Sentenza Corte Costituzionale n. 85/2013 (Ragionevole Bilanciamento tra Diritti Costituzionali): differenze tra le versioni

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Il Giorno 9 Aprile 2013 la Corte Costituzionale, Presieduta dal Giudice Franco GALLO e composta dai Giudici Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO è stata chiama a '''vagliare la legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 –''', dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 22 gennaio 2013 e dal Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 15 gennaio 2013, iscritte, rispettivamente, ai nn. 19 e 20 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2013. Il Giudice relatore è Gaetano SILVESTRI. La Corte Costituzionale ha deciso il 15 Maggio 2013.
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Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri le questioni sollevate, nonostante l’evocazione, quali parametri di legittimità, di «ben diciassette norme della Costituzione», sarebbero riducibili a due gruppi fondamentali:
* Il primo nucleo di censure attiene al principio di separazione tra i poteri ed al dovere dell’ordinamento di prevenire e reprimere i reati: Le leggi provvedimento non sono per sé vietate dalla Costituzione. La disciplina censurata non costituisce un caso isolato. In casi del genere non vi sarebbe alcuna preclusione di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna inibizione dei poteri di indagine e di azione facenti capo al pubblico ministero, né infine alcuna predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola controversia. La disciplina censurata, oltre ad introdurre una nuova sanzione per le violazioni dell’AIA, ha specificamente conservato le sanzioni preesistenti, anche penali. D’altra parte, la doglianza relativa all’inibizione di nuovi ed efficaci provvedimenti cautelari di natura reale sarebbe illogica, ben potendo il legislatore legittimare determinate condotte per il futuro, ed apparendo congrua, di conseguenza, la disattivazione dei poteri pertinenti alla giurisdizione penale. Neppure sussiste la prospettata violazione dell’art. 113 Cost. Sarebbe del tutto naturale, nel caso di «passaggio dall’atto amministrativo alla legge», che venga meno la giurisdizione del giudice comune, senza che questo comporti una compressione del diritto di agire in giudizio, poiché la doglianza, trasferendosi sul piano della legittimità della norma, può riproporsi tramite il giudice comune nell’ambito della giurisdizione costituzionale. Infine, non vi sarebbe alcun contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dunque con il primo comma dell’art. 117 Cost. La Convenzione non esclude radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistono esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale». D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non ha modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, ed impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
* Il primo nucleo di censure attiene al principio di separazione tra i poteri ed al dovere dell’ordinamento di prevenire e reprimere i reati: Le leggi provvedimento non sono per sé vietate dalla Costituzione. La disciplina censurata non costituisce un caso isolato.
* Il secondo nucleo di questioni attiene al bilanciamento tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre e diritto all’iniziativa economica privata: L’opinione del giudice a quo – secondo cui il diritto alla salute avrebbe carattere «assoluto», non suscettibile di bilanciamento – non potrebbe essere condivisa. Mancando una lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, farebbe anche difetto la denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 35 della “Carta di Nizza”, ed all’art. 191 del TFUE. Si ribadisce che l’AIA rilasciata il 6 ottobre 2012 anticiperebbe l’adozione delle «BAT» individuate a livello europeo ed assicurerebbe l’osservanza del diritto dell’Unione, che esclude l’assunzione a livello giurisdizionale del compito di dettare le prescrizioni tecniche per il sicuro esercizio delle attività produttive. La conferma dell’assunto di una piena funzionalità della disciplina censurata alla tutela dell’ambiente e della salute si rinviene nell’efficacia delle misure assunte in esecuzione dell’AIA riesaminata (riduzione della produzione, selezione dei combustibili, modalità di stoccaggio e movimentazione delle materie prime, ecc.).
In casi del genere non vi sarebbe alcuna preclusione di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna inibizione dei poteri di indagine e di azione facenti capo al pubblico ministero, né infine alcuna predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola controversia. La disciplina censurata, oltre ad introdurre una nuova sanzione per le violazioni dell’AIA, ha specificamente conservato le sanzioni preesistenti, anche penali. D’altra parte, la doglianza relativa all’inibizione di nuovi ed efficaci provvedimenti cautelari di natura reale sarebbe illogica, ben potendo il legislatore legittimare determinate condotte per il futuro, ed apparendo congrua, di conseguenza, la disattivazione dei poteri pertinenti alla giurisdizione penale. Neppure sussiste la prospettata violazione dell’art. 113 Cost. Sarebbe del tutto naturale, nel caso di «passaggio dall’atto amministrativo alla legge», che venga meno la giurisdizione del giudice comune, senza che questo comporti una compressione del diritto di agire in giudizio, poiché la doglianza, trasferendosi sul piano della legittimità della norma, può riproporsi tramite il giudice comune nell’ambito della giurisdizione costituzionale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Infine, non vi sarebbe alcun contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dunque con il primo comma dell’art. 117 Cost. La Corte costituzionale avrebbe già stabilito, considerata la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul tema, che la Convenzione non esclude radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistono esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale» (sono citate, nel complesso, le sentenze n. 264 e n. 15 del 2012, n. 303, n. 236 e n. 93 del 2011, n. 317 e n. 311 del 2009, n. 362 e n. 172 del 2008). D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non ha modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, ed impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
 
2.2.2.– Il secondo nucleo di questioni che il Presidente del Consiglio dei ministri individua nell’ordinanza di rimessione attiene proprio al bilanciamento tra diritto alla salute ed all’ambiente salubre e diritto all’iniziativa economica privata.
 
L’opinione del giudice a quo – secondo cui il diritto alla salute avrebbe carattere «assoluto», non suscettibile di bilanciamento – non potrebbe essere condivisa. D’altra parte, come dimostrerebbe già il preambolo del d.l. n. 207 del 2012, il risanamento del processo produttivo costituirebbe lo scopo prioritario dello stesso decreto, pur dovendosi nel contempo garantire altri interessi.
 
Mancando una lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, farebbe anche difetto la denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 35 della “Carta di Nizza”, ed all’art. 191 del TFUE. Si ribadisce che l’AIA rilasciata il 6 ottobre 2012 anticiperebbe l’adozione delle «BAT» individuate a livello europeo ed assicurerebbe l’osservanza del diritto dell’Unione, che esclude l’assunzione a livello giurisdizionale del compito di dettare le prescrizioni tecniche per il sicuro esercizio delle attività produttive.
 
2.2.3.– La conferma dell’assunto di una piena funzionalità della disciplina censurata alla tutela dell’ambiente e della salute, secondo l’Avvocatura generale, si rinviene nell’efficacia delle misure assunte in esecuzione dell’AIA riesaminata (riduzione della produzione, selezione dei combustibili, modalità di stoccaggio e movimentazione delle materie prime, ecc.). Efficacia che sarebbe documentata dai nuovi sistemi di monitoraggio in continuo, dai quali verrebbe notizia di un notevole miglioramento della qualità dell’aria, con valori di inquinamento inferiori alle soglie di attenzione determinate a livello europeo.
 
3.– La società Ilva S.p.A., in persona del presidente del consiglio di amministrazione, si è costituita nel giudizio con atto depositato il 25 febbraio 2013, chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
 
3.1.– La società Ilva, parte nei subprocedimenti cautelari di sequestro, nella qualità di proprietaria dei beni strumentali e dei prodotti attualmente soggetti a vincolo cautelare, illustra in dettaglio alcuni passaggi della vicenda in atto.
 
La società Ilva S.p.A. si è costituita in persona del presidente del consiglio di amministrazione chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
Dopo aver ricordato come il Tribunale di Taranto, con ordinanza depositata il 20 agosto 2012, avesse corretto il provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, ammettendo che la produzione avrebbe potuto continuare, sia pure previa adozione di misure per il contenimento delle emissioni, la parte privata esamina i contenuti dell’AIA rilasciata in sede di riesame, il 26 ottobre successivo, a partire dall’autorizzazione per la ripresa delle attività produttive, legata ad una rigorosa tempistica per la realizzazione delle misure di risanamento (sostanzialmente coincidenti con quelle indicate dai periti dell’autorità giudiziaria, e compatibili con le «BAT» di ispirazione europea).
 
Mancando della disponibilità materiale degli impianti, l’Ilva ne aveva chiesto il dissequestro, ma il giudice per le indagini preliminari, con provvedimento del 30 novembre 2012, aveva respinto l’istanza, sul presupposto che l’AIA non aveva subordinato la ripresa delle attività produttive alla previa e completa attuazione delle cautele necessarie a contenere le emissioni nocive (provvedimento illegittimo, secondo la parte, perché risoltosi in una disapplicazione in via di fatto dell’autorizzazione conseguita dall’azienda). Negli stessi giorni, il giudice aveva sequestrato i prodotti finiti o semilavorati, che in effetti l’azienda aveva realizzato dopo il sequestro degli impianti, ma avvalendosi in ciò della «autorizzazione» asseritamente rilasciata dal Tribunale del riesame e sotto il controllo dei custodi.
Era poi sopravvenuto – prosegue la parte – il d.l. n. 207 del 2012, di talché l’Ilva aveva chiesto di rientrare in possesso dei beni sequestrati. La Procura di Taranto aveva «immesso [la società] nel possesso dei beni dell’impresa», fermo restando però il sequestro, con la conseguenza che dovevano «essere mantenuti i sigilli in quanto necessari ad attestare la sottoposizione dei beni al vincolo di indisponibilità». Il Giudice per le indagini preliminari, dal canto proprio, aveva rigettato l’istanza concernente i prodotti, sul presupposto che lo ius superveniens non si applicasse a merci prodotte prima della relativa entrata in vigore.
 
Era poi sopravvenuto – prosegue la parte – il d.l. n. 207 del 2012 (del quale vengono analizzati in dettaglio i contenuti), di talché l’Ilva aveva chiesto di rientrare in possesso dei beni sequestrati. La Procura di Taranto aveva «immesso [la società] nel possesso dei beni dell’impresa», fermo restando però il sequestro, con la conseguenza che dovevano «essere mantenuti i sigilli in quanto necessari ad attestare la sottoposizione dei beni al vincolo di indisponibilità». Il Giudice per le indagini preliminari, dal canto proprio, aveva rigettato l’istanza concernente i prodotti, sul presupposto che lo ius superveniens non si applicasse a merci prodotte prima della relativa entrata in vigore.
 
Era poi intervenuta la legge n. 231 del 2012, di conversione del d.l. n. 207, specificando che dovevano essere rimessi nella disponibilità dell’Ilva anche i prodotti realizzati prima dell’adozione dello stesso decreto-legge. Rifiutando di accogliere la nuova e conseguente istanza di dissequestro formulata dalla società, il pubblico ministero si era rivolto al Giudice per le indagini preliminari per il rigetto, affiancando tale richiesta a quella d’una modifica del regime cautelare concernente gli impianti di produzione.
Dopo l’ordinanza con la quale lo stesso giudice ha sollevato a sua volta questioni di legittimità costituzionale, è stata disposta la vendita delle merci in sequestro, sul presupposto della loro deperibilità (ordinanza del 14 febbraio 2013).
 
Tutto ciò premesso in fatto, la parte costituita assume che le censure proposte dal rimettente sarebbero infondate.
La società Ilva informa che, dopo l’ordinanza con la quale lo stesso giudice ha sollevato a sua volta questioni di legittimità costituzionale (supra, § 1), è stata disposta la vendita delle merci in sequestro, sul presupposto della loro deperibilità (ordinanza del 14 febbraio 2013).
Le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge avrebbero realmente un carattere generale, riguardando l’intera platea di titolari di AIA. Il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di protezione ambientale.
 
3.2.– Tutto ciò premesso in fatto, la parte costituita assume che le censure proposte dal rimettente sarebbero infondate.
 
Le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge avrebbero realmente un carattere generale, riguardando l’intera platea di titolari di AIA che conducano stabilimenti suscettibili di qualificazione nel senso dell’interesse nazionale (lo stesso rimettente finirebbe con l’ammetterlo, lamentando l’eccessiva astrattezza dei criteri posti per la relativa determinazione del Presidente del Consiglio dei ministri).
 
Il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di protezione ambientale.
 
La ratio dell’intervento renderebbe perfettamente congrua, tra l’altro, la disciplina concernente la disponibilità e la commercializzazione dell’acciaio prodotto negli stabilimenti di Taranto, non avendo senso una normativa che autorizzasse una attività produttiva (anche a fini di salvaguardia dei livelli occupazionali) e però, nel contempo, vietasse di gestirne i frutti, sul piano logistico e su quello economico-finanziario.
 
Non è certo la prima volta, del resto, che l’interesse strategico di determinate attività induce il legislatore ad interventi straordinari ed urgenti. La parte costituita menziona: il d.l. n. 90 del 2008, relativo all’emergenza rifiuti in Campania; la legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), che all’art. 25 disciplina la materia delle scorie nucleari; la legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2012), che all’art. 19 appresta speciale protezione per i cantieri della linea ferroviaria Torino-Lione; il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 6 agosto 2008, n. 133, che all’art. 11 prevede il cosiddetto «piano casa»; il decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 7 agosto 2012, n. 134, che all’art. 17-septies prevede misure per la ristrutturazione del patrimonio edilizio.
 
Passando all’esame dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, la società Ilva sostiene che la norma «fa applicazione, direttamente in via legislativa, delle disposizioni di cui all’art. 1». In sostanza, il legislatore avrebbe verificato la ricorrenza nel caso dell’Ilva delle condizioni per il riconoscimento del carattere strategico dell’impianto di Taranto, ed avrebbe «preso atto» della già attuale esistenza di una AIA riesaminata, dichiarando di conseguenza l’effetto di reimmissione dell’azienda nel possesso degli impianti e dei prodotti (con l’ulteriore tutela rappresentata dall’istituzione di un Garante indipendente).
Pur volendo ammettere che l’art. 3 del decreto consista in una «norma provvedimento», il legislatore non avrebbe varcato i limiti posti dalla giurisprudenza costituzionale per la legittimità di tali interventi. Non sarebbe la prima volta, d’altra parte, che il legislatore introduce una disciplina particolare per cose già sottoposte a sequestro giudiziario o detta deroghe specifiche all’applicazione di norme generali.
 
3.2.1.– Sarebbe infondata, in queste condizioni, la censura mossa all’art. 1 del decreto, per l’asserito contrasto con l’art. 3 Cost. Non sarebbe carente, in primo luogo, la fissazione dei presupposti per l’individuazione dell’interesse strategico nazionale, che attiene tipicamente alla sfera dell’alta amministrazione (è richiamata, a confronto, l’analoga disciplina dettata per l’esercizio di poteri straordinari nel settore della difesa ed in altri settori strategici: decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, recante «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni», convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 11 maggio 2012, n. 56). Per altro verso, il principio di uguaglianza richiede il difforme trattamento di situazioni diseguali, individuate secondo un criterio pertinente alla causa dell’intervento normativo (sono citale le sentenze della Corte costituzionale n. 89 del 1996 e n. 15 del 1975). Lo stesso ricorso al criterio (concomitante) del numero dei lavoratori occupati è conforme a quanto si riscontra per altre discipline: è citato l’art. 2 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), ove la procedura conservativa è riservata appunto alle aziende con almeno 200 dipendenti. La parte costituita osserva che il rimettente – pur senza sostenere in radice l’illegittimità del ricorso a criteri quantitativi – non ha indicato tertia comparationis che, in base al principio di uguaglianza, dovrebbero imporre l’adozione di una diversa soglia numerica di dipendenti, il che varrebbe a determinare l’inammissibilità della questione sollevata al proposito (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 131 e n. 33 del 2009, n. 25 del 1991, n. 66 del 1982).
 
Anche il denunciato contrasto dell’art. 3 del decreto con l’art. 3 Cost. dovrebbe essere escluso.
 
La censura muoverebbe da un travisamento della norma e del sistema che disciplina le attività produttive potenzialmente inquinanti. La norma riconosce che l’Ilva si trova nelle condizioni che, in generale, legittimerebbero qualunque azienda a produrre in base ad una AIA sottoposta a riesame. D’altra parte, un’azienda che produce in osservanza dell’AIA rilasciata dopo la procedura di riesame non commette alcun illecito, non potendosi ammettere – secondo la parte – che sia l’autorità giudiziaria, e non quella amministrativa, a fissare i parametri di tollerabilità delle immissioni. In altre parole, l’Ilva non sarebbe trattata diversamente da ogni altra azienda di interesse strategico nazionale che si trovasse nelle medesime condizioni.
 
Pur volendo ammettere che l’art. 3 del decreto consista in una «norma provvedimento», il legislatore non avrebbe varcato i limiti posti dalla giurisprudenza costituzionale per la legittimità di tali interventi (è citata la sentenza n. 270 del 2010). Non sarebbe la prima volta, d’altra parte, che il legislatore introduce una disciplina particolare per cose già sottoposte a sequestro giudiziario (d.l. n. 61 del 2007) o detta deroghe specifiche all’applicazione di norme generali (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 1985).
 
Nelle fattispecie complesse, non ogni «incoerenza, disarmonia o contraddittorietà» che derivi da una norma può risolversi in violazione del principio di uguaglianza, ché altrimenti il controllo di legittimità delle leggi si trasformerebbe in controllo di opportunità (sentenza n. 89 del 1996).
 
Con specifico riguardo alla commercializzazione delle merci sequestrate, la parte considera palesemente infondata l’opinione del rimettente che la stessa non sarebbe giustificata dall’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, la quale, al contrario, non sarebbe praticamente concepibile in assenza di un completo ciclo economico.
 
Neppure potrebbe ammettersi che, con riferimento alla clausola di «retroattività» introdotta in sede di conversione (riguardo alla reimmissione nel possesso delle merci prodotte prima del decreto-legge), si sia determinato un ingiustificato trattamento di favore nei confronti dell’Ilva. Il comma 3 dell’art. 3 declina, per il singolo caso in esame, una norma già desumibile sul piano generale dall’art. 1, che non potrebbe legittimare la continuazione delle attività produttive senza legittimare l’alienazione dei prodotti, e che si applica «anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento».
Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed ai numerosi parametri evocati in proposito, la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato». La stessa fermezza della giurisprudenza costituzionale nella protezione del giudicato sarebbe venuta meno, di recente, a fronte della necessità di garantire interessi pubblici contrastanti. In ogni caso, il cosiddetto «giudicato cautelare» non è propriamente un giudicato, ma una mera preclusione processuale, che opera rebus sic stantibus, con riguardo alle sole questioni dedotte, e non anche a quelle deducibili. Dunque si tratta di una situazione suscettibile di modifica per effetto di norme o di provvedimenti amministrativi sopravvenuti.
 
Non sarebbero vulnerati il principio di legalità, il principio di necessità della prevenzione e della repressione dei reati ed il diritto di azione.
3.2.2.– Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed ai numerosi parametri evocati in proposito, la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato».
Infondata infine sarebbe la doglianza concernente la presunta «legificazione» dell’AIA rilasciata all’azienda, e la conseguente frustrazione del diritto ad ottenerne un sindacato giudiziale. Il rinvio dell’art. 3 al provvedimento non avrebbe natura recettizia, avendo la sola funzione di stabilire che, nel caso dell’Ilva, l’autorizzazione prevista dall’art. 1 è già stata rilasciata, senza che per questo la stessa autorizzazione perda la propria natura amministrativa (tanto da restare modificabile secondo le procedure tipiche del procedimento amministrativo).
 
Se di giudicato dovesse parlarsi con riguardo al sequestro degli impianti, anzitutto, ciò non potrebbe che farsi in riferimento alle statuizioni del Tribunale del riesame, che avrebbe negato, accogliendo in parte le censure mosse al decreto di sequestro, la necessità di una immediata cessazione dell’attività produttiva. Dunque, l’intervento normativo sarebbe valso a favorire l’attuazione del giudicato, e non a contrastarlo.
 
In generale, la stessa fermezza della giurisprudenza costituzionale nella protezione del giudicato sarebbe venuta meno, di recente, a fronte della necessità di garantire interessi pubblici contrastanti (è citata la sentenza n. 113 del 2011, che ha introdotto un diverso caso di revisione quando si renda necessario dare attuazione ad una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo).
 
In ogni caso, il cosiddetto «giudicato cautelare» non è propriamente un giudicato, ma una mera preclusione processuale, che opera rebus sic stantibus, con riguardo alle sole questioni dedotte, e non anche a quelle deducibili. Dunque si tratta di una situazione suscettibile di modifica per effetto di norme o di provvedimenti amministrativi sopravvenuti. D’altra parte, se l’andamento del procedimento cautelare non interferisce con quello del processo (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 121 del 2009), allora le norme che incidono sul procedimento cautelare non valgono a condizionare l’esito del processo.
 
Neppure potrebbe dirsi, nella specie, che sia stata frustrata la funzione del giudice, chiamato ad applicare mutamenti del diritto oggettivo alle singole fattispecie, come sempre accade, a maggior ragione con riguardo a regole retroattive (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1 del 2011, n. 311 e n. 94 del 2009, n. 32 del 2008, n. 352 del 2006, n. 211 del 1998, n. 263 del 1994, n. 91 del 1988). Sarebbe sufficiente, per la legittimità dell’intervento, che il legislatore non detti la regola per un singolo giudizio, ma ponga una disciplina suscettibile di applicazione in ogni fattispecie concreta che presenti le medesime caratteristiche.
 
A tale proposito, sarebbe infondato l’assunto del rimettente per il quale la normativa censurata inciderebbe sulla fattispecie concreta a quadro normativo «invariato». La parte privata ripete che l’art. 1 del decreto ha introdotto una normativa nuova e generale, applicabile a tutte le aziende di interesse strategico nazionale, comprese quelle già raggiunte da provvedimenti cautelari reali. Che poi il novum possa incidere sull’efficacia di statuizioni giudiziali, che non consistano nel giudicato in senso proprio, sarebbe ipotesi già ammessa dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 282 del 2005).
 
3.2.3.– Non sarebbero vulnerati il principio di legalità, il principio di necessità della prevenzione e della repressione dei reati ed il diritto di azione.
 
L’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 si limita a regolare la funzione legittimante di un provvedimento amministrativo, tra l’altro sindacabile nei modi ordinari e revocabile dalla stessa amministrazione, senza incidere sull’apparato sanzionatorio predisposto per le relative violazioni. Non potrebbe ammettersi che la pendenza di situazioni cautelari impedisca qualunque nuova legge che operi un bilanciamento degli interessi coinvolti dalle attività produttive. Quanto all’art. 3 – viene ribadito – la norma si limita a riconoscere la corrispondenza del caso concreto alla previsione astratta, senza legittimare condotte antecedenti o condotte future, poste in essere in violazione della legge. Neanche la pendenza di indagini preliminari (al cui svolgimento non viene opposto alcun intralcio) potrebbe sortire un effetto di paralisi della normazione. In astratto, sono del resto ammissibili limiti e condizioni per l’esercizio dell’azione penale (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 121 del 2009 e n. 114 del 1982).
 
Infondata infine – a parere della parte costituita – sarebbe la doglianza concernente la presunta «legificazione» dell’AIA rilasciata all’azienda, e la conseguente frustrazione del diritto ad ottenerne un sindacato giudiziale. Il rinvio dell’art. 3 al provvedimento non avrebbe natura recettizia, avendo la sola funzione di stabilire che, nel caso dell’Ilva, l’autorizzazione prevista dall’art. 1 è già stata rilasciata, senza che per questo la stessa autorizzazione perda la propria natura amministrativa (tanto da restare modificabile secondo le procedure tipiche del procedimento amministrativo).
 
3.2.4.– La parte costituita contesta, ancora, che ricorra la pretesa lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre.
 
In realtà, la normativa censurata mirerebbe alla miglior tutela dei diritti invocati, posto che la cessazione della produzione e la dismissione degli impianti sarebbe, per tali diritti, più pericolosa della continuazione dell’attività in condizione di sicurezza.
 
In ogni caso – prosegue la parte – sarebbe erronea la pretesa che i diritti in questione siano insuscettibili di qualunque bilanciamento, così dando vita ad una gerarchia tra valori della quale non vi sarebbe traccia in Costituzione (sono citate ex multis, a proposito della spettanza della composizione alle istanze rappresentative, le sentenze della Corte costituzionale n. 27 del 1998 e n. 94 del 1985). A maggior ragione spetterebbe al legislatore la determinazione delle condotte cui assegnare rilevanza penale, anche con specifico riguardo alla tutela degli interessi presidiati dall’art. 32 Cost. (sentenze n. 376 del 2000, n. 267 del 1999, n. 447 del 1998, n. 304 del 1994, n. 455 del 1990).
 
Il ragionamento del rimettente sarebbe infondato anche nella parte in cui pretende che la normativa censurata abbia legittimato la ripresa delle attività produttive senza necessità di previa realizzazione delle cautele per l’ambiente. L’autorizzazione, anzitutto, risulta espressamente condizionata all’adempimento delle prescrizioni impartite con l’AIA. La disciplina prevede poi un complesso sistema di controllo e monitoraggio. Ed infine, come accennato, è stata introdotta la figura di un Garante indipendente, chiamato proprio a verificare l’osservanza delle prescrizioni.
 
Ancora, sarebbe infondata la pretesa che il legislatore abbia reso inoperante il sistema sanzionatorio e precauzionale posto a tutela della salute e dell’ambiente. Al contrario, l’art. 1, comma 3, del decreto-legge lascia espressamente impregiudicata l’applicabilità delle norme sanzionatorie penali ed amministrative, cui si aggiungono la specifica possibilità di revoca dell’autorizzazione rilasciata in sede di riesame e la comminatoria di una sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato della società. Tutte le sanzioni in questione potrebbero essere applicate anche nel corso dei 36 mesi che segnano la durata massima dell’attività consentita, né sarebbe rilevante che non siano state richieste garanzie finanziarie per il pagamento delle relative somme, solo ipotetico e comunque pertinente ad importi non determinabili a priori.
Da ultimo, sollecita una dichiarazione di inammissibilità per le censure riferite al primo comma dell’art. 117 Cost. Si tratterebbe infatti di censure del tutto generiche. In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, non sussistendo, per le ragioni già indicate, alcuna lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, del principio di precauzione (ché anzi vengono anticipate le indicazioni della Commissione europea sulle «BAT»), dell’autonomia della giurisdizione e delle regole del giusto processo.
 
I signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro sollecitano la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012. Pur non essendo direttamente partecipi del subprocedimento cautelare nel cui ambito è stata deliberata l’ordinanza di rimessione, sarebbero esposti direttamente alle conseguenze della decisione sulle questioni sollevate, posto che il relativo accoglimento comporterebbe l’interruzione delle emissioni nocive in loro danno, le quali invece proseguirebbero nel caso contrario. In sostanza ribadiscono le tesi esposte dal Giudice a quo rimarcando il non avvenuto bilanciamento tra diritti costituzionale (attività economica e salute).
3.2.5.– Da ultimo, la società Ilva sollecita una dichiarazione di inammissibilità per le censure riferite al primo comma dell’art. 117 Cost. Si tratterebbe infatti di censure del tutto generiche.
 
La Confederazione Generale dell’Industria Italiana (Confindustria) e la Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane costituitesi, chiedono entrambe che siano «respinte» le questioni di legittimità costituzionale.
In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, non sussistendo, per le ragioni già indicate, alcuna lesione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, del principio di precauzione (ché anzi vengono anticipate le indicazioni della Commissione europea sulle «BAT»), dell’autonomia della giurisdizione e delle regole del giusto processo.
 
L’Associazione per il Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus chiede invece l'illegittimità delle norme come censurate.
4.– Con atto di intervento depositato il 26 febbraio 2013, che si fonda sull’asserita qualità di parti assunta nel procedimento principale, i signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro sollecitano la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012.
 
Dalla documentazione allegata all’atto risulta che i signori Fornaro hanno ricevuto avviso, in qualità di persone offese, della richiesta e dell’ordinanza giudiziale concernenti il compimento di perizia collegiale chimico-ambientale, in regime di incidente probatorio, nell’ambito delle indagini preliminari concernenti i fatti cui si riferiscono i provvedimenti cautelari in atto.
 
4.1.– Vengono in primo luogo illustrate le ragioni di ammissibilità dell’intervento. Gli interessati, pur non essendo direttamente partecipi del subprocedimento cautelare nel cui ambito è stata deliberata l’ordinanza di rimessione, sarebbero esposti direttamente alle conseguenze della decisione sulle questioni sollevate, posto che il relativo accoglimento comporterebbe l’interruzione delle emissioni nocive in loro danno, le quali invece proseguirebbero nel caso contrario (è citata, quale esempio di ammissione di un soggetto privo della qualità di parte nel giudizio a quo, la sentenza della Corte costituzionale n. 389 del 2004).
 
4.2.– Secondo gli intervenienti, le questioni sollevate sarebbero rilevanti, poiché la piena applicazione delle norme censurate, pur restando ferma la condizione di sequestro degli impianti e delle merci, imporrebbe la revoca della nomina dei custodi e comunque un mutamento sostanziale del loro ruolo, data la coincidenza solo parziale tra le prescrizioni tecniche dell’AIA riesaminata ed il complesso delle misure necessarie per un effettivo risanamento degli stabilimenti e dei processi produttivi.
 
4.3.– Dopo avere enunciato il ritenuto fondamento delle censure riferite all’art. 3 Cost., gli intervenienti assumono che i diritti al lavoro ed all’attività produttiva non possono entrare in bilanciamento con il diritto alla salute e all’ambiente salubre, nel senso che i primi devono essere assicurati solo nella misura in cui non pregiudichino in alcun modo il secondo (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 378 del 2007, n. 127 del 1990, n. 210 del 1987, n. 156 del 1986, n. 74 del 1981, n. 88 del 1979). Analogo ragionamento andrebbe fatto circa la prevalenza della necessità di prevenire e reprimere i reati (sentenze n. 146 del 2001 e n. 427 del 2000).
 
Le prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata – che l’art. 3, comma 2, del decreto-legge avrebbe elevato al rango legislativo – sarebbero inidonee a garantire che l’attività produttiva prosegua senza danneggiare ulteriormente la salute di lavoratori e cittadini. Le cosiddette BAT dovranno essere applicate ad oltre tre anni dall’autorizzazione, la quale, peraltro, prevede in vari casi solo misure di monitoraggio e studi di fattibilità, cioè adempimenti inidonei, per definizione, a garantire nell’immediatezza il diritto alla salute.
 
La presunzione che il rispetto dell’AIA comporti un’adeguata tutela della salute e dell’ambiente, secondo gli intervenienti, sarebbe del tutto priva di fondamento.
 
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito la necessità di una effettiva tutela risarcitoria del diritto alla salute (sono citate le sentenze n. 356 del 1991 e n. 184 del 1986), tutela che sarebbe inibita dalle norme censurate.
 
Il sostanziale divieto di agire nei confronti dell’Ilva nei 36 mesi successivi al rilascio dell’autorizzazione riesaminata comporterebbe anche una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La «legificazione» dell’AIA, per altro verso, avrebbe privato i cittadini del diritto di ottenere il sindacato giurisdizionale su di un atto di natura sostanzialmente amministrativa (è citata la sentenza della Corte di giustizia UE, Grande Sezione, del 18 ottobre 2011, nei procedimenti C-128/09 e C-135/09).
 
5.– Con atti depositati il 25 febbraio 2013 sono intervenute nel giudizio la Confederazione Generale dell’Industria Italiana (Confindustria) e la Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane, entrambe chiedendo che siano «respinte» le questioni di legittimità costituzionale poste dal rimettente con riguardo all’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012.
 
6.– Con atto depositato il 26 febbraio 2013 è intervenuta nel giudizio, in persona del legale rappresentante, l’Associazione per il Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus, chiedendo che le disposizioni censurate siano dichiarate illegittime.
 
7.– In data 19 marzo 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato memoria al fine di ribadire le conclusioni in precedenza offerte (supra, § 2).
 
7.1.– Si nega in particolare fondamento, nella memoria, all’assunto del rimettente secondo il quale la normativa censurata avrebbe garantito ai responsabili dell’Ilva una «immunità» rispetto alle norme penali vigenti. In particolare l’Avvocatura afferma che l’AIA rilasciata all’azienda avrebbe tutti e soli gli effetti tipici di una autorizzazione amministrativa, senza scriminare condotte che provochino eventi contro l’incolumità pubblica o l’integrità fisica delle persone. Sul piano processuale, sarebbe stata introdotta una deroga alla disciplina generale del sequestro preventivo, stabilendo che nel caso di impianti strategici la misura non possa implicare il blocco della produzione.
 
Non si tratterebbe di previsione illegittima, sia per la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, sia per l’inesistenza di quella riserva di funzione giurisdizionale che sola, a parere dell’Avvocatura, potrebbe legittimare le doglianze del rimettente. Questi, in altre parole, vorrebbe riservare alla giurisdizione non solo la sentenza, ma ogni possibile funzione di prevenzione e repressione dei reati, che l’ordinamento invece può ben attribuire, nell’ambito della ragionevolezza, a strumenti diversificati, cominciando dal regime autorizzatorio fondato sulle competenze tecniche dell’amministrazione e sulle connesse funzioni di vigilanza.
 
7.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri nega che l’intervento normativo de quo abbia bilanciato il diritto alla salute, in sé e per sé considerato, con esigenze di carattere economico e produttivo: si sarebbe piuttosto mirato ad evitare un danno irrevocabile per tali esigenze in rapporto al rischio aggiuntivo per la salute che si determina per l’ulteriore prosecuzione dell’attività lungo un periodo di tempo circoscritto e con la previa adozione delle cautele necessarie. Un bilanciamento del quale si assume la piena ragionevolezza.
 
7.3.– Relativamente ai prodotti finiti e semilavorati in attuale sequestro, l’Avvocatura generale assume l’erroneità della relativa qualificazione come «prodotto del reato», poiché tale ultima nozione comprenderebbe solo le cose che la legge penale vieta di realizzare, e non anche cose lecitamente fabbricate, sia pure con eventuale violazione di precetti dettati per un altro scopo di tutela.
 
Parimenti censurabile sarebbe, sempre a parere del Presidente del Consiglio dei ministri, la pretesa che il sequestro sia utile a prevenire nuovi reati, attraverso l’eliminazione del profitto economico che potrebbe ricavarsene. Il fondamento della cautela – si dice – risiede nella strumentalità della cosa al reato, mentre mai si sarebbero viste, in precedenza, giustificazioni “motivazionali” a sostegno del sequestro.
 
8.– In data 19 marzo 2013 la difesa dell’Ilva S.p.A. ha depositato memoria mediante la quale ribadisce le conclusioni già rassegnate, con riguardo alle questioni sollevate sia nel giudizio r.o. n. 19 del 2013, sia nel procedimento r.o. n. 20 del 2013, del quale si dirà tra breve.
 
L’Ilva nega anzitutto (con riferimento a rilievi del WWF e dei signori Fornaro) che l’azienda abbia provocato, anche dopo l’adozione delle norme censurate, emissioni eccedenti i limiti fissati nell’AIA del 4 agosto 2011. Le prescrizioni tecniche dell’autorizzazione, d’altra parte, sarebbero perfettamente idonee a garantire la protezione dell’ambiente e della salute umana, così da privare di fondamento la pretesa che la chiusura dell’impianto sia l’unica soluzione utile ad eliminare il fenomeno dell’inquinamento.
 
In ogni caso, secondo la società, il tema sarebbe estraneo all’odierno scrutinio di costituzionalità, non dovendo la Corte sostituire un proprio giudizio tecnico e politico a quelli espressi, rispettivamente, dall’amministrazione e dal legislatore, e trattandosi piuttosto di valutare se la discrezionalità legislativa sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 110 del 2002, n. 144 del 2001, n. 313 del 1995).
 
Nella memoria si ribadisce che non vi sarebbe stata alcuna «legificazione» dell’AIA rilasciata in esito alla procedura di riesame, e che dunque il provvedimento avrebbe potuto essere sindacato nei modi ordinari (compresa, se del caso, la disapplicazione ad opera del giudice comune). Si nota, in particolare, che il secondo comma dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 lascia espressamente salve, tra le altre, le norme sulla procedura amministrativa di riesame dell’autorizzazione.
 
Da ultimo, la parte assume che sarebbe alterato, nella logica dell’ordinanza di rimessione, il corretto equilibrio instaurato dalla Costituzione tra la funzione giurisdizionale e quelle di legislazione e di amministrazione. A queste ultime sarebbe riferibile in via primaria, specie nella logica della prevenzione di accadimenti futuri, la garanzia della incolumità pubblica e della salute delle persone (sono citate, in questa prospettiva, le sentenze della Corte costituzionale n. 121 del 1999, n. 283 del 1986, n. 70 del 1985, n. 150 del 1981). La riserva di giurisdizione desumibile dagli artt. 102, 103 e 104 Cost. andrebbe intesa come riserva di sentenza, e non come capacità inibitoria dell’intervento giudiziario in ordine a qualunque forma di espressione del potere legislativo e di quello esecutivo ed amministrativo.
 
9.– In data 19 marzo 2013 è stata depositata, nell’interesse dei signori Angelo, Vincenzo e Vittorio Fornaro, una memoria tesa a ribadire le conclusioni già offerte (supra, § 4).
 
Oggetto delle censure sarebbe una «legge provvedimento», nata per intervenire su una sola e specifica situazione (sono citati i lavori preparatori della legge di conversione), priva di ragionevolezza (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 492 del 1995, n. 346 del 1991, n. 143 del 1989), e per altro verso destinata, comunque, ad una indebita interferenza con il procedimento giudiziario in corso, come tra l’altro risulterebbe chiaro alla luce dell’occasione e della tempistica (è citata la sentenza n. 267 del 2007). La giurisprudenza costituzionale avrebbe irrevocabilmente chiarito che le leggi provvedimento non possono interferire con procedimenti in atto (sentenze n. 137 del 2009, n. 525 e n. 419 del 2000, n. 123 del 1987), ché altrimenti risulterebbe inciso il diritto fondamentale alla difesa.
 
L’art. 3 del decreto-legge, mediante un rinvio recettizio, avrebbe «legificato» l’AIA riesaminata dell’ottobre 2012, con la conseguenza, asseritamente paradossale, che non sarebbero impedite modifiche ed aggiornamenti per via amministrativa, che, anzi, sarebbero già intervenuti (con modificazioni dei tempi prescritti per l’adozione di talune cautele). Dunque, l’Ilva starebbe svolgendo attività produttiva non più secondo l’autorizzazione conferita con il d.l. n. 207 del 2012: si tratterebbe di una situazione irrazionale, già stigmatizzata dalla Corte costituzionale in un caso analogo (sentenza n. 282 del 1990).
 
Ad ogni modo – e cioè anche volendo ammettere la natura solo formale del rinvio all’AIA riesaminata da parte della norma censurata – l’effettività del diritto di difesa sarebbe pregiudicata dall’ostacolo posto alla prevenzione ed al perseguimento dei delitti sanzionati dal diritto penale comune, visto tra l’altro che la clausola di «salvezza» inserita nel comma 3 dell’art. 1 comprende le sole sanzioni penali previste dalla normativa di settore. Considerato che si tratta di mere sanzioni pecuniarie per reati suscettibili di oblazione, il regime di tutela penale dell’ambiente e della salute resterebbe risolutivamente condizionato, sul piano dell’efficacia, da un provvedimento del Ministro dell’ambiente, oltretutto altamente discrezionale nei fini, data la genericità della previsione che lo regola.
 
Inoltre, la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore, prevedendo sanzioni per le sole violazioni dell’AIA riesaminata, dovrebbe essere esclusa in quanto le prescrizioni adottate con il provvedimento di riesame sarebbero inidonee ad assicurare il risanamento del processo produttivo. Al riguardo, vengono richiamati i dati salienti delle perizie effettuate nel giudizio penale in corso, che segnalano imponenti emissioni non convogliate (diffuse e fuggitive): nella procedura di riesame non sarebbero stati utilizzati studi sull’incidenza delle misure prescritte e sarebbero state addirittura trascurate fonti concorrenti di inquinamento ambientale, connesse alla gestione dei rifiuti e dei sottoprodotti, nonché delle acque reflue e meteoriche. Nel contempo, i termini per l’adeguamento alle prescrizioni impartite sarebbero tali da azzerarne l’efficacia nel medio periodo (tre anni, ad esempio, per la copertura dei parchi minerali), e in parte sarebbero stati già prorogati dall’amministrazione.
 
Resterebbe dunque confermata l’illecita compressione del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, la cui tutela andrebbe invece assicurata quale profilo intrinseco alla garanzia per ciascuno degli interessi concorrenti: il diritto al lavoro, in particolare, non potrebbe che essere anche diritto alla sicurezza ed all’igiene del lavoro medesimo (sono citate, in generale, le sentenze della Corte costituzionale n. 40 e n. 39 del 2013, n. 151 del 2012, n. 137 del 2009, n. 190 del 2001, n. 238 del 1996, n. 479 del 1987, n. 21 del 1964).
 
10.– In data 18 marzo 2013 l’associazione Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane ha depositato memoria insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già offerte (supra, § 5).
 
11.– In data 19 marzo 2013 l’Associazione per il Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus ha depositato memoria insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già offerte (supra, § 6).
 
12.– Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a norma dell’art. 322-bis cod. proc. pen., ha sollevato, con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2013 (r.o. n. 20 del 2013), questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la società Ilva S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore» del citato d.l. n. 207 del 2012, sebbene posti ad oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo.
 
12.1.– Il Tribunale riferisce di essere investito dell’appello proposto dal legale rappresentante dell’Ilva contro l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Taranto che, in data 11 dicembre 2012, ha respinto la richiesta di revoca del sequestro preventivo disposto riguardo ai prodotti finiti o semilavorati custoditi presso gli stabilimenti della società. Al fine di descrivere il contesto nel quale è chiamato ad operare, il rimettente riassume gli avvenimenti, processuali e normativi, che hanno condotto all’instaurazione del giudizio impugnatorio.
 
Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a norma dell’art. 322-bis cod. proc. pen., ha sollevato, con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2013 (r.o. n. 20 del 2013), questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la società Ilva S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore» del citato d.l. n. 207 del 2012, sebbene posti ad oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo. Il Tribunale riferisce di essere investito dell’appello proposto dal legale rappresentante dell’Ilva contro l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Taranto che, in data 11 dicembre 2012, ha respinto la richiesta di revoca del sequestro preventivo disposto riguardo ai prodotti finiti o semilavorati custoditi presso gli stabilimenti della società.
Viene ricordato, in particolare, il provvedimento del 25 luglio 2012 mediante il quale, disponendo il sequestro preventivo di alcune aree dello stabilimento siderurgico di Taranto, il Giudice per le indagini preliminari aveva nominato un collegio di custodi composto da tre funzionari pubblici con specifiche competenze industriali, e da un dottore commercialista per i profili amministrativi della gestione. Al collegio dei custodi era stata impartita la direttiva di avviare «immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti sopra indicati», assicurando la tutela della pubblica incolumità e l’integrità degli impianti stessi. Alla proprietà degli impianti era stata dunque negata la facoltà d’uso dei medesimi.
 
Il 20 agosto 2012 il Tribunale del riesame aveva parzialmente riformato il provvedimento in questione. Il custode con competenze amministrative era stato sostituito con il Presidente del consiglio di amministrazione dell’Ilva e soprattutto, ferme le ulteriori disposizioni, erano state modificate le direttive per i custodi, cui erano stati affidati i compiti di garantire la sicurezza degli impianti, eliminare le situazioni di pericolo, monitorare di continuo le emissioni inquinanti. La nomina del legale rappresentante dell’Ilva quale componente del collegio dei custodi è stata poi revocata nell’ambito di successivi sviluppi della procedura, ma per il resto il provvedimento di riesame, non impugnato dalla società, si è stabilizzato.
 
Il quadro cautelare (essendo nel frattempo intervenuta l’AIA riesaminata ad opera del Ministro competente) si era evoluto con l’adozione di un ulteriore decreto di sequestro preventivo, emesso il 22 novembre 2012, riguardo ai prodotti finiti o semilavorati che giacevano nelle zone di stoccaggio dello stabilimento dell’Ilva. La nuova cautela era stata giustificata assumendo la perdurante violazione del provvedimento di sequestro degli impianti, in assenza di alcuna seria iniziativa per la riduzione delle emissioni inquinanti. Le merci prodotte, dunque, avrebbero costituito il prodotto di un reato, suscettibile di confisca in applicazione del primo comma dell’art. 240 cod. pen., e per l’effetto assoggettabile a sequestro secondo quanto disposto al comma 2 dell’art. 321 cod. proc. pen. Ma il sequestro si sarebbe legittimato, sempre a parere del Giudice per le indagini preliminari, anche a norma del comma 1 dello stesso art. 321, poiché la libera disponibilità delle merci avrebbe favorito la prosecuzione di quel ciclo produttivo che il giudice procedente considerava illecito e fortemente lesivo sul piano ambientale e sanitario.
 
L’impugnazione contro il nuovo decreto di sequestro non era stata coltivata dall’Ilva, il cui legale rappresentante aveva piuttosto preferito rivolgersi alla locale Procura della Repubblica affinché fosse data immediata esecuzione alle norme nel frattempo introdotte con il d.l. n. 207 del 2012. Il pubblico ministero, in effetti, aveva restituito alla società il possesso degli impianti, ferma restando la loro condizione di sequestro, ma aveva chiesto al Giudice per le indagini preliminari di respingere l’analoga domanda per i prodotti in giacenza, ed il Giudice aveva provveduto in conformità con ordinanza dell’11 dicembre 2012.
Contro tale ultimo provvedimento è stato proposto appello. Nell’atto di gravame si contesta che ricorra un fumus adeguato in ordine alla sussistenza dei reati ipotizzati, si denunciano vizi di motivazione circa l’illiceità dell’attività produttiva e si prospetta la violazione delle norme contenute nel decreto-legge, significativamente emendate, peraltro, proprio con riguardo all’oggetto dell’ordinanza impugnata. A seguito delle modifiche apportate in sede parlamentare, infatti, il comma 3 dell’art. 3 del decreto stabilisce espressamente che l’Ilva deve considerarsi autorizzata alla commercializzazione dei prodotti in giacenza, «ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo decreto».
 
Contro tale ultimo provvedimento è proposto l’appello che deve essere definito dal giudice a quo. Nell’atto di gravame si contesta che ricorra un fumus adeguato in ordine alla sussistenza dei reati ipotizzati, si denunciano vizi di motivazione circa l’illiceità dell’attività produttiva e si prospetta la violazione delle norme contenute nel decreto-legge, significativamente emendate, peraltro, proprio con riguardo all’oggetto dell’ordinanza impugnata. A seguito delle modifiche apportate in sede parlamentare, infatti, il comma 3 dell’art. 3 del decreto stabilisce espressamente che l’Ilva deve considerarsi autorizzata alla commercializzazione dei prodotti in giacenza, «ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo decreto».
 
L’8 gennaio 2013 il Tribunale procedente ha celebrato il procedimento camerale. In tale sede, e con successiva memoria autorizzata, il pubblico ministero ha chiesto sollevarsi questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della «legge 24 dicembre 2012, n. 231». L’ordinanza di rimessione accoglie, in parte, l’indicata sollecitazione.
In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente prospetta anzitutto un contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost., posto che detta norma si atteggerebbe a «legge del caso singolo». Di conseguenza, la società Ilva sarebbe trattata differentemente da ogni altra società le cui merci siano state sottoposte a sequestro per essere, le stesse merci, il prodotto di un reato.
Il comma 3 dell’art. 3 introduce una disposizione radicalmente contrastante con la fisionomia della cautela, tanto da risolversi sostanzialmente in una fattispecie di dissequestro «obbligatorio». Se poi la stessa disposizione avesse anche il senso di una legittimazione a posteriori dell’attività produttiva culminata con la realizzazione delle merci in questione, resterebbe violato, secondo il rimettente, anche il «principio di irretroattività della legge», derogabile solo quando ciò sia richiesto dal criterio di ragionevolezza, senza mai «incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti».
La norma censurata contrasterebbe anche con gli artt. 102 e 104 Cost., che «tutelano le prerogative della funzione giudiziaria», in quanto incide su un procedimento in corso e varrebbe a condizionare la concreta possibilità della confisca in esito al procedimento stesso.
Infine violerebbe gli artt. 24 e 112 Cost., vulnerando il diritto di azione del privato leso nei suoi diritti ed ostacolando la funzione pubblica di accertamento, repressione e prevenzione dei reati
 
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 febbraio 2013, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e/o infondate.
12.2.– In punto di rilevanza il rimettente premette che, per effetto della rinuncia dell’Ilva al ricorso per riesame inizialmente proposto contro il decreto di sequestro dei prodotti, deve escludersi, riguardo al fumus commissi delicti, l’intervenuta formazione del cosiddetto giudicato cautelare, con la conseguenza che il tema resta liberamente valutabile in sede di appello contro il rigetto dell’istanza di restituzione. La circostanza è considerata significativa sul piano della rilevanza, in quanto, se mancassero i presupposti per la prosecuzione del sequestro, i beni andrebbero restituiti a prescindere dall’applicazione della norma censurata.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le censure del rimettente sarebbero riducibili a tre nuclei fondamentali, restando in ogni caso infondate:
 
* La normativa censurata, in primo luogo, non violerebbe il principio di uguaglianza, costituendo piuttosto applicazione del principio per il quale situazioni che appaiono diverse, secondo una ragionevole identificazione del criterio di discriminazione, devono essere regolate differentemente. Il principio di ragionevolezza imporrebbe solo congruenza tra la ratio della legge e le disposizioni adottate. Il blocco delle merci avrebbe vanificato il diritto al lavoro degli occupati (art. 4 Cost.) e l’insieme degli ulteriori interessi gravitanti sulla produzione (artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.), con rischi di grave turbamento dell’ordine pubblico. Nella specie, il diritto di uguaglianza sarebbe stato bilanciato con il principio di libertà dell’iniziativa economica e, di nuovo, con il diritto al lavoro, facendo applicazione del principio «solidaristico-sociale» (art. 2 Cost.) e della stessa direttiva costituzionale per la realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini. La disciplina censurata, per altro verso, non avrebbe vanificato la tutela del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, ma l’avrebbe semplicemente bilanciata con quella degli interessi concorrenti.
Sempre a titolo di premessa, il Tribunale ricorda i limiti intrinseci della cognizione e della valutazione cui il giudice è chiamato nel procedimento cautelare reale, con particolare riguardo al merito dell’accusa, che deve essere valutata sul solo piano della correttezza giuridica. Il fumus è dunque apprezzato in termini di mera congruenza tra gli elementi prospettati dalle parti e le conseguenze che se ne traggono in termini di qualificazione dei fatti, senza disponibilità di poteri istruttori e con la possibilità di negare la cautela solo in caso di «manifesta, assoluta ed evidente inconfigurabilità dell’ipotesi di reato».
* A proposito dell’addebito di interferenza con la funzione giudiziaria osserva che sarebbe stata piuttosto la magistratura tarantina ad alterare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco e che la necessità di un riequilibrio, per mano del legislatore, sarebbe dimostrata dal fatto che «solo successivamente e dopo l’adozione del decreto-legge […] i provvedimenti della magistratura tarantina hanno assunto un contenuto ed una portata maggiormente rispettosi delle esigenze di contemperamento». Non sarebbero fondate neppure le doglianze concernenti un preteso effetto di inibizione del perseguimento dei reati connessi all’attività produttiva dell’Ilva.
 
* L’Avvocatura generale osserva ulteriormente, anche con riguardo all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come la Convenzione stessa non escluda radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistano esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale». D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non avrebbe modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti. In particolare, la commercializzazione dei beni sequestrati costituirebbe una congrua implicazione del bilanciamento appena descritto, perché indispensabile a fini di risanamento degli impianti e di conservazione dei livelli occupazionali.
12.2.1.– Per motivare il proprio giudizio circa la sussistenza del fumus in ordine ai delitti contestati, ed in particolare circa il carattere illecito dell’attività culminata con la produzione delle merci in sequestro, il Tribunale rimettente ricorre ad un’ampia citazione del provvedimento impugnato. In tale sede si ricorda che il sequestro preventivo degli impianti era stato disposto senza facoltà d’uso e che lo stesso Tribunale del riesame aveva autorizzato interventi tecnici al solo fine di apprestare le cautele necessarie per prevenire nuove immissioni nocive nell’ambiente, precludendo ogni ulteriore attività produttiva fino ad una nuova e positiva verifica dei risultati ottenuti. Nondimeno, secondo il Giudice per le indagini preliminari, la proprietà dell’Ilva non ha “consegnato” gli impianti, ha proseguito la produzione senza significativi interventi in chiave di sicurezza ambientale, e si è rifiutata di fornire ai custodi la documentazione pertinente alla commercializzazione dei propri prodotti. In altre parole, la società avrebbe continuato «imperterrita nella criminosa produzione dell’acciaio, nella vendita del frutto dell’attività criminosa […] assicurandosi lauti profitti non curante delle disposizioni dell’autorità giudiziaria e in violazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali».
Da ultimo si osserva che la normativa censurata sarebbe parte di un intervento più ampio, volto alla riqualificazione dell’area industriale di Taranto attraverso la conversione dei processi produttivi ed il risanamento ambientale.
 
Il Tribunale rimettente disattende, in proposito, la tesi difensiva secondo cui il Collegio del riesame aveva consentito la prosecuzione dell’attività produttiva, sia pure nei limiti della necessaria preservazione degli impianti. Quel Collegio, piuttosto, aveva negato che lo spegnimento degli impianti fosse l’unico modo per far cessare le emissioni nocive, delegando ai custodi la verifica della possibilità di interventi utili ad assicurare la prosecuzione in sicurezza dell’attività produttiva; attività che avrebbe potuto riprendere solo se e quando gli ipotetici interventi sulla sicurezza ambientale fossero stati attuati. Una prospettiva pienamente coerente – secondo il giudice a quo – con la logica del sequestro preventivo, che mira a sottrarre la disponibilità della cosa al possessore, anche al fine di prevenire l’incremento degli effetti lesivi della condotta delittuosa. La limitata facoltà d’uso, comunque accordata ai soli custodi, aveva avuto per scopo la verifica della possibilità di conservare il bene sequestrato, in vista del bilanciamento degli interessi connessi alla sua utilità per l’esercizio dell’impresa.
 
Di contro, come ammesso dalla stessa parte privata, l’attività produttiva era proseguita senza interruzione e con le stesse emissioni inquinanti riscontrate a monte del sequestro degli impianti. La tesi difensiva della necessità di una produzione a basso regime per la conservazione dello stabilimento viene respinta dal Tribunale, in assoluto e comunque alla luce dei dati quantitativi del prodotto, confermati dal sequestro di oltre un milione e mezzo di tonnellate di merce. Dunque – si conclude – i lavorati in sequestro devono considerarsi prodotti di reato e cose pertinenti a reato, legittimamente sequestrati a mente del comma 1 dell’art. 321 cod. proc. pen. e, comunque, ai sensi del comma 2, in quanto suscettibili di confisca ex art. 240 cod. pen.
 
12.2.2.– Alla luce del quadro normativo preesistente al d.l. n. 207 del 2012, in definitiva, l’appello della società Ilva dovrebbe essere respinto. La conclusione sarebbe identica – a parere del rimettente, e secondo quanto esposto nel provvedimento impugnato – con riguardo alla versione originaria dell’art. 3 del provvedimento governativo, che non avrebbe contenuto disposizioni riferibili ai prodotti già sottoposti a sequestro prima del provvedimento stesso. Una «lettura costituzionalmente orientata» avrebbe imposto, infatti, di considerare non retroattiva la disposizione, attesa l’antinomia esistente tra i profili fondanti della cautela reale e la restituita possibilità di «commercializzazione» della merce sequestrata.
 
In effetti – osserva il Tribunale – la disponibilità della cosa è logicamente incompatibile con la funzione del sequestro, tanto che la giurisprudenza di legittimità annulla le «concessioni d’uso» talvolta rilasciate dal giudice di merito per la salvaguardia di interessi primari della persona (sarebbe il caso degli immobili abusivi). Il principio varrebbe, a maggior ragione, riguardo a forme d’uso che si risolvano nella cessione a terzi delle cose sequestrate e dunque nella loro dispersione, tanto che le relative condotte, da parte del custode o del proprietario, costituiscono un reato. Interpretata in chiave retroattiva, la disposizione originariamente introdotta con il decreto-legge avrebbe comportato la definitiva dispersione delle merci sottoposte a sequestro, per la loro immissione in un ciclo di trasformazione che le avrebbe rese irrecuperabili.
 
La funzione del comma 3 dell’art. 3, nella versione scaturita dalla legge di conversione, sarebbe, dunque, proprio quella di superare il quadro delineato, affinché la società Ilva sia posta in grado di commercializzare le merci sequestrate prima del provvedimento d’urgenza. Il che documenta, secondo il Tribunale, la piena rilevanza della questione di legittimità costituzionale proposta riguardo alla norma in discorso (mentre sarebbero irrilevanti, e dunque non suscettibili di proposizione, le ulteriori questioni prospettate dal pubblico ministero procedente).
 
12.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente prospetta anzitutto un contrasto tra la norma censurata e l’art. 3 Cost., posto che detta norma si atteggerebbe a «legge del caso singolo». Di conseguenza, la società Ilva sarebbe trattata differentemente da ogni altra società le cui merci siano state sottoposte a sequestro per essere, le stesse merci, il prodotto di un reato.
 
Il Tribunale ricorda come la giurisprudenza costituzionale abbia chiarito la necessità di una ragionevole giustificazione per la diseguale disciplina di situazioni assimilabili (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 1009 del 1988 e n. 15 del 1960). Nel caso di specie, la norma censurata introdurrebbe una possibilità di commercializzazione del bene sequestrato inibita in ogni altra consimile fattispecie, se non addirittura una ipotesi «speciale» di dissequestro, non fondata, come quelle generali, sulla cessazione delle esigenze di cautela che impongono il vincolo reale. Il legislatore, oltretutto, avrebbe introdotto una legge del caso concreto secondo un bilanciamento irragionevole tra i valori in gioco, difforme da quello che normalmente segna la disciplina di protezione dell’ambiente (è citato il caso dell’emergenza rifiuti, ove addirittura il legislatore ha penalizzato, talvolta, condotte prive di rilevanza fuori delle porzioni di territorio interessate dalla stessa emergenza).
 
Il rimettente prospetta la violazione concomitante del principio di «ragionevolezza-razionalità» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1982). Viene ribadito che la funzione tipica del sequestro preventivo è quella di privare il possessore della disponibilità della cosa, anche in vista dell’eventuale confisca. L’autorizzazione «particolare» che la legge conferisce all’Ilva non sarebbe giustificata – secondo il Tribunale – neppure dalle esigenze di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, per la cui tutela l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 consente, attraverso il riesame dell’AIA, di proseguire l’attività industriale negli stabilimenti di interesse strategico nazionale: la commercializzazione dei lavorati, infatti, non sarebbe necessaria ai fini indicati.
 
La norma «generale» (del cui carattere di astrattezza il rimettente dubita, sia pur senza farne questione) avrebbe il solo scopo di legittimare una prosecuzione dell’attività produttiva nonostante l’intervenuto sequestro degli impianti. Discostandosi da questa ratio, la norma censurata avrebbe accordato un diverso privilegio all’Ilva, relativamente ai prodotti sequestrati prima dell’intervento normativo. Dunque, la legge avrebbe introdotto una difformità di trattamento «interna» ai casi particolari, riconducibili alla previsione dell’art. 1, per i quali potrebbe considerarsi legittima una disciplina più favorevole di quella riservata in generale a coloro che esercitano attività di produzione industriale (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 80 del 1969).
 
In realtà – osserva il Tribunale – gli artt. 1 e 2 del d.l. n. 207 del 2012 prevedono una facoltà d’uso delle cose in sequestro non incompatibile ontologicamente con la cautela reale, mentre il comma 3 dell’art. 3 introduce una disposizione radicalmente contrastante con la fisionomia della cautela, tanto da risolversi sostanzialmente in una fattispecie di dissequestro «obbligatorio». Se poi la stessa disposizione avesse anche il senso di una legittimazione a posteriori dell’attività produttiva culminata con la realizzazione delle merci in questione, resterebbe violato, secondo il rimettente, anche il «principio di irretroattività della legge», derogabile solo quando ciò sia richiesto dal criterio di ragionevolezza, senza mai «incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti» (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 153 e n. 6 del 1994, n. 283 del 1993).
 
La norma censurata contrasterebbe anche con gli artt. 102 e 104 Cost., che «tutelano le prerogative della funzione giudiziaria», in quanto incide su un procedimento in corso e varrebbe a condizionare la concreta possibilità della confisca in esito al procedimento stesso, sebbene l’attività produttiva della merce, almeno per l’epoca antecedente all’emanazione del d.l. n. 207 del 2012, debba considerarsi tuttora illecita.
 
Il Tribunale, dopo aver ricordato il principio di soggezione del giudice «solo alla legge», riconosce che tale principio non implica l’illegittimità di misure retroattive o suscettibili di interagire nella soluzione di controversie già pendenti (sono citate le sentenze di questa Corte n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del 1994, n. 402 del 1993). Anche le cosiddette «leggi provvedimento» possono essere legittime, a condizione però che non violino la «riserva di giurisdizione», che opera «specie» nel caso di giudizi pendenti ed inibisce al Parlamento l’esercizio di funzioni giurisdizionali, salvi i casi previsti dalla Costituzione (sono citate le sentenze di questa Corte n. 137 del 2009, n. 241 del 2008, n. 267 del 2007, n. 321 del 1998, n. 123 del 1987).
 
La norma censurata avrebbe di fatto «direttamente modificato un provvedimento del giudice» (l’ordinanza posta ad oggetto dell’impugnazione), «senza per altro modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato».
 
Infine, il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 violerebbe gli artt. 24 e 112 Cost., vulnerando il diritto di azione del privato leso nei suoi diritti ed ostacolando la funzione pubblica di accertamento, repressione e prevenzione dei reati (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 1973).
 
12.4.– Il Tribunale rimettente tiene a chiarire, in conclusione del proprio provvedimento, che il giudizio impugnatorio deve considerarsi sospeso, a norma dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), anche in considerazione del carattere non perentorio del termine per la relativa definizione, posto che si tratta di appello contro un provvedimento in materia di sequestro e non di riesame (l’art. 322-bis del codice di rito rinvia all’art. 310 e non al comma 10 dell’art. 309).
 
13.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 febbraio 2013, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e/o infondate.
 
13.1.– Dopo aver riassunto gli antefatti dell’ordinanza di rimessione e l’essenza delle questioni prospettate dal rimettente, l’Avvocatura generale assume che il Tribunale di Taranto si sarebbe arrogato (violando gli artt. 101, 117 e 134 Cost.) un inesistente potere di disapplicazione della legge, che spetta solo di fronte a «norme comunitarie» incompatibili con il diritto interno, e che non potrebbe ritenersi insito nella possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 285 del 1990).
 
Sempre in via preliminare, l’Avvocatura generale sostiene che le questioni sollevate avrebbero «perso di interesse», posto che il giudice procedente, con provvedimento del 14 febbraio 2013, ha disposto la vendita delle merci in sequestro.
 
13.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le censure del rimettente sarebbero riducibili a tre nuclei fondamentali, restando in ogni caso infondate.
 
13.2.1.– La normativa censurata, in primo luogo, non violerebbe il principio di uguaglianza, costituendo piuttosto applicazione del principio per il quale situazioni che appaiono diverse, secondo una ragionevole identificazione del criterio di discriminazione, devono essere regolate differentemente. Il principio di ragionevolezza imporrebbe solo congruenza tra la ratio della legge e le disposizioni adottate.
 
L’osservanza del principio non sarebbe pregiudicata nel caso di leggi provvedimento, sempreché si tratti, appunto, di interventi ragionevoli e non arbitrari, che non interferiscano con la funzione giudiziaria e non vanifichino l’autorità del giudicato (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 289 e n. 270 del 2010, n. 137 e n. 94 del 2009, n. 288 e n. 241 del 2008, n. 267 e n. 11 del 2007, n. 282 del 2005, n. 321 del 1998, n. 492 e n. 347 del 1995, n. 346 del 1991, n. 143 del 1989, n. 123 del 1987). Il carattere derogatorio o particolare della legge provvedimento imporrebbe semplicemente, secondo l’Avvocatura, uno «scrutinio stretto» sul piano della ragionevolezza (sono citate le sentenze n. 429 del 2002, n. 364 del 1999, n. 185 del 1998, n. 153 e n. 2 del 1997).
 
Ciò premesso, la difesa erariale ritiene non sospetta la disposizione censurata alla luce dei parametri valutativi elaborati dalla giurisprudenza: «tempo, modalità, contenuto e contesto di adozione della disposizione normativa in esame». Il riferimento alle merci realizzate prima dell’entrata in vigore del decreto-legge non era contenuto nello stesso decreto, essendo stato inserito solo in sede di conversione (in accoglimento, peraltro, di un emendamento proposto dal Governo). Ciò dimostrerebbe, a parere dell’Avvocatura generale, che la norma non mirava ad eludere il disposto dell’autorità giudiziaria, quanto piuttosto a rimuovere un ostacolo che avrebbe potuto vanificare (sul piano economico e finanziario) l’obiettivo di una ripresa delle attività produttive, e la stessa realizzazione del piano di risanamento ambientale. Il carattere particolare della disposizione sarebbe il riflesso della peculiarità della specifica situazione, «non assimilabile né equiparabile ad altre esistenti nel Paese».
 
Il blocco delle merci avrebbe vanificato il diritto al lavoro degli occupati (art. 4 Cost.) e l’insieme degli ulteriori interessi gravitanti sulla produzione (artt. 41, 42, 43 e 44 Cost.), con rischi di grave turbamento dell’ordine pubblico. Nella specie, il diritto di uguaglianza sarebbe stato bilanciato con il principio di libertà dell’iniziativa economica e, di nuovo, con il diritto al lavoro, facendo applicazione del principio «solidaristico-sociale» (art. 2 Cost.) e della stessa direttiva costituzionale per la realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i cittadini.
 
La disciplina censurata, per altro verso, non avrebbe vanificato la tutela del diritto alla salute ed all’ambiente salubre, ma l’avrebbe semplicemente bilanciata con quella degli interessi concorrenti.
 
L’Avvocatura generale rammenta che il contemperamento tra le ragioni della proprietà e quelle dell’ambiente costituisce un principio generale dell’ordinamento (è richiamato l’art. 844 del codice civile), ed impone forme di «normale» tolleranza per le immissioni, a garanzia del pieno godimento e sfruttamento dei beni oggetto del diritto di proprietà.
 
13.2.2.– A proposito dell’addebito di interferenza con la funzione giudiziaria, che il rimettente muove alla normativa censurata, la difesa del Presidente del Consiglio osserva che sarebbe stata piuttosto la magistratura tarantina ad alterare il corretto bilanciamento degli interessi in gioco e che la necessità di un riequilibrio, per mano del legislatore, sarebbe dimostrata dal fatto che «solo successivamente e dopo l’adozione del decreto-legge […] i provvedimenti della magistratura tarantina hanno assunto un contenuto ed una portata maggiormente rispettosi delle esigenze di contemperamento».
 
13.2.3.– Non sarebbero fondate neppure le doglianze concernenti un preteso effetto di inibizione del perseguimento dei reati connessi all’attività produttiva dell’Ilva.
 
La giurisprudenza costituzionale avrebbe da tempo chiarito che un intervento normativo non vulnera la funzione giurisdizionale solo perché produce effetti retroattivi ed «interagisce con controversie in corso» (sono citate le sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 394 del 1994, n. 402 del 1993).
 
Per un verso, si discute nella specie di provvedimenti cautelari, per loro natura assunti allo stato degli atti e suscettibili di continuo adattamento, tanto che il cosiddetto «giudicato cautelare» non sarebbe affatto paragonabile alla condizione di irrevocabilità di una sentenza. Per altro verso, il legislatore si sarebbe limitato a fronteggiare una grave crisi in atto, che richiedeva un attento bilanciamento tra le esigenze della produzione e dell’occupazione e quelle della salute e dell’ambiente (tutelate, si fa notare, anticipando l’introduzione delle BAT di cui alla già citata Decisione della Commissione europea 2012/135/UE).
 
È pienamente concepibile – prosegue l’Avvocatura generale – che singoli casi concreti pongano in evidenza la necessità di affinamenti e aggiornamenti della legislazione. Le leggi provvedimento, d’altra parte, non sono per sé vietate dalla Costituzione, tanto che la disciplina censurata non costituisce un caso isolato: vengono richiamati nuovamente il d.l. n. 61 del 2007 ed il d.l. n. 90 del 2008 (supra, § 2.2.1.).
 
Nei casi in questione, come in quello odierno, non vi sarebbe stata alcuna preclusione di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti, né alcuna inibizione dei poteri di indagine e di azione facenti capo al pubblico ministero, né infine alcuna predeterminazione della decisione giudiziale in merito ad una singola controversia. La disciplina censurata oggi, oltre ad introdurre una nuova sanzione per le violazioni dell’AIA, avrebbe specificamente fatte salve le sanzioni preesistenti, anche penali.
 
13.2.4.– L’Avvocatura generale osserva ulteriormente, anche con riguardo all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come la Convenzione stessa non escluda radicalmente la possibilità di leggi che, operando retroattivamente, incidano sull’andamento di giudizi in corso, quando sussistano esigenze di ordine pubblico o addirittura «motivi imperativi di interesse generale» (sono citate, nel complesso, le sentenze di questa Corte n. 264 e n. 15 del 2012, n. 303, n. 238 e n. 93 del 2011, n. 317 e n. 311 del 2009, n. 362 e n. 172 del 2008). D’altra parte il legislatore, con la disciplina censurata, non avrebbe modificato in senso peggiorativo una posizione acquisita, mirando piuttosto al migliore possibile bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti, impedendo che l’espansione incontrollata di una garanzia comprimesse intollerabilmente la tutela degli interessi concorrenti.
 
In particolare, la commercializzazione dei beni sequestrati costituirebbe una congrua implicazione del bilanciamento appena descritto, perché indispensabile a fini di risanamento degli impianti e di conservazione dei livelli occupazionali.
 
13.2.5.– Da ultimo si osserva, ad opera dell’Avvocatura generale, che la normativa censurata sarebbe parte di un intervento più ampio, volto alla riqualificazione dell’area industriale di Taranto attraverso la conversione dei processi produttivi ed il risanamento ambientale: sono richiamati il decreto-legge 7 agosto 2012, n. 129 (Disposizioni urgenti per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio della città di Taranto), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 ottobre 2012, n. 171, e l’art. 27 (rubricato come «Riordino della disciplina in materia di riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessa») del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 134 del 2012.
 
14.– La società Ilva S.p.A., in persona del presidente del consiglio di amministrazione, si è costituita nel giudizio con atto depositato il 25 febbraio 2013, chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
 
14.1.– L’atto in questione si apre con una ricostruzione degli avvenimenti, di carattere processuale e normativo, che hanno preceduto l’ordinanza di rimessione, sostanzialmente analoga a quella già proposta nel giudizio r.o. n. 19 del 2013 (supra, § 3.1.). Viene ribadito, in particolare, che la produzione delle merci in sequestro sarebbe stata «espressamente assentita dall’autorità giudiziaria e condotta, peraltro, sotto la responsabilità dei custodi ed il controllo della Procura».
 
14.2.– La parte costituita eccepisce, in primo luogo, che le censure proposte dal rimettente sarebbero irrilevanti o, quanto meno, viziate da una insufficiente ponderazione del quadro normativo di riferimento (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 367 del 2010 e n. 120 del 2006). In particolare, il giudice rimettente non avrebbe potuto prospettare il dubbio circa la legittimità dell’unica norma censurata (il comma 3 dell’art. 3) se non estendendo le proprie censure all’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, data la stretta connessione esistente tra le due disposizioni.
 
La società Ilva S.p.A., in persona del presidente del consiglio di amministrazione, si è costituita chiedendo che le questioni di legittimità siano «rigettate».
Con il citato art. 1, il legislatore avrebbe realizzato sul piano generale un bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, limitando nel tempo l’efficacia dell’AIA riesaminata, lasciando impregiudicate le sanzioni previste ed aggiungendone di nuove, implementando gli obblighi delle imprese in relazione alle cautele di protezione ambientale.
La disposizione del comma 4, sempre in linea generale, prevede che l’autorizzazione in esito al riesame possa essere rilasciata anche quando provvedimenti giudiziari di sequestro insistano sui beni aziendali, e che i provvedimenti in questione non impediscono l’esercizio dell’attività di impresa.
 
Il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva è stato bilanciato attraverso la contenuta durata dell’autorizzazione ed un complesso sistema di controlli, esteso fino alla diretta vigilanza del Parlamento. Ciò detto, non avrebbe senso discutere di diritto all’esercizio dell’impresa senza che ne discenda, per implicito ma già sul piano generale, la possibilità di commerciare i prodotti dell’attività aziendale.
La disposizione del comma 4, sempre in linea generale, prevede che l’autorizzazione in esito al riesame possa essere rilasciata anche quando provvedimenti giudiziari di sequestro insistano sui beni aziendali, e che i provvedimenti in questione non impediscono l’esercizio dell’attività di impresa. Dato il carattere generale ed astratto di tale ultima previsione, avrebbe sapore meramente «nominalistico» la censura prospettata dal Tribunale a proposito del fatto che la commercializzazione delle merci dell’Ilva sarebbe stata disposta in assenza di una deroga alle prescrizioni dell’art. 321 cod. proc. pen., perché tale ultima norma sarebbe ormai integrata, sempre sul piano generale, dall’art. 1 del decreto-legge in discussione.
 
Si tratterebbe di un bilanciamento spettante al legislatore (salvo il controllo della Corte costituzionale: sentenza n. 264 del 2012), non privo di antecedenti. È nuovamente richiamato l’art. 2 del d.lgs. n. 270 del 1999, ove è previsto che l’interesse dei creditori delle imprese di grandi dimensioni debba recedere di fronte a quello alla conservazione delle risorse produttive e dei livelli occupazionali. Sono richiamati, ancora, il d.l. n. 90 del 2008, le leggi n. 99 del 2009 e n. 183 del 2011, i decreti-legge n. 112 del 2008 e n. 83 del 2012 (supra, § 3.2.).
 
Il diritto alla prosecuzione dell’attività produttiva è stato bilanciato – si ripete – attraverso la contenuta durata dell’autorizzazione ed un complesso sistema di controlli, esteso fino alla diretta vigilanza del Parlamento. Ciò detto, non avrebbe senso discutere di diritto all’esercizio dell’impresa senza che ne discenda, per implicito ma già sul piano generale, la possibilità di commerciare i prodotti dell’attività aziendale.
 
Dunque l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, secondo la società Ilva, «fa applicazione, direttamente in via legislativa, delle disposizioni di cui all’art. 1». In sostanza, il legislatore avrebbe verificato la ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento del carattere strategico dell’impianto di Taranto, ed avrebbe «preso atto» dell’esistenza di una AIA riesaminata, disponendo di conseguenza la reimmissione dell’azienda nel possesso degli impianti e dei prodotti (con l’ulteriore tutela rappresentata dall’istituzione di un Garante indipendente).
 
La connessione inscindibile tra la norma censurata e quella dell’art. 1 renderebbe palese l’irrilevanza della questione sollevata con riguardo al solo art. 3, comma 3, del decreto. In effetti – si dice – quand’anche intervenisse una pronuncia di illegittimità in ordine alla norma censurata, il Tribunale rimettente dovrebbe comunque accogliere l’impugnazione, in applicazione delle norme di cui agli artt. 1, 2 e 3, comma 1, dello stesso decreto-legge, che conferiscono all’Ilva il diritto alla prosecuzione dell’attività e dunque alla commercializzazione dei relativi prodotti, anche se sottoposti a sequestro.
 
14.3.– I rilievi fin qui illustrati varrebbero a documentare, secondo la parte costituita, l’infondatezza della censura costruita sull’art. 3 Cost., secondo cui la sola società Ilva sarebbe stata beneficiata della possibilità di commercializzare prodotti sottoposti a sequestro.
 
Viene richiamata, anzitutto, la considerazione che spetta comunque alla legge stabilire quali condotte siano illecite, anche nel rapporto con un pregresso provvedimento autorizzativo. In ogni caso, il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 non sarebbe norma del caso singolo, ma semmai norma provvedimento, come tale condizionata, ai fini del sindacato di legittimità costituzionale, solo dall’osservanza dei principi di ragionevolezza e non arbitrarietà (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 270 del 2010). Nella specie – si ripete – la possibilità di commercio del prodotto costituisce portato imprescindibile della legittimazione a proseguire le attività produttive. D’altra parte, è proprio il principio di uguaglianza a richiedere trattamenti differenziali per situazioni diverse (sentenza n. 15 del 1975), ed implica una necessaria congruenza tra norma e «causa normativa che la deve assistere» (sentenza n. 89 del 1996).
 
La parte costituita ricorda che già in altri casi il legislatore aveva neutralizzato l’effetto di sequestri giudiziari sulla utilizzazione produttiva di determinati beni (d.l. n. 81 del 2007) o dettato deroghe specifiche all’applicazione di norme generali (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 1985). Nelle fattispecie complesse, non ogni «incoerenza, disarmonia o contraddittorietà» che derivi da una norma può risolversi in violazione del principio di uguaglianza, ché altrimenti il controllo di legittimità si trasformerebbe in controllo di opportunità (sentenza n. 89 del 1996).
 
La società Ilva, contestando l’opinione del rimettente secondo cui la commercializzazione delle merci in sequestro non sarebbe giustificata dall’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, osserva che quest’ultima presuppone la funzionalità dell’intero ciclo economico. Si ribadisce, dunque, che la norma censurata declina, sul piano del caso di specie, una norma già desumibile sul piano generale dall’art. 1 del decreto-legge.
 
Infondato sarebbe anche l’assunto di una indebita «efficacia retroattiva» della norma censurata, nei contenuti modificati dalla legge di conversione. La norma infatti non disporrebbe che per il futuro, regolando il nuovo regime giuridico per i prodotti in condizione di sequestro, a titolo di mera ricognizione dell’operatività nel caso concreto della regola enunciata nell’art. 1, specificamente dettata rispetto a beni che già si trovassero sottoposti al vincolo.
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale non ha mai escluso in radice la possibilità di norme retroattive, quando le stesse «vengano a trovare un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti».
 
Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed alla conseguente violazione degli artt. 102 e 104 Cost., la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato».
D’altra parte, la giurisprudenza costituzionale non ha mai escluso in radice la possibilità di norme retroattive, quando le stesse «vengano a trovare un’adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri principi o valori costituzionali specificamente protetti» (sono citate, oltre alla sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 1994, le sentenze della stessa Corte n. 58 del 2009, n. 432 del 2007, n. 374 del 2002).
In secondo luogo l’interferenza determinatasi sui provvedimenti giudiziari, per effetto della norma censurata, sarebbe compatibile con i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale in materia.
 
Da ultimo, la parte costituita contesta che la norma censurata abbia condizionato il diritto ad agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi (art. 24 Cost.) e l’esercizio del potere-dovere di promuovere l’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112 Cost.).
Sul piano sostanziale, la parte nega nuovamente che l’attività culminata con la produzione dei beni fosse illecita.
 
14.4.– Riguardo alla pretesa interferenza del legislatore nella funzione giurisdizionale, ed alla conseguente violazione degli artt. 102 e 104 Cost., la parte privata nega, anzitutto, che possa esservi un problema di vanificazione del «giudicato» (per la cui definizione sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 170 del 2008, n. 364 e n. 267 del 2007, n. 282 del 2005, n. 525 e n. 374 del 2000, n. 115 del 1990). Il cosiddetto «giudicato cautelare» si risolve in una mera preclusione processuale, e d’altronde lo stesso giudicato formale sarebbe ormai sacrificato quando la relativa tutela implicherebbe una lesione per i diritti fondamentali della persona (è nuovamente citata la sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011).
 
In secondo luogo – prosegue la parte costituita – l’interferenza determinatasi sui provvedimenti giudiziari, per effetto della norma censurata, sarebbe compatibile con i limiti individuati dalla giurisprudenza costituzionale in materia (sono citate le sentenze n. 93 del 2011, n. 137 del 2009, n. 492 del 1995, n. 397 e n. 6 del 1994; n. 480 del 1992, n. 346 del 1991, n. 91 del 1988, n. 123 del 1987, n. 118 del 1957). Occorre che il legislatore non detti la regola per un singolo giudizio, ma ponga una disciplina suscettibile di applicazione in ogni fattispecie concreta che presenti le medesime caratteristiche. A queste condizioni, il fatto che la norma produca effetti nei giudizi in corso non potrebbe essere considerato alla stregua di una interferenza illegittima nella funzione giurisdizionale (ancora, sentenze n. 1 del 2011, n. 311 e n. 94 del 2009, n. 32 del 2008, n. 352 del 2006, n. 211 del 1998, n. 263 del 1994).
 
In ogni caso, nella specie, non vi sarebbe propriamente una influenza sul giudizio in corso, o almeno non una influenza indipendente da una modifica del quadro normativo in base al quale era stato assunto il provvedimento giudiziale: modifica che invece, come più volte si ripete, sarebbe stata realizzata con l’art. 1 del decreto-legge in discussione.
 
14.5.– Da ultimo, la parte costituita contesta che la norma censurata abbia condizionato il diritto ad agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi (art. 24 Cost.) e l’esercizio del potere-dovere di promuovere l’azione penale da parte del pubblico ministero (art. 112 Cost.).
 
La norma in questione avrebbe mera funzione ricognitiva della sussistenza, nel caso di specie, dei nuovi criteri di legittimazione dell’attività produttiva conseguente al rilascio di una AIA in sede di riesame. Modifiche della disciplina sostanziale di un illecito non potrebbero certo essere impedite dall’attuale pendenza di indagini preliminari. D’altra parte, non sarebbe illegittimo che il legislatore ponga cautele e condizioni per l’esercizio dell’azione penale (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 114 del 1982 e n. 121 del 2009).
 
15.– In data 19 marzo 2013 l’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato memoria al fine di ribadire le conclusioni in precedenza offerte (supra, § 13). Nell’atto vengono svolte alcune considerazioni aggiuntive, analoghe quelle che si leggono nella memoria depositata per il giudizio r.o. n. 19 del 2013, già sopra illustrate (§ 7).
 
16.– In data 19 marzo 2013 è stata depositata, nell’interesse dell’Ilva S.p.A., una memoria tesa a ribadire le conclusioni già offerte, anche con specifico riguardo alle questioni sollevate nel giudizio r.o. n. 20 del 2013. Il contenuto dell’atto è già stato illustrato (supra, § 8).
 
== Diritto ==