''Robinson Crusoe'' di Daniel Defoe (superiori): differenze tra le versioni

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E poiché quivi era un ingresso alla mia grotta, lavorai un uscio di tavole collocandolo in quell’andito un po’ in dentro; il quale aprivasi dalla parte interna e lo teneva sbarrato tutta la notte, tirandomi anche la mia scala: per tal modo Venerdì non poteva penetrare oltre la cinta del mio primo muro senza far tanto strepito, che non mi avesse svegliato. Questa mia interna circonvallazione aveva ora una perfetta soffitta formata di lunghi pali, da cui tutta la mia tenda era coperta. Andando questa ad appoggiarsi alla spalla del monte era attraversata da rami che teneano luogo di assicelle intrecciate di paglie di riso, forti come le canne palustri. Circa poi a quell’apertura per dove si entrava e donde si usciva mediante la scala a mano, io aveva posto una specie di porta a trabocchetto, affinché chi avesse tentato aprirla dal di fuori, fosse invece caduto giù facendo grande fracasso: quanta alle armi io le ritirava tutte dalla mia banda durante la notte.
 
Per altro non tardai ad accorgermi che di tante cautele io non aveva bisogno, perchèperché uomo al mondo non ebbe un servo più fedele, amoroso e leale di quanta fu per me Venerdì. Disinteressato, docile, incapace di macchinazioni, tutto dedito a me, comportavasi meco come figliuolo con padre; e ardisco dire che in qualunque occasione avrebbe messo la sua vita per salvare la mia, della qual devozione mi diede tante testimonianze, che postomi fuor d’ogni sospetto, non tardai a persuadermi come fosse inutile ogni guarentigia che rispetto a lui io cercassi alla mia sicurezza.
 
Ciò mi diede spesse volte cagione di fare, non senza grande mia meraviglia, una osservazione: vale a dire, che se bene fosse piaciuto a Dio nella sua provvidenza e nel governo delle opere di sua mano il lasciar tanta parte di sue creature incapaci di far quel buon uso del proprio intelletto cui le prerogative delle anime loro erano acconce, pure avea compartite anche a queste le medesime facoltà, le stesse affezioni, i medesimi sentimenti d’amorevolezza; come pure uguali passioni nel risentirsi delle ingiurie, ugual senso di gratitudine, di sincerità, di fedeltà, tutta in somma quell’attitudine per fare il bene e comprendere il bene ricevuto, delle quali ci aveva fornito; in guisa che quando gli piace offrire anche a questi occasioni di adoperare tali facoltà sono pronti, anzi più pronti di noi nell’applicarle a retto uso. Ciò mi rendea talvolta grandemente malinconico quando mi si dava il caso di pensare al poco buon uso che di questa capacità facciamo noi illuminati dalla grande fiaccola d’ogni sapere, dallo spirito del Signore e dalla conoscenza delle sue parole aggiunta al nostro intelletto; nè sapeva comprendere perchèperché Dio avesse tenuta celata questa salutare conoscenza a tanti milioni d’uomini, i quali, se devo giudicarlo da quel selvaggio, ne avrebbero tratto miglior frutto che noi non facciamo.
 
Queste considerazioni, lo confesso, mi portavano talora troppo lontano, perchèperché il mio discutere su la sovrana Provvidenza, era quasi un accusarne la giustizia distributiva che, nascondendo la luce ad alcuni e rivelandola ad altri, richiedeva gli stessi doveri dai secondi e dai primi; ma presto imponeva silenzio ai miei audaci pensieri concludendo così: «Primieramente non sappiamo qual luce abbia data ai secondi, nè in forza di qual legge vengano condannati; e poichèpoiché Dio è necessariamente e per essenza infinitamente santo e giusto, non potrebbe spiegarsi un decreto che gli allontanasse eternamente dalla sua presenza, se non si ammettesse aver essi peccato contro a quella luce che, come dice la Scrittura, doveva essere una legge per essi e a quelle regole per cui le coscienze loro dovevano conoscere il giusto senza la divina rivelazione. In secondo luogo ci vediam ridotti al silenzio, ove pensiamo che essendo tutti noi creta nelle mani dal vasaio, niun vaso ha il diritto di chiedergli: PerchèPerché mi hai formato così?» Ma torniamo al mio nuovo compagno.}}