimus innumerīs tumidum Pythōna5 sagittīs. 460
Tū face nesciō quōs estō contentus amōrēs
inritāre tuā6, nec laudēs adsere nostrās!’
fīlius huic Veneris ‘fīgat tuus omnia, Phoebē,
tē meus arcus’ ait; ‘quantōque animalia cedunt
cuncta deō, tantō minor est tua glōria nostra.’ 465
Dīxit et ēlīsō percussīs āere pennīs
inpiger umbrōsa Parnāsī cōnstitit arce
ēque sagittiferā prōmpsit duō tela pharetrā7
dīversōrum operum: fugat hoc, facit illud amōrem;
quod facit, aurātum est et cuspide fulget acūtā, 470
quod fugat, obtūsum est et habet sub harundine plumbum.
Hoc deus in nymphā Pēnēide fīxit, at illō
laesit Apollineās traiecta per ossa medullās;
prōtinus alter amat, fugit altera nōmen amantis
silvārum latebris captīvārumque ferārum 475
exuviīs gaudēns innuptaeque aemula Phoebēs8:
vitta coercēbat positōs sine lēge capillōs.
Multī illam petiēre, illa aversata petentēs
inpatiēns expersque virī nemora avia lustrat
nec, quid Hymēn9, quid Amor, quid sint cōnūbia cūrat. 480
- 1. È sottinteso fuit; Daphnē è nom. sing. della declinazione greca. La ninfa Dafne è detta Peneia o Peneide perché figlia di Pèneo.
- 2. Victā serpente è retto da superbus; serpente è femm. Apollo aveva appena ucciso il mostruoso Pitóne.
- 3. Si ordini così: (hunc) vīderat flectentem cornua ("lo aveva visto tendere l'arco") adducto nervō. Cornua perché i terminali dell'arco ricordano la forma della corna di un bovino.
- 4. Que: Si traduca come se fosse vīderat... et dīxerat.
- 5. Pythōna è acc. sing. masch. della declinazione greca. Dal nome proprio del mitico mostro deriva il nome comune "pitone".
- 6. Tu... tuā è da ordinarsi così: Tū estō contentus inritāre face tuā nesciō quōs amōrēs ("non so quali amorazzi").
- 7. Si ordini il verso così: et ex (= ēque) sagittiferā pharetrā prōmpsit duō tela.
- 8. Phoebēs: è gen. sing. femm. della declinazione greca. Febe è qui confusa con Artèmide, dea vergine della caccia e dei boschi, che rifiutava l'amore e le nozze.
- 9. Hymēn: Imène, figlio di Apollo e di una musa, proteggeva il rito delle nozze.
Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,
e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido.
Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,
vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda: 455
«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»
gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle,
a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,
a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,
infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. 460
Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,
non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».
E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,
ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio
sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». 465
Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,
fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,
e dalla faretra estrasse due frecce
d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.
La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, 470
la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.
Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra
colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.
Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore
vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra 475
dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:
solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.
Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti
e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi
Versione 3: (OOo) Dafne, cuore di legno
modificaGenere: mitologico / Tema: miti / Varietà linguistica: latino classico .
Appena Apollo vide Dafne, se ne innamorò; ma lei, gelosa della propria purezza, scappò; raggiunta, chiese aiuto al padre Pèneo, che la trasformò in una pianta d'alloro, fra le braccia del dio disperato.
Ut canis in vacuō leporem cum Gallicus arvō1
vīdit, et hic praedam pedibus petit, ille salūtem;
alter inhaesūrō similis iam iamque tenēre 535
spērat et extentō stringit vestigia rostrō2,
alter in ambiguō est, an sit conprēnsus, et ipsīs
morsibus ēripitur tangentiaque ōra relinquit:
sīc deus et virgō est hic spē celer, illa timōre.
Quī tamen insequitur pennīs adiūtus Amōris, 540
ōcior est requiemque negat tergōque fugācīs
inminet3 et crīnem sparsum cervīcibus adflat.
vīribus absumptīs expalluit illa citaeque
vīcta labōre fugae spectāns Pēnēidās undās
‘fer, pater,’ inquit ‘opem!4 sī flūmina nūmen habētis, 545
quā nimium placuī, mutandō perde figūram!5’
[quae facit ut laedar mutandō perde figūram.]
vix prece finītā torpor gravis occupat artūs,
mollia cinguntur tenuī praecordia librō,
in frondem crīnēs, in rāmōs bracchia crēscunt, 550
pēs modo tam velōx pigrīs rādicibus haeret,
ōra cacūmen habet: remānet nitor ūnus in illā.
Hanc quoque Phoebus amat positāque in stipite dextrā
sentit adhūc trepidāre novō sub cortice pectus
conplexusque suīs rāmōs ut membra lacertīs6 555
ōscula dat lignō; refugit tamen ōscula lignum.
cui deus ‘at, quoniam coniūnx mea nōn potes esse,
arbor eris certē’ dīxit ‘mea! semper habēbunt
tē coma, tē citharae, tē nostrae, laure7, pharetrae;
tū dūcibus Latiīs aderis, cum laeta Triumphum 560
vox canet et vīsent longās Capitolia pompās;
postibus Augustīs eadem fidissima custōs
ante forēs stabis mediamque tuēbere quercum,
utque meum intonsīs caput est iuvenāle capillīs,
tū quoque perpetuōs semper gere frondīs honōrēs!’ 565
finīerat Paeān: factīs modo laurea rāmīs
adnuit utque caput vīsa est agitāsse cacūmen8.
- 1. Ut... vidit è il primo membro di una similitudine (il secondo comincia a v. 539 con sīc) e va ordinato così: ut cum ("come quando") canis Gallicus in vacuō arvō leporem vidit.
- 2. Extentō... rostrō: "con il muso proteso" per addentare la preda.
- 3. Tergōque fugācīs imminet: "incombe alle spalle della fuggitiva"; fugācīs è gen. femm. riferito a Dafne.
- 4. Vīribus... inquit va ordinato così: illa (= Dafne), vīribus absumptīs, expalluit et, victa lavōre citae fugae, spectāns Pēnēidās undās, inquit: "Pater, fer opem!". Pèneo era un dio-fiume della Tessaglia, padre di Dafne.
- 5. Quā... figūram: prolessi della relativa. Si ordini così: perde ("fammi perdere") figūram, quā nimium placuī.
- 6. Si ordini il verso così: et complexus suīs lacertīs rāmōs ut membra ("i rami, come se fossero un corpo").
- 7. Laure: Dafne si era trasformata in un albero d'alloro (in latino laurus, in greco daphnē), che da allora fu pianta sacra ad Apollo.
- 8. Factīs... cacūmen va ordinato così: laurea (sott. arbor) adnuit ramīs modo factīs ("appena formati") et vīsa est agitāvisse cacūmen ut ("come se fosse") caput.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;
questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto 535
d’averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, 540
corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, 545
dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, 550
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. 555
E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,
sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. 560
Fedelissimo custode della porta d’Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,
anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».
Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami 565