Tunisia: La rivolta del 2011

Approfondimento
Maghreb: saldi di regime
di Stella
da Nigrizia febbraio 2011
Dipartimento di Scuole
Dipartimento di Studi umanistici



Lettura integrativa di Geografia nelle scuole superiori

Maghreb: saldi di regime

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Da Nigrizia di febbraio 2011: la caduta dell'“imperatore” tunisino

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La rivoluzione tunisina, con il crollo e l'addio di Ben Ali, i moti popolari in Algeria e Sahara Occidentale, i morti in Egitto: sono tutti fatti che denudano la fragilità terminale degli stati di polizia che hanno guidato i paesi della sponda sud del Mediterraneo. L'incendio maghrebino – figlio dell'ingiustizia, della povertà e di un sistema di privilegi – rischia di travolgere anche gli interessi occidentali nell'area.

Il 14 gennaio, con la fuga di Zine Al-Abidine Ben Ali da Tunisi, verrà ricordato come il giorno della caduta di un impero. Nei suoi 23 anni di potere, l'ex presidente aveva messo sotto controllo ogni forma di comunicazione che potesse minacciare il suo regime. Nell'ultimo decennio erano stati soprattutto i giovani virtuosi delle rete e dei blog a farne le spese. Ma sono loro che hanno vinto l'ultima battaglia, impedendo che la contestazione, scoppiata a metà dicembre, restasse, come le altre volte, isolata e facile da soffocare. In tal modo, la protesta, iniziata con il gesto individuale e disperato di colui che è stato ribattezzato lo "Jan Palach tunisino", non si è fermata.

Mohamed Bouazizi era un giovane disoccupato che vendeva frutta e verdura per campare. Il 17 dicembre gli era sequestrata la merce perché non aveva la "licenza". Per protesta, si cosparse di benzina e si diede fuoco. La sua agonia sarebbe durata fino al 4 gennaio. Ma gli amici sono scesi subito per le strade di Sidi Bouzid, cittadina al centro del paese. È stato l'inizio di una ribellione che si è estesa ad altre località, fino a Tunisi. Partita dai giovani - che chiedeva in primo luogo lavoro - la protesta ha coinvolto altre categorie sociali. La reazione della polizia è stata brutale, con l'impiego di armi da fuoco. A metà gennaio, il bilancio era già pesante. Si è parlato di un'ottantina di vittime.

La sera del 13 gennaio, la svolta improvvisa e populistica: parlando alla televisione, Ben Ali ha detto di aver ordinato alle forze di sicurezza di non usare più le armi da fuoco contro i manifestanti; ha annunciato la riduzione del prezzo del pane, del latte e dello zucchero, e comunicato che non si sarebbe ricandidato alle elezioni del 2014.

Le aperture di Ben Ali sono giunte troppo tardi: ai giovani sono parse un segno di debolezza. La ribellione, spontanea e non organizzata, è dilagata ovunque ed è stato impossibile fermarla. Ci sarebbe voluto l'esercito. Ma il capo di stato maggiore, Rachid Anmar, si è rifiutato di far sparare sulla folla e si è dimesso; il numero delle vittime è aumentato.

Le ultime ore del dittatore, il 14 gennaio, sono state drammatiche: presa coscienza che non aveva più il controllo del paese e che il suo clan cercava solo di salvare il salvabile (si parla di 1,5 tonnellate d'oro, pari a 45 milioni di euro, portate dalla moglie all'estero), è fuggito in Arabia Saudita, respinto perfino dall'amico Sarkozy.

Il primo ministro, Mohammed Ghannouchi, dopo aver annunciato che «il presidente è scappato», ha preso l'interim della presidenza. Ma il popolo dei blog ha reagito: la costituzione prevede che, in caso di impedimento permanente, le funzioni passino al presidente del parlamento. Allora, Fouad Mebazza ha prestato giuramento e dato l'incarico a Ghannouchi di formare un governo di unità nazionale per portare a nuove elezioni presidenziali e legislative.

Il potere e la transizione

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Nel governo di unità nazionale, annunciato il 17 gennaio e guidato da Ghannouchi, i dicasteri chiave (interni, esteri, difesa e finanze) rimangono ai ministri dell'era Ben Ali. Inizialmente entrano a far parte dell'esecutivo alcune figure storiche dell'opposizione - come Najib Chebbi, del Partito democratico progressista (Pdp), al ministero dello sviluppo regionale; Mustapha Ben Jaafar, del Forum democratico per il lavoro e la libertà (Fdtl), alla sanità; Ahmed Ibrahim, di Ettajdid ("Rinascita", formazione ex comunista), all'università e ricerca scientifica - e della società civile, come la cineasta Moufida Tleti (cultura) e il blogger Slim Amamou (gioventù e sport). Ma alcuni di essi non si presentano al giuramento o annunciano il loro ritiro, lasciando il governo nel caos. L'impressione è che i bei nomi della società civile e dell'opposizione fossero serviti solo da alibi per mantenere in sella i poteri forti.

Infatti, la manovra non sembra bastare ai manifestanti: vogliono la completa rottura con il passato. Chiedono lo scioglimento del partito di Ben Ali, il Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd), la cacciata dei suoi dirigenti, l'incriminazione dei complici, la restituzione delle enormi fortune accumulate dal clan dell'ex presidente. La "rivoluzione dei gelsomini", com'è stata ribattezzata, rischia di naufragare sotto spinte divergenti.

La transizione non sarà facile. Durante la dittatura, ogni forma di opposizione è stata stroncata. I partiti politici non hanno avuto modo di entrare in contatto con la società. L'esercizio della democrazia sarà una sfida anche per loro. La società civile è in gran parte da costruire.

Il potere di Ben Ali era costruito, da una parte sulla violenza, dall'altra sulla corruzione che ha legato alla famiglia del presidente decaduto, e soprattutto alla seconda moglie, Leïla Trabelsi, una casta di fedeli servitori. Non è detto che questa rinunci ai propri privilegi e non sia tentata dalla destabilizzazione del paese, oppure, di fronte alle prevedibili divisioni dei partiti, non riesca a imporre una figura in grado di salvaguardare i propri interessi.

Terrorismo, il grande alibi

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Ci s'interroga sul possibile irrompere sulla scena dei fondamentalisti e di al-Qaida. Il pericolo esiste, ma le organizzazioni islamiche si trovano nella stessa situazione delle opposizioni laiche. Solo una transizione che perpetui corruzione e ingiustizia sociale offrirebbe all'islam radicale le condizioni per un ritorno in massa, come è accaduto in Algeria e in Marocco.

Il terrorismo è stato il grande alibi di Ben Ali. Appena preso il potere, nel 1987, con l'appoggio di alcuni governi occidentali, tra cui quello italiano, l'ex presidente aveva smantellato in modo discreto, ma molto fermo, la rete terroristica. Ecco il motivo per cui l'ineffabile ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, si è schierato fino all'ultimo a fianco del dittatore.

I prossimi mesi ci diranno se l'equazione "Ben Ali = garanzia contro il terrorismo" si dimostrerà sbagliata, come in Algeria e in Marocco, dove la mancanza di democrazia e l'ingiustizia sociale furono il terreno di coltura dell'integralismo islamico e del terrorismo.

La Francia e l'Unione europea - che a Tunisi aveva appena concesso uno statuto "avanzato" in virtù delle sue posizioni "democratiche" - si arrampicano sugli specchi per giustificare la loro complicità. Il caso tunisino segna la morte del processo euro-mediterraneo lanciato a Barcellona nel 1995. Rimane in piedi, pur con i problemi legati all'attuale crisi, l'aspetto economico; ma da tempo era chiaro come fosse l'unico interesse.

Effetto contagio

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Ci si chiede se l'effetto Tunisia possa coinvolgere gli altri paesi del Maghreb. Nella vicina Algeria la protesta, scoppiata all'inizio dell'anno in alcuni quartieri popolari di Algeri, si è diffusa rapidamente. Giovani senza lavoro sono scesi nelle strade per gridare il loro malessere. Molte le ragioni del malcontento: aumento dei prezzi, mancanza di alloggi, corruzione... I morti, a metà gennaio, erano "solo" cinque: la lezione dell'ottobre 1988, quando la rivolta popolare fu soffocata nel sangue con centinaia di vittime, è servita a contenere il triste bilancio. Ma è da oltre un anno che il paese vive in una specie di agitazione permanente.

Il governo algerino ha deciso subito di annullare l'aumento dei prezzi per placare la protesta, che non sembrava arrestarsi. Certo, non ha potuto avvalersi dell'effetto sorpresa, come è successo per i vicini tunisini. Ma il presidente Abdelaziz Bouteflika, in precarie condizioni di salute - che gli consentono una ridotta capacità di lavoro - ha portato il paese al più assoluto immobilismo. Le istituzioni vivono nell'attesa della decisione del "monarca" di continuare a mantenere o meno lo scettro del governo (le elezioni presidenziali sono previste nell'aprile 2014). Il paese è stanco di aspettare.

Intanto, i simboli della Tunisia contagiano. Persone s'immolano in Algeria, in Egitto, in Mauritania... È la manifestazione estrema di un disagio che non trova altri modi per esprimersi. Del resto, la rivolta nel Maghreb non è partita il 17 dicembre da Sidi Bouzid, ma dal Sahara Occidentale. I giovani sahrawi sono stati, dal 10 ottobre scorso, il punto di aggregazione di migliaia di persone nell'"accampamento della dignità" a Gdeim Izik, nei pressi di El Aiun, la capitale dei territori occupati dal Marocco. I giovani chiedevano semplicemente il diritto ad avere diritti, a cominciare dal lavoro. Nessuna bandiera della Repubblica araba sahrawi democratica (Rasd) o slogan indipendentisti. Non era un dissenso verso il Fronte Polisario, ma il modo per rendere visibile l'inconsistenza dell'"autonomia" che il Marocco propone al paese, che occupa illegalmente dal 1975. L'iniziativa è stata repressa nel sangue, con lo sgombero militare del campo l'8 novembre. Il Marocco ha isolato il territorio e impedito qualunque inchiesta. Per questo, il numero dei morti è ancora oggi indefinito.

Giovani protagonisti

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Da El Aiun a Sidi Bouzid, i giovani sono i veri protagonisti. Rappresentano, del resto, la stragrande maggioranza della popolazione: tre quarti di essi hanno meno di 30 anni e vivono una situazione paradossale. Nonostante i tagli all'istruzione, una parte dei giovani maghrebini, con l'eccezione dei sahrawi, giunge al diploma. Nascono, così, aspettative, che vengono subito deluse. Ma la crisi mondiale non spiega tutto. Si pensi all'Algeria, che il boom del prezzo del petrolio ha messo in una situazione finanziaria straordinaria: debito estero insignificante e riserve di valuta straniera impressionanti.

Si è parlato di povertà, che pure è diffusa, ma anche questo argomento è riduttivo. Marocco, Algeria e Tunisia investono molto, soprattutto in infrastrutture, per modernizzare l'economia. Ma la modernizzazione non tocca la gente. A goderne sono le imprese, legate al sistema di potere, che distribuisce gli appalti sulla base della fedeltà, non dell'efficienza. S'instaura, pertanto, un circolo chiuso tra potere e imprese, che impedisce all'uno e alle altre di svilupparsi realmente. Il giovane tunisino che si è dato alle fiamme si è ribellato perché, per avere la licenza, sarebbe dovuto entrare nella rete omertosa del potere.

L'ingiustizia è il sentimento più comune. In tutti e tre i paesi, la ricchezza esiste ed è ostentata. Automobili di lusso e dimore principesche non si nascondono più. La distanza tra i privilegiati e la gente comune tende ad aumentare, creando in molti un senso di frustrazione. È contro le ville e le sedi delle società del clan di Ben Ali, i simboli della corruzione, che i tunisini si sono scagliati durante la rivolta.

Il sentimento è così capillare che, per manifestarsi, non ha bisogno di rappresentanza. Il movimento è spontaneo, non organizzato. Gli stessi partiti di opposizione, laddove esistono, sono schiacciati dalla macchina del potere. Il vuoto organizzativo non è però, questa volta, occupato dalle forze fondamentaliste, che i giovani sentono ormai parte del sistema, con l'unica eccezione della Tunisia. Gli ingredienti ci sono tutti. Basterà un click per accendere il resto del Maghreb?