''Robinson Crusoe'' di Daniel Defoe (superiori): differenze tra le versioni
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{{citazione|Egli era un bel pezzo di giovinotto, gentile d’aspetto, perfettamente ben complesso, di membratura gagliarda e regolare, non troppo tarchiato, alto e di belle proporzioni, dell’età, ai miei conti, di ventisei anni all’incirca. Avea tutte quelle qualità che fanno una buona fisonomia, non feroce o torva, pur virile sembianza e dotata ad un tempo di tutta la grazia e piacevolezza di una faccia europea, massimamente quando ridea. Lunga e nera erane la capellatura, non crespa a guisa di lana; spaziosa ed alta la fronte; vivacissima e scintillante l’acutezza delle sue pupille. Il colore della sua carnagione non era affatto nero, ma bronzino, non per altro di quel bronzino che è piuttosto un gialliccio brutto e schifoso, e che suol essere proprio de’ nativi del Brasile e della Virginia e d’altri popoli dell’America, ma una specie di lucente color d’oliva carico, che aveva in sè stesso non so qual cosa d’aggradevole che non sarebbe sì facile il descrivere. Rotondo e pienotto il volto; naso piccolo, nè schiacciato siccome quello de’ Negri; bocca ben fatta, delicate labbra, bei denti ben ordinati e bianchi come l’avorio.
In poco tempo cominciai a parlare con esso e ad insegnargli a parlare con me, e per prima cosa gli lasciai conoscere che il suo nome sarebbe Venerdì,
Rimasto con lui tutta quella notte, appena fu giorno, gl’intimai di seguirmi facendogli comprendere che gli avrei dati panni per coprirsi, di che parve allegrarsi grandemente,
Ma non contento a questa ragionevole congettura, ed essendomi ora cresciuto il coraggio e per conseguenza la curiosità, presi meco il mio Venerdì, cui posi nelle mani la mia sciabola e agli omeri l’arco e le frecce (nel trattar le quali armi lo trovai in appresso destrissimo), ed in oltre gli feci portare un moschetto per me e due altri ne presi io medesimo; poi ci avviammo al luogo ove quegli sciagurati gozzovigliarono, perchè era mia mente ora il procacciarmi più minuti ragguagli intorno a loro. Arrivato colà, tutto il sangue mi si gelò nelle vene, e il cuore mi si aggruppo all’orrore della vista che si offerse al mio sguardo. Coperto per ogni dove d’ossa umane era quel campo; il terreno imbevuto di sangue; sparso qua e la di grossi pezzi di carne umana, quali arrostiti, quali abbrustoliti, per metà mangiati, per metà masticati: vidi in somma tutti i segnali del fero pasto che coloro aveano fatto quivi dopo una vittoria riportata su i loro nemici: tre teschi, cinque mani, le ossa di tre o quattro gambe e piedi e brani in copia di corpi squartati, intorno a che Venerdì m’informò per cenno, come quattro fossero stati i prigionieri condotti quivi, tre de’ quali mangiati, eccetto lui, e qui accennava sè stesso, che senza di me sarebbe stato il quarto; come fosse avvenuta una grande battaglia tra coloro che poi rimasero vincitori, ed un re vicino di cui parea che Venerdì fosse suddito; come essendo stato fatto grande numero di prigionieri, quelli che se ne impadronirono li conducessero a mano a mano in diversi luoghi per fame banchetto, siccome accadde ai tre più sgraziati dei quattro condotti lì il giorno innanzi.
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