Poliziano (superiori)

Generalmente considerato il maggiore tra i poeti italiani del XV secolo, Agnolo Ambrogini detto Poliziano fu membro e fulcro del circolo di intellettuali radunatosi attorno al signore di Firenze, Lorenzo il Magnifico. Fu autore di opere in latino, in greco e in volgare, e raggiunse un'ampia competenza filologica e un'ammirevole perfezione formale dello stile.[1][2] Con lui «l'Umanesimo cominciò a manifestarsi non più nell'ambito dell'impegno civile e politico, a vantaggio - per così dire - degli altri, ma di un'esperienza esclusiva e tutta solitaria di ricerca e affinamento individuale».[1]

lezione
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Poliziano (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Grazie alla protezione di Lorenzo il Magnifico, Poliziano poté dedicare l'intera vita agli studi umanistici e alla produzione letteraria, senza impegnarsi in attività politiche o diplomatiche, rivestendo incarichi di alto prestigio quali quelli di precettore della famiglia dei Medici, segretario personale del Magnifico e professore presso lo Studio Fiorentino.

La vita

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Poliziano

Angelo Ambrogini nasce il 14 luglio 1454 a Montepulciano, oggi situato in provincia di Siena; dal nome latino della sua città natale, Mons Politianus, avrebbe ricevuto l'appellativo umanistico di Poliziano, con il quale è conosciuto.[1][2]

Suo padre, Benedetto, giurista legato all'importante famiglia fiorentina dei Medici, muore quando Poliziano aveva solo dodici anni, assassinato dai parenti di un uomo che era stato condannato grazie alla sua azione.[2] Il giovane figlio, rimasto orfano in tenera età, vede accentuati dal trauma psicologico costituito dalla morte del padre l'insicurezza e la timidezza che lo avrebbero accompagnato per la sua intera esistenza.[1] Poiché, dopo la morte del padre, la madre incontra serie difficoltà nel garantire la sopravvivenza alla famiglia, Poliziano è costretto a trasferirsi a Firenze, dove giunge entro il 1469,[2] presso la casa di alcuni parenti di estrazione sociale molto modesta.[1] Ciononostante, riesce a intraprendere gli studi universitari: proprio in ambiente universitario viene a contatto con uomini di primaria importanza nel panorama culturale dell'epoca, come Marsilio Ficino e i greci Giovanni Argiropulo e Demetrio Calcondila.[1] Nell'intento di dimostrare le proprie abilità, nel 1470, all'età di sedici anni, inizia la traduzione dell'Iliade di Omero dal greco al latino: svolgendo tale opera rivela già il rigore filologico e l'uso raffinatissimo della parola che sarebbero stati caratteristiche costanti della sua opera.[1]

Nel 1473, ultimata la traduzione dei primi due libri del poema, Poliziano li dedica a Lorenzo de' Medici, da poco divenuto signore di Firenze (1469) assieme al fratello Giuliano: il Magnifico, dunque, prende il giovane scrittore sotto la sua protezione e, senza considerare affatto la sua modesta origine sociale, gli consente di accedere all'ampia biblioteca medicea e di frequentare gli intellettuali che erano a lui legati. Nel 1475 il Magnifico designa Poliziano come precettore del figlio, Piero, e lo invita ad alloggiare a Palazzo Medici affidandogli anche l'incarico di suo segretario personale.[2] Nel 1477 il giovane, contemporaneamente impegnato nella stesura delle Elegie latine e degli Epigrammi latini e greci, è nominato priore della chiesa di San Paolo Apostolo e ordinato sacerdote; più tardi sarebbe divenuto canonico nella cattedrale di Santa Maria del Fiore.[1]

In quel periodo, Poliziano cura la Raccolta Aragonese di poesie in volgare, per la quale scrive anche l'epistola proemiale, che sarà poi inviata al re di Napoli, e inizia la stesura delle Rime. Nel 1475 comincia la composizione delle Stanze per la giostra, poemetto in ottave dedicato a Giuliano de' Medici; l'opera, considerata il principale tra i lavori di Poliziano,[3] rimane incompiuta a causa della morte dello stesso Giuliano, assassinato il 26 aprile 1478 dalla congiura dei Pazzi.

 
Marsilio Ficino (primo a sinistra), Cristoforo Landino (al centro) accanto a Angelo Poliziano, dettaglio della scena dell'Annuncio dell'angelo a Zaccaria, Domenico Ghirlandaio, Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze

Fortemente toccato dalla vicenda della congiura, che pone fine a un lungo periodo di spensieratezza presso la corte dei Medici, Poliziano ne racconta le vicende nella cronaca Pactianae coniurationis commentarium (Commentario sulla congiura dei Pazzi). Nella seconda metà del 1478, mentre la città è colpita da un'epidemia di peste, il letterato accompagna i Medici nella loro villa di Cafaggiolo, dove il Magnifico aveva inteso recarsi anche a causa delle tensioni che animavano Firenze dopo la congiura. Mentre si trova a Cafaggiolo, tuttavia, Poliziano entra in contrasto con la moglie di Lorenzo, Clarice Orsini, che, severa e moralista, impedisce al marito, poiché non ne condivide i metodi, di affidare al precettore anche il figlio Giovanni, che più tardi sarebbe divenuto papa con il nome di Leone X.[2] Nel 1479 Poliziano sceglie di lasciare Cafaggiolo; poco dopo, per motivi sconosciuti, entra in contrasto anche con lo stesso Lorenzo e non lo segue nel viaggio a Napoli, con cui il signore fiorentino evita la formazione di un'alleanza antimedicea tra gli Aragonesi e il papa. Spinto dal Magnifico o per scelta personale, Poliziano lascia dunque l'ambiente mediceo.

Partito da Firenze, Poliziano viaggia per l'Italia settentrionale, trattenendosi per poco tempo a Venezia, Padova e Verona.[2] Francesco Gonzaga (1444-1483) lo accoglie presso la sua corte di Mantova, dove il letterato scrive la Fabula di Orfeo, prima opera teatrale profana italiana di fondamentale importanza.[3] Colto dalla nostalgia per Firenze, nel 1480 Poliziano indirizza una lettera al Magnifico, che lo richiama in Toscana, affidandogli un incarico di insegnamento presso lo Studio Fiorentino. Qui inizia l'attività di filologo e commentatore di testi latini e greci; tale attività, svolta con grandissima perizia, è testimoniata dai Miscellanea, pubblicati in parte nel 1489, che lo resero famoso in tutta l'Europa. Contemporaneamente, rinsalda i rapporti con gli intellettuali della cerchia medicea che già aveva conosciuto durante la sua permanenza a Firenze; a questi si aggiunge a partire dal 1483, proprio su invito di Poliziano, che vi stringe un profondo sodalizio intellettuale, Giovanni Pico della Mirandola.

Nel periodo di insegnamento allo Studio, Poliziano redige numerose Epistole, che saranno raccolte nel 1494 in dodici libri, e scrive, dal 1482, alcuni testi poetici in latino, tra cui le Sylvae (Selve), prolusioni in esametri ai corsi universitari.[3] A partire dal 1490, invece, così come l'amico Pico della Mirandola, Poliziano abbandona la composizione di testi poetici per dedicarsi alla filosofia e allo studio dei testi prodotti dai filosofi dell'età antica; contestualmente, manifesta nelle sue lezioni un progressivo avvicinamento all'aristotelismo, che lo porta alla rivalutazione, fortemente innovativa, delle scienze e delle artes machinales, le arti meccaniche, che l'idealismo platonico tendeva invece a sottovalutare e sdegnare.

Si scontrò violentemente con altri umanisti, tra cui Giorgio Merula, che rivolge dure accuse ai Miscellanea, sostenendo che contenessero dati errati o plagiati, e Bartolommeo Scala, che Poliziano accusò di essersi arricchito indebitamente sfruttando la protezione offertagli dai Medici.[3] Nelle querelle con altri intellettuali Poliziano si dimostrò spesso orgoglioso e superbo fino all'arroganza, violento e offensivo.[3]

Nel 1492 muore Lorenzo il Magnifico, protettore e mecenate di Poliziano e di tutta la cerchia degli intellettuali fiorentini; la cronaca degli ultimi istanti di vita del mecenate viene redatta da Poliziano stesso in una lettera all'amico Jacopo Antiquari.[4] Per il letterato si apre un nuovo periodo di insicurezza, cui spera di supplire confidando invano di ricevere la nomina cardinalizia grazie all'appoggio del nuovo signore della città e suo ex discepolo Piero de' Medici. Prima che la sua speranza possa realizzarsi, però, Poliziano si spegne nella notte tra il 28 e il 29 settembre del 1494, mentre la spedizione di Carlo VIII di Francia aveva risvegliato il clima di ostilità contro i Medici e ferveva la predicazione del frate domenicano Girolamo Savonarola.[2][3]

Le Stanze per il Magnifico Giuliano

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Angelo Poliziano e Piero de' Medici, Domenico Ghirlandaio, Cappella Sassetti, Santa Trinita, Firenze

L'opera (1475-78) risponde alla precisa esigenza dei Medici di compiere un processo di rifeudalizzazione. Questa necessità politica si esprimeva ad esempio in un rinnovato interesse per le giostre, i cavalieri, ecc. Le Stanze sono dedicate a Giuliano de' Medici, fratello di Lorenzo. È un'opera encomiastica, di celebrazione della famiglia (Giuliano viene chiamato addirittura Iulio). Poliziano opera una trasfigurazione della realtà in chiave mitica, idilliaca. I personaggi e i fatti narrati sono riportati in chiave mitologica.

Sono presenti i topoi del locus amoenus e dell'età dell'oro (in cui erano assenti pene e tormenti dovuti all'amore). Nella descrizione del regno di Venere, usa diverse personificazioni molto simili a quelle che usa Petrarca nei Trionfi. L'opera si sviluppa lungo la storia di Iulio, un uomo dedito solo alla caccia e lontano dall'amore. Cupido decide di colpirlo con una delle sue frecce facendolo innamorare di Simonetta (Simonetta Vespucci moglie di Marco Vespucci amata da Giuliano), una bellissima ninfa.

In quest'opera, di ispirazione platonica, l'amore è visto come via per l'elevazione ad un mondo ideale, attraverso l'esercizio della virtù. Ne è prova evidente il sogno di Iulio nel II libro: la donna assume le sembianze di Minerva, dea della sapienza e della filosofia. L'opera è rimasta incompiuta: il tema della giostra e della vittoria non sono neppure trattati. Essa termina con il secondo libro, quando Venere cerca di convincere Iulio ad organizzare un torneo in onore di Simonetta.

L'Orfeo (o Fabula di Orfeo)

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L'Orfeo è un breve componimento teatrale in metro vario. Risulta essere uno dei primi testi teatrali italiani di argomento profano, narrando delle vicende di Orfeo ed Euridice. La trama è quella classica, con poche variazioni: insidiata dal pastore Aristeo, Euridice cade vittima del morso di un serpente. Orfeo, il suo amato, leggendario musico, si reca nell'Ade per chiedere attraverso la sua arte la grazia per l'amata, ottenendola a patto che, nella loro risalita verso il mondo dei viventi, Orfeo non si volti a guardarla. Orfeo disobbedisce a questa legge, e perde per sempre l'amata. Tornato alla luce del sole, lo sventurato si ripromette di volgersi solo all'amore dei fanciulli, non potendo più amare altra donna. Adirate per questo, alcune baccanti decidono di ucciderlo e farlo a pezzi. L'opera si conclude con un canto carnascialesco [5], probabilmente recitata a più voci, che le Baccanti intonano in onore a Bacco.

L'opera ha goduto di una discreta fama presso i suoi contemporanei. Le componenti dichiaratamente misogine e pederastiche del finale nel corso dei secoli sono spesso incorse in censura, per esempio nel periodo della Controriforma.

Sono giunte fino a noi più di un centinaio di rime di Poliziano. La maggior parte (circa cento) sono rispetti (altrimenti detti strambotti), ovvero singole ottave solitamente di schema ABABABCC. Sono detti spicciolati perché "autoconclusivi", monostrofici. Resta il dubbio se la disposizione dei componimenti sia o meno opera di Poliziano, con conseguenti tentativi (specialmente da parte di Pascoli) di riconoscere "gruppi" di rispetti consecutivi connessi con logicità. Attualmente solo uno di tali gruppi ha resistito alla disamina dei filologi. Il resto dei componimenti, concentrati alla fine della raccolta, sono principalmente ballate e canzoni.

I temi sono sempre giocosi e disimpegnati; convergono principalmente verso i canoni dell'amor cortese, spesso parodiandoli e sovvertendoli, verso la lode della propria amata (Ippolita), e verso tematiche galanti e scherzose, come la presa in giro di spasimanti troppo anziane o di donne troppo restie. Vi è un'unica canzone di argomento impegnato, e si tratta della conclusiva, un inno alla Vergine Maria, forse con riferimento al Canzoniere petrarchesco (manca però naturalmente tutto il complesso impianto autobiografico e il percorso di conversione dell'opera del vate aretino).

Lo stile è molto popolareggiante, a volte quasi con ostentazione (specialmente in alcune canzoni, che sembrano costituite da centoni di proverbi popolari), ma senza per questo risultare affettato; e si deve ricordare come il Poliziano fosse una delle persone più colte e raffinate del suo tempo. Sono presenti anche versi sdruccioli e trovate metriche poco convenzionali. Lo scopo dei componimenti è probabilmente puramente intrattenitivo, all'interno di una ristretta cerchia di giovani e acculturati viveur. Per questo, Poliziano talvolta si concede riferimenti a episodi o persone conosciute solamente dall'uditorio.

Poesia latina e greca

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La produzione letteraria di Poliziano comprende anche componimenti in latino e greco. Già durante l'adolescenza, il poeta aveva tradotti parti dell'Iliade in latino. In seguito in questa lingua avrebbe scritto odi, elegie ed epigrammi su argomenti all'epoca diffusi: invocazioni amorose, epicedi (componimenti funebri), invettive, elogi. In greco invece scrisse alcuni epigrammi prendendo a modello l'Antologia Palatina (una raccolta di epigrammi greci databile al IV secolo d.C.).

Lezioni e prolusioni

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Di Poliziano ci è giunta una serie di manoscritti delle sue lezioni e prolusioni sia in versi sia in prosa. Di queste, quattro costituiscono le Sylvae, quattro poemi in esametri che riprendono l'opera del poeta latino Stazio: Manto (1482), Rusticus (1483), Ambra (1485), Nutricia (1486). I Miscellanea ("Cose miste"), invece, sono un insieme di scritti che raccolgono i risultati dei suoi studi, per la maggior parte nel campo filologico. Inoltre al momento della morte, nel 1494, aveva appena concluso la sistemazione delle sue Epistualae in dodici libri.[6]

Altri progetti

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  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 1,7 Giorgio Bàrberi Squarotti, Storia e antologia della letteratura. Vol. 2 - Dall'Umanesimo alla Controriforma, Bergamo, Atlas, 2005, p.56
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 2,5 2,6 2,7 Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana. Vol. I - Le origini e il Rinascimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 408
  3. 3,0 3,1 3,2 3,3 3,4 3,5 Giorgio Bàrberi Squarotti, Storia e antologia della letteratura. Vol. 2 - Dall'Umanesimo alla Controriforma, Bergamo, Atlas, 2005, p. 57
  4. Angelo Poliziano, Poesie italiane, a cura di S. Orlando, Bur, Milano, 2006
  5. Poliziano, Stanze Orfeo Rime, Garzanti, 1992, introduzione di D. Puccini, p. LIV.
  6. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 2001, p. 229-230.