Il Risorgimento: differenze tra le versioni

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===La campagna del 1848===
Il 22 marzo 1848 sul giornale torinese ''Il Risorgimento'' apparve l'articolo ''L'ora suprema della Dinastia di Savoia'': recava la firma di Camillo Cavour.
 
Si chiedeva immediata guerra all'Austria: era questo il pensiero di tutti i liberali piemontesi. Cinque ore prima che fosse conosciuta a Torino la notizia che il Radetzky si ritirava da Milano, il Consiglio dei Ministri del Piemonte dichiarava guerra all'Austria. Era il 23 marzo 1848.
 
Intanto il Radetzky, dopo aver abbandonato Milano, si ritirava lentamente attraverso la Lombardia, senza subire molestie né da forze volontarie né da Piemontesi, che a Pavia aveva varcato il Ticino.
 
Era stato un errore non colpire le truppe austriache in ritirata. Mancò la decisione e l'iniziativa dei Piemontesi per distruggere gli Austriaci, stanchi ed avviliti dopo le cinque giornate di Milano. Ora essi erano al sicuro nelle fortezze del Quadrilatero (Verona, Peschiera, Mantova, Legnano): qui il Radetzky riunì tutte le guarnigioni già disperse nel Lombardo-Veneto.
 
Intanto l'esercito piemontese forte di 45.000 uomini, ma scarso di una buona artiglieria d'assedio, attraversava la Lombardia diretto al Mincio.
 
Un'esplosione di entusiasmo galvanizzò allora tutta l'Italia.
 
Modena, Reggio, Parma, Piacenza si liberarono dei loro poco amati sovrani e mandarono volontari in soccorso dei fratelli del Lombardo-Veneto.
 
Il granduca di Toscana, il Papa e lo stesso re delle due Sicilie furono costretti a mandare truppe regolari e a far partire volontari.
 
Da trenta secoli l'Italia non aveva visto così vivo consenso nella lotta contro un comune nemico.
 
L'inno di Mameli ''Fratelli d'Italia'' risuonò, nei campi di battaglia della Lombardia, pieno di verità e di speranza.
 
Tuttavia non c'era purtroppo accordo vero e sincero dei principi italiani tra loro. Il granduca di Toscana era in fondo un sovrano austriaco e vedeva con sospetto l'iniziativa piemontese; Ferdinando II temeva addirittura di cooperare all'ingrandimento del Piemonte; il Papa era incero tra l'amor di patria e la funzione di capo universale dei cattolici.
 
Ai primi di aprile i Piemontesi giunsero sul Mincio e batterono gli Austriaci a Goito, Valeggio, Monzambano. Poi assediarono la più vicina fortezza del Quadrilatero: Peschiera. Carlo Alberto in seguito ordinò ad una parte dell'esercito di portarsi a nord di Verona, fino a Pastrengo, sull'Adige: la battaglia che ne seguì ebbe esito fortunato per i Piemontesi.
 
Il Papa ormai intendeva disertare: come capo della Cristianità e rappresentante di un Dio di amore aveva cari tutti i popoli e non poteva partecipare ad una guerra contro la cattolica Austria. Il sogno giobertiano sfumava.
 
Era la prima diserzione, cui seguì poco dopo quella del Re delle Due Sicilie.
 
Intanto mentre l'esercito piemontese era inchiodato ad assediare Peschiera, rinforzi austriaci (20.000 uomini) giungevano al Radetzky. Questi decise allora di passare all'offensiva: uscì da Mantova per cogliere di sorpresa alle spalle l'esercito piemontese. Ma il 29 Maggio si scontrò a Curtatone e Montanara, sulle rive del Mincio, con i battaglioni toscani, formati in prevalenza da studenti pisani, fiorentini e senesi, giunti volontari sotto la guida dei loro stessi professori. Erano solo cinquemila; ma per tutto un giorno impedirono di passare alle forze austriache del Radetzky, enormemente superiori di numero.
 
Nel frattempo Carlo Alberto, informato della manovra austriaca, si preparò adeguatamente. A Goito Radetzky fu battuto e costretto alla ritirata: era il 30 maggio.
 
In quello stesso giorno si arrendeva la fortezza di Peschiera.
 
Questo fu l'ultimo successo dell'esercito piemontese. Poi gli Austriaci ripresero l'iniziativa, conquistarono Vicenza e batterono a Custoza in una lunga battaglia durata tre giorni (23 - 25 luglio) l'esercito piemontese.
 
Qui si decise la sorte di questa guerra.
 
Il disordine organizzativo, che era stato uno degli aspetti negativi dell'esercito piemontese, diventò incredibile. Interi reggimenti rimasero senza viveri. La ritirata fu inevitabile e non si arrestò nemmeno davanti alle mura di Milano. A Vigevano il generale Salasco firmò un armistizio di sei settimane (che prese appunto il suo nome).
 
Si concludeva così la prima fase della guerra.