Sentenza Corte Costituzionale n. 85/2013 (Ragionevole Bilanciamento tra Diritti Costituzionali): differenze tra le versioni
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Il Giorno 9 Aprile 2013 la Corte Costituzionale, Presieduta dal Giudice Franco GALLO e composta dai Giudici Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO è stata chiama a '''vagliare la legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 –''', dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 22 gennaio 2013 e dal Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 15 gennaio 2013, iscritte, rispettivamente, ai nn. 19 e 20 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2013. Il Giudice relatore è Gaetano SILVESTRI. La Corte Costituzionale ha deciso il 15 Maggio 2013.
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Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri le questioni sollevate, nonostante l’evocazione, quali parametri di legittimità, di «ben diciassette norme della Costituzione», sarebbero riducibili a due gruppi fondamentali:
* Il primo nucleo di censure attiene al principio di separazione tra i poteri ed al dovere dell’ordinamento di prevenire e reprimere i reati: Le leggi provvedimento non sono per sé vietate dalla Costituzione. La disciplina censurata non costituisce un caso isolato. In casi del genere non vi sarebbe alcuna preclusione di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna inibizione dei poteri di indagine e di azione facenti capo al pubblico ministero, né infine alcuna predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola controversia. La disciplina censurata, oltre ad introdurre una nuova sanzione per le violazioni dell’AIA, ha specificamente conservato le sanzioni preesistenti, anche penali. D’altra parte, la doglianza relativa all’inibizione di nuovi ed efficaci provvedimenti cautelari di natura reale sarebbe illogica, ben potendo il legislatore legittimare determinate condotte per il futuro, ed apparendo congrua, di conseguenza, la disattivazione dei poteri pertinenti alla giurisdizione penale. Neppure sussiste la prospettata violazione dell’art. 113 Cost. Sarebbe del tutto naturale, nel caso di «passaggio dall’atto amministrativo alla legge», che venga meno la giurisdizione del giudice comune, senza che questo comporti una compressione del diritto di agire in giudizio, poiché la doglianza, trasferendosi sul piano della legittimità della norma, può riproporsi tramite il giudice comune nell’ambito della giurisdizione costituzionale. Infine, non vi sarebbe alcun contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dunque con il primo comma dell’art. 117 Cost. La Convenzione non esclude radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistono esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale». D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non ha modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, ed impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
* Il secondo nucleo di questioni attiene al bilanciamento tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre e diritto all’iniziativa economica privata: L’opinione del giudice a quo – secondo cui il diritto alla salute avrebbe carattere «assoluto», non suscettibile di bilanciamento – non potrebbe essere condivisa. Mancando una lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, farebbe anche difetto la denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 35 della “Carta di Nizza”, ed all’art. 191 del TFUE. Si ribadisce che l’AIA rilasciata il 6 ottobre 2012 anticiperebbe l’adozione delle «BAT» individuate a livello europeo ed assicurerebbe l’osservanza del diritto dell’Unione, che esclude l’assunzione a livello giurisdizionale del compito di dettare le prescrizioni tecniche per il sicuro esercizio delle attività produttive. La conferma dell’assunto di una piena funzionalità della disciplina censurata alla tutela dell’ambiente e della salute si rinviene nell’efficacia delle misure assunte in esecuzione dell’AIA riesaminata (riduzione della produzione, selezione dei combustibili, modalità di stoccaggio e movimentazione delle materie prime, ecc.).
La società Ilva S.p.A. si è costituita in persona del presidente del consiglio di amministrazione chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
Dopo aver ricordato come il Tribunale di Taranto, con ordinanza depositata il 20 agosto 2012, avesse corretto il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, ammettendo che la produzione avrebbe potuto continuare, sia pure previa adozione di misure per il contenimento delle emissioni, la parte privata esamina i contenuti dell’AIA rilasciata in sede di riesame, il 26 ottobre successivo, a partire dall’autorizzazione per la ripresa delle attività produttive, legata ad una rigorosa tempistica per la realizzazione delle misure di risanamento (sostanzialmente coincidenti con quelle indicate dai periti dell’autorità giudiziaria, e compatibili con le «BAT» di ispirazione europea).
Mancando della disponibilità materiale degli impianti, l’Ilva ne aveva chiesto il dissequestro, ma il giudice per le indagini preliminari, con provvedimento del 30 novembre 2012, aveva respinto l’istanza, sul presupposto che l’AIA non aveva subordinato la ripresa delle attività produttive alla previa e completa attuazione delle cautele necessarie a contenere le emissioni nocive (provvedimento illegittimo, secondo la parte, perché risoltosi in una disapplicazione in via di fatto dell’autorizzazione conseguita dall’azienda). Negli stessi giorni, il giudice aveva sequestrato i prodotti finiti o semilavorati, che in effetti l’azienda aveva realizzato dopo il sequestro degli impianti, ma avvalendosi in ciò della «autorizzazione» asseritamente rilasciata dal Tribunale del riesame e sotto il controllo dei custodi.
Era poi sopravvenuto – prosegue la parte – il d.l. n. 207 del 2012, di talché l’Ilva aveva chiesto di rientrare in possesso dei beni sequestrati. La Procura di Taranto aveva «immesso [la società] nel possesso dei beni dell’impresa», fermo restando però il sequestro, con la conseguenza che dovevano «essere mantenuti i sigilli in quanto necessari ad attestare la sottoposizione dei beni al vincolo di indisponibilità». Il Giudice per le indagini preliminari, dal canto proprio, aveva rigettato l’istanza concernente i prodotti, sul presupposto che lo ius superveniens non si applicasse a merci prodotte prima della relativa entrata in vigore.
Era poi intervenuta la legge n. 231 del 2012, di conversione del d.l. n. 207, specificando che dovevano essere rimessi nella disponibilità dell’Ilva anche i prodotti realizzati prima dell’adozione dello stesso decreto-legge. Rifiutando di accogliere la nuova e conseguente istanza di dissequestro formulata dalla società, il pubblico ministero si era rivolto al Giudice per le indagini preliminari per il rigetto, affiancando tale richiesta a quella d’una modifica del regime cautelare concernente gli impianti di produzione.
Dopo l’ordinanza con la quale lo stesso giudice ha sollevato a sua volta questioni di legittimità costituzionale, è stata disposta la vendita delle merci in sequestro, sul presupposto della loro deperibilità (ordinanza del 14 febbraio 2013).
Tutto ciò premesso in fatto, la parte costituita assume che le censure proposte dal rimettente sarebbero infondate.
Le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge avrebbero realmente un carattere generale, riguardando l’intera platea di titolari di AIA. Il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di protezione ambientale.
Passando all’esame dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, la società Ilva sostiene che la norma «fa applicazione, direttamente in via legislativa, delle disposizioni di cui all’art. 1». In sostanza, il legislatore avrebbe verificato la ricorrenza nel caso dell’Ilva delle condizioni per il riconoscimento del carattere strategico dell’impianto di Taranto, ed avrebbe «preso atto» della già attuale esistenza di una AIA riesaminata, dichiarando di conseguenza l’effetto di reimmissione dell’azienda nel possesso degli impianti e dei prodotti (con l’ulteriore tutela rappresentata dall’istituzione di un Garante indipendente).
Pur volendo ammettere che l’art. 3 del decreto consista in una «norma provvedimento», il legislatore non avrebbe varcato i limiti posti dalla giurisprudenza costituzionale per la legittimità di tali interventi. Non sarebbe la prima volta, d’altra parte, che il legislatore introduce una disciplina particolare per cose già sottoposte a sequestro giudiziario o detta deroghe specifiche all’applicazione di norme generali.
Con specifico riguardo alla commercializzazione delle merci sequestrate, la parte considera palesemente infondata l’opinione del rimettente che la stessa non sarebbe giustificata dall’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, la quale, al contrario, non sarebbe praticamente concepibile in assenza di un completo ciclo economico.
Neppure potrebbe ammettersi che, con riferimento alla clausola di «retroattività» introdotta in sede di conversione (riguardo alla reimmissione nel possesso delle merci prodotte prima del decreto-legge), si sia determinato un ingiustificato trattamento di favore nei confronti dell’Ilva. Il comma 3 dell’art. 3 declina, per il singolo caso in esame, una norma già desumibile sul piano generale dall’art. 1, che non potrebbe legittimare la continuazione delle attività produttive senza legittimare l’alienazione dei prodotti, e che si applica «anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento».
Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed ai numerosi parametri evocati in proposito, la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato». La stessa fermezza della giurisprudenza costituzionale nella protezione del giudicato sarebbe venuta meno, di recente, a fronte della necessità di garantire interessi pubblici contrastanti. In ogni caso, il cosiddetto «giudicato cautelare» non è propriamente un giudicato, ma una mera preclusione processuale, che opera rebus sic stantibus, con riguardo alle sole questioni dedotte, e non anche a quelle deducibili. Dunque si tratta di una situazione suscettibile di modifica per effetto di norme o di provvedimenti amministrativi sopravvenuti.
Non sarebbero vulnerati il principio di legalità, il principio di necessità della prevenzione e della repressione dei reati ed il diritto di azione.
Infondata infine sarebbe la doglianza concernente la presunta «legificazione» dell’AIA rilasciata all’azienda, e la conseguente frustrazione del diritto ad ottenerne un sindacato giudiziale. Il rinvio dell’art. 3 al provvedimento non avrebbe natura recettizia, avendo la sola funzione di stabilire che, nel caso dell’Ilva, l’autorizzazione prevista dall’art. 1 è già stata rilasciata, senza che per questo la stessa autorizzazione perda la propria natura amministrativa (tanto da restare modificabile secondo le procedure tipiche del procedimento amministrativo).
Il ragionamento del rimettente sarebbe infondato anche nella parte in cui pretende che la normativa censurata abbia legittimato la ripresa delle attività produttive senza necessità di previa realizzazione delle cautele per l’ambiente. L’autorizzazione, anzitutto, risulta espressamente condizionata all’adempimento delle prescrizioni impartite con l’AIA. La disciplina prevede poi un complesso sistema di controllo e monitoraggio. Ed infine, come accennato, è stata introdotta la figura di un Garante indipendente, chiamato proprio a verificare l’osservanza delle prescrizioni.
Ancora, sarebbe infondata la pretesa che il legislatore abbia reso inoperante il sistema sanzionatorio e precauzionale posto a tutela della salute e dell’ambiente. Al contrario, l’art. 1, comma 3, del decreto-legge lascia espressamente impregiudicata l’applicabilità delle norme sanzionatorie penali ed amministrative, cui si aggiungono la specifica possibilità di revoca dell’autorizzazione rilasciata in sede di riesame e la comminatoria di una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato della società. Tutte le sanzioni in questione potrebbero essere applicate anche nel corso dei 36 mesi che segnano la durata massima dell’attività consentita, né sarebbe rilevante che non siano state richieste garanzie finanziarie per il pagamento delle relative somme, solo ipotetico e comunque pertinente ad importi non determinabili a priori.
Da ultimo, sollecita una dichiarazione di inammissibilità per le censure riferite al primo comma dell’art. 117 Cost. Si tratterebbe infatti di censure del tutto generiche. In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, non sussistendo, per le ragioni già indicate, alcuna lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, del principio di precauzione (ché anzi vengono anticipate le indicazioni della Commissione europea sulle «BAT»), dell’autonomia della giurisdizione e delle regole del giusto processo.
I signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro sollecitano la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012. Pur non essendo direttamente partecipi del subprocedimento cautelare nel cui ambito è stata deliberata l’ordinanza di rimessione, sarebbero esposti direttamente alle conseguenze della decisione sulle questioni sollevate, posto che il relativo accoglimento comporterebbe l’interruzione delle emissioni nocive in loro danno, le quali invece proseguirebbero nel caso contrario. In sostanza ribadiscono le tesi esposte dal Giudice a quo rimarcando il non avvenuto bilanciamento tra diritti costituzionale (attività economica e salute).
La Confederazione Generale dell’Industria Italiana (Confindustria) e la Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane costituitesi, chiedono entrambe che siano «respinte» le questioni di legittimità costituzionale.
L’Associazione per il Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus chiede invece l'illegittimità delle norme come censurate.
Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a norma dell’art. 322-bis cod. proc. pen., ha sollevato, con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2013 (r.o. n. 20 del 2013), questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la società Ilva S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore» del citato d.l. n. 207 del 2012, sebbene posti ad oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo. Il Tribunale riferisce di essere investito dell’appello proposto dal legale rappresentante dell’Ilva contro l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Taranto che, in data 11 dicembre 2012, ha respinto la richiesta di revoca del sequestro preventivo disposto riguardo ai prodotti finiti o semilavorati custoditi presso gli stabilimenti della società.
Viene ricordato, in particolare, il provvedimento del 25 luglio 2012 mediante il quale, disponendo il sequestro preventivo di alcune aree dello stabilimento siderurgico di Taranto, il Giudice per le indagini preliminari aveva nominato un collegio di custodi composto da tre funzionari pubblici con specifiche competenze industriali, e da un dottore commercialista per i profili amministrativi della gestione. Al collegio dei custodi era stata impartita la direttiva di avviare «immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti sopra indicati», assicurando la tutela della pubblica incolumità e l’integrità degli impianti stessi. Alla proprietà degli impianti era stata dunque negata la facoltà d’uso dei medesimi.
Il 20 agosto 2012 il Tribunale del riesame aveva parzialmente riformato il provvedimento in questione. Il custode con competenze amministrative era stato sostituito con il Presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva e soprattutto, ferme le ulteriori disposizioni, erano state modificate le direttive per i custodi, cui erano stati affidati i compiti di garantire la sicurezza degli impianti, eliminare le situazioni di pericolo, monitorare di continuo le emissioni inquinanti. La nomina del legale rappresentante dell’Ilva quale componente del collegio dei custodi è stata poi revocata nell’ambito di successivi sviluppi della procedura, ma per il resto il provvedimento di riesame, non impugnato dalla società, si è stabilizzato.
Il quadro cautelare (essendo nel frattempo intervenuta l’AIA riesaminata ad opera del Ministro competente) si era evoluto con l’adozione di un ulteriore decreto di sequestro preventivo, emesso il 22 novembre 2012, riguardo ai prodotti finiti o semilavorati che giacevano nelle zone di stoccaggio dello stabilimento dell’Ilva. La nuova cautela era stata giustificata assumendo la perdurante violazione del provvedimento di sequestro degli impianti, in assenza di alcuna seria iniziativa per la riduzione delle emissioni inquinanti. Le merci prodotte, dunque, avrebbero costituito il prodotto di un reato, suscettibile di confisca in applicazione del primo comma dell’art. 240 cod. pen., e per l’effetto assoggettabile a sequestro secondo quanto disposto al comma 2 dell’art. 321 cod. proc. pen. Ma il sequestro si sarebbe legittimato, sempre a parere del Giudice per le indagini preliminari, anche a norma del comma 1 dello stesso art. 321, poiché la libera disponibilità delle merci avrebbe favorito la prosecuzione di quel ciclo produttivo che il giudice procedente considerava illecito e fortemente lesivo sul piano ambientale e sanitario.
L’impugnazione contro il nuovo decreto di sequestro non era stata coltivata dall’Ilva, il cui legale rappresentante aveva piuttosto preferito rivolgersi alla locale Procura della Repubblica affinché fosse data immediata esecuzione alle norme nel frattempo introdotte con il d.l. n. 207 del 2012. Il pubblico ministero, in effetti, aveva restituito alla società il possesso degli impianti, ferma restando la loro condizione di sequestro, ma aveva chiesto al Giudice per le indagini preliminari di respingere l’analoga domanda per i prodotti in giacenza, ed il Giudice aveva provveduto in conformità con ordinanza dell’11 dicembre 2012.
Contro tale ultimo provvedimento è stato proposto appello. Nell’atto di gravame si contesta che ricorra un fumus adeguato in ordine alla sussistenza dei reati ipotizzati, si denunciano vizi di motivazione circa l’illiceità dell’attività produttiva e si prospetta la violazione delle norme contenute nel decreto-legge, significativamente emendate, peraltro, proprio con riguardo all’oggetto dell’ordinanza impugnata. A seguito delle modifiche apportate in sede parlamentare, infatti, il comma 3 dell’art. 3 del decreto stabilisce espressamente che l’Ilva deve considerarsi autorizzata alla commercializzazione dei prodotti in giacenza, «ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo decreto».
L’8 gennaio 2013 il Tribunale procedente ha celebrato il procedimento camerale. In tale sede, e con successiva memoria autorizzata, il pubblico ministero ha chiesto sollevarsi questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della «legge 24 dicembre 2012, n. 231». L’ordinanza di rimessione accoglie, in parte, l’indicata sollecitazione.
In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente prospetta anzitutto un contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost., posto che detta norma si atteggerebbe a «legge del caso singolo». Di conseguenza, la società Ilva sarebbe trattata differentemente da ogni altra società le cui merci siano state sottoposte a sequestro per essere, le stesse merci, il prodotto di un reato.
Il comma 3 dell’art. 3 introduce una disposizione radicalmente contrastante con la fisionomia della cautela, tanto da risolversi sostanzialmente in una fattispecie di dissequestro «obbligatorio». Se poi la stessa disposizione avesse anche il senso di una legittimazione a posteriori dell’attività produttiva culminata con la realizzazione delle merci in questione, resterebbe violato, secondo il rimettente, anche il «principio di irretroattività della legge», derogabile solo quando ciò sia richiesto dal criterio di ragionevolezza, senza mai «incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti».
La norma censurata contrasterebbe anche con gli artt. 102 e 104 Cost., che «tutelano le prerogative della funzione giudiziaria», in quanto incide su un procedimento in corso e varrebbe a condizionare la concreta possibilità della confisca in esito al procedimento stesso.
Infine violerebbe gli artt. 24 e 112 Cost., vulnerando il diritto di azione del privato leso nei suoi diritti ed ostacolando la funzione pubblica di accertamento, repressione e prevenzione dei reati
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 febbraio 2013, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e/o infondate.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le censure del rimettente sarebbero riducibili a tre nuclei fondamentali, restando in ogni caso infondate:
* La normativa censurata, in primo luogo, non violerebbe il principio di uguaglianza, costituendo piuttosto applicazione del principio per il quale situazioni che appaiono diverse, secondo una ragionevole identificazione del criterio di discriminazione, devono essere regolate differentemente. Il principio di ragionevolezza imporrebbe solo congruenza tra la ratio della legge e le disposizioni adottate. Il blocco delle merci avrebbe vanificato il diritto al lavoro degli occupati (art. 4 Cost.) e l’insieme degli ulteriori interessi gravitanti sulla produzione (artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.), con rischi di grave turbamento dell’ordine pubblico. Nella specie, il diritto di uguaglianza sarebbe stato bilanciato con il principio di libertà dell’iniziativa economica e, di nuovo, con il diritto al lavoro, facendo applicazione del principio «solidaristico-sociale» (art. 2 Cost.) e della stessa direttiva costituzionale per la realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini. La disciplina censurata, per altro verso, non avrebbe vanificato la tutela del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, ma l’avrebbe semplicemente bilanciata con quella degli interessi concorrenti.
* A proposito dell’addebito di interferenza con la funzione giudiziaria osserva che sarebbe stata piuttosto la magistratura tarantina ad alterare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco e che la necessità di un riequilibrio, per mano del legislatore, sarebbe dimostrata dal fatto che «solo successivamente e dopo l’adozione del decreto-legge […] i provvedimenti della magistratura tarantina hanno assunto un contenuto ed una portata maggiormente rispettosi delle esigenze di contemperamento». Non sarebbero fondate neppure le doglianze concernenti un preteso effetto di inibizione del perseguimento dei reati connessi all’attività produttiva dell’Ilva.
* L’Avvocatura generale osserva ulteriormente, anche con riguardo all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come la Convenzione stessa non escluda radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistano esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale». D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non avrebbe modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti. In particolare, la commercializzazione dei beni sequestrati costituirebbe una congrua implicazione del bilanciamento appena descritto, perché indispensabile a fini di risanamento degli impianti e di conservazione dei livelli occupazionali.
Da ultimo si osserva che la normativa censurata sarebbe parte di un intervento più ampio, volto alla riqualificazione dell’area industriale di Taranto attraverso la conversione dei processi produttivi ed il risanamento ambientale.
La società Ilva S.p.A., in persona del presidente del consiglio di amministrazione, si è costituita chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
Con il citato art. 1, il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di protezione ambientale.
La disposizione del comma 4, sempre in linea generale, prevede che l’autorizzazione in esito al riesame possa essere rilasciata anche quando provvedimenti giudiziari di sequestro insistano sui beni aziendali, e che i provvedimenti in questione non impediscono l’esercizio dell’attività di impresa.
Il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva è stato bilanciato attraverso la contenuta durata dell’autorizzazione ed un complesso sistema di controlli, esteso fino alla diretta vigilanza del Parlamento. Ciò detto, non avrebbe senso discutere di diritto all’esercizio dell’impresa senza che ne discenda, per implicito ma già sul piano generale, la possibilità di commerciare i prodotti dell’attività aziendale.
Dunque l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, secondo la società Ilva, «fa applicazione, direttamente in via legislativa, delle disposizioni di cui all’art. 1». In sostanza, il legislatore avrebbe verificato la ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento del carattere strategico dell’impianto di Taranto, ed avrebbe «preso atto» dell’esistenza di una AIA riesaminata, disponendo di conseguenza la reimmissione dell’azienda nel possesso degli impianti e dei prodotti (con l’ulteriore tutela rappresentata dall’istituzione di un Garante indipendente).
La società Ilva, contestando l’opinione del rimettente secondo cui la commercializzazione delle merci in sequestro non sarebbe giustificata dall’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, osserva che quest’ultima presuppone la funzionalità dell’intero ciclo economico. Si ribadisce, dunque, che la norma censurata declina, sul piano del caso di specie, una norma già desumibile sul piano generale dall’art. 1 del decreto-legge.
Infondato sarebbe anche l’assunto di una indebita «efficacia retroattiva» della norma censurata, nei contenuti modificati dalla legge di conversione. La norma infatti non disporrebbe che per il futuro, regolando il nuovo regime giuridico per i prodotti in condizione di sequestro, a titolo di mera ricognizione dell’operatività nel caso concreto della regola enunciata nell’art. 1, specificamente dettata rispetto a beni che già si trovassero sottoposti al vincolo.
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale non ha mai escluso in radice la possibilità di norme retroattive, quando le stesse «vengano a trovare un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti».
Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed alla conseguente violazione degli artt. 102 e 104 Cost., la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato».
In secondo luogo l’interferenza determinatasi sui provvedimenti giudiziari, per effetto della norma censurata, sarebbe compatibile con i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
Da ultimo, la parte costituita contesta che la norma censurata abbia condizionato il diritto ad agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi (art. 24 Cost.) e l’esercizio del potere-dovere di promuovere l’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112 Cost.).
== Diritto ==
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