Linfoma di Hodgkin

Il linfoma di Hodgkin (detto a volte anche morbo di Hodgkin) è una neoplasia linfoproliferativa dei linfociti B, localizzata a livello linfonodale.

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Linfoma di Hodgkin
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Ematologia

Si tratta di una patologia meno diffusa rispetto ad altre neoplasie ematologiche, come i linfomi non-Hodgkin e le leucemie, ma con prognosi generalmente più favorevole rispetto a queste.

Epidemiologia

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Attualmente l'incidenza nei paesi economicamente sviluppati è di circa 3 nuovi casi all'anno ogni centomila abitanti. L'incidenza è apparentemente maggiore nei soggetti di razza caucasica, e gli uomini risultano più colpiti rispetto alle donne. La familiarità è rilevante (il rischio di insorgenza è da 3 a 9 volte maggiore rispetto alla popolazione normale).

Analizzando l'età media di insorgenza si possono individuare due picchi, uno in età giovanile (tra i 20 e i 30 anni) e uno nella popolazione anziana, circa a 70 anni. Nei paesi economicamente poco sviluppati, il primo picco tende a manifestarsi prima, durante l'infanzia.

La mortalità risulta maggiore a livello della popolazione anziana, a causa della maggiore presenza di comorbilità, nonché ovviamente delle minori capacità di resilienza degli anziani rispetto ai soggetti giovani (che di solito sopportano più facilmente la chemio-radioterapia e sono intrinsecamente dotati di una maggiore capacità midollare).

Eziologia

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L'insorgenza dei linfomi di Hodgkin è stata da alcuni associata all'esposizione a vari agenti chimico-fisici, tra cui benzene, pesticidi e materiale radioattivo (come l'uranio impoverito), ma allo stato attuale non vi sono ancora dati certi a proposito.

L'unico agente eziologico acclarato è il virus di Epstein-Barr, di cui il 90% della popolazione e portatore sano e che stando a vari studi sarebbe causa di almeno il 50% dei linfomi di Hodgkin.

L'elevata familiarità della patologia sottintende evidenti cause genetiche, che sono state collegate a traslocazioni a carico del cromosoma 14.

Istologia

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Il linfoma di Hodgkin è caratterizzato a livello microscopico dalla presenza delle cellule di Reed-Sternberg: si tratta di cellule giganti multinucleate, che presentano abbondante citoplasma eosinofilo. Tali cellule non hanno intrinseca attività patologica, e rappresentano generalmente appena l'1-3% del tessuto biopsiato: il resto è solitamente composto da un abbondante infiltrato reattivo di linfociti mononucleati.

Varietà istologiche

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I linfomi di Hodgkin possono essere suddivisi dal punto di vista anatomopatologico a seconda del pattern che presentano all'indagine microscopica. Possiamo infatti distinguere, in base alla classificazione di Rye:

  • una forma scleronodulare (60/70% dei casi);
  • una forma a prevalenza linfocitaria (3-5%) dei casi;
  • una forma a cellularità mista (20/30% dei casi);
  • una forma a deplezione linfocitaria (circa l'1% dei casi).

Tali categorie comprendono la quasi totalità (95-97%) dei linfomi di Hodgkin, che l'Organizzazione Mondiale della Sanità definisce forme classiche: ad esse si accompagnano le forme nodulari a prevalenza linfocitaria, che rappresentano circa i 3-5% dei casi.

Segni e sintomi

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La manifestazione clinica del linfoma di Hodgkin è simile a quella di tutti i linfomi, e comprende:

  • linfoadenopatia (che può essere particolarmente evidente in presenza di masse bulky);
  • febbre;
  • astenia;
  • calo ponderale;
  • sudorazione profusa, specie durante la notte;
  • prurito.

I pazienti vengono generalmente suddivisi in varie categorie, a seconda dei segni e dei sintomi presentati:

  • Tipo A: paziente asintomatico, la diagnosi avviene in maniera casuale (ad esempio si è recato dal medico dopo aver riscontrato una massa linfonodale massaggiandosi);
  • Tipo B: quadro caratteristico con febbre (sopra i 38° e non dovuta ad altre cause), calo ponderale (perdita di almeno il 10% del peso corporeo negli ultimi 6 mesi) e sudorazione notturna;

La distribuzione tra tipo A e tipo B è all'incirca equivalente (50% e 50%): i soggetti asintomatici tendono ad avere una prognosi più favorevole.

Diagnosi

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La diagnosi del linfoma di Hodgkin deve partire ovviamente da un'attenta indagine anamnestica, seguita da un accurato esame obiettivo, alla ricerca di eventuali linfoadenopatie palpabili: l'obiettività in questo contesto può ovviamente assumere valore relativo, in quanto eventuali masse toraciche o addominali possono sfuggire alla palpazione.

Allo stesso modo scarso valore hanno le indagini laboratoristiche, non essendovi marcatori specifici: l'unico parametro a poter variare in maniera evidente può essere quello della VES, che tuttavia è altamente aspecifica. Generalmente, variazioni dei comuni indici ematochimici (transaminasi, emoglobina e così via) sono secondarie all'interessamento di uno specifico organo da parte del linfoma, e devono comunque far sospettare in sede di diagnosi differenziale la presenza di un linfoma.

In quest'ottica assumono un ruolo chiave le indagini strumentali: fondamentali sono RX e TC toraco-addominale total-body con e senza mezzo di contrasto, affiancate da una PET-TC (la PET permette infatti di studiare il metabolismo neoplastico, dando utili informazioni in fase di prognosi e terapia). La PET ha elevato potere diagnostico in quanto evidenzia (a seconda del livello di metabolismo) la malignità delle lesioni, e in sede di follow-up post terapeutico rappresenta l'esame diagnostico più indicato per indagare la possibile presenza di recidive. Ovviamente, il poter effettuare una biopsia su un linfonodo prelevato direttamente garantisce una diagnosi pressoché certa.

Solo successivamente è opportuno effettuare una biopsia osteomidollare, per studiare eventuali anomalie a livello osseo.

L'agoaspirato viene generalmente sconsigliato nelle indagini sui linfonodi, per il semplice fatto che la puntura di un linfonodo (specie se di 1-2 centimetri) può risultare complessa e non garantire che l'ago sia stato inserito nella zona corretta, rischiando conseguentemente di dare un falso positivo. Per questo motivo, si preferisce ove possibile effettuare direttamente la biopsia dell'intero linfonodo.

Stadiazione

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La stadiazione dei linfomi (sia Hodgkin che non) segue la classificazione Ann Arbor, inizialmente pubblicata nel 1990 e successivamente modificata da Costwolds. Tale classificazione prevede quattro stadi:

  • Stadio I: interessamento di una singola sede linfonodale (sovraclavicolare, mediastinica, ecc.).
  • Stadio II: interessamento di più sedi linfonodali, ma tutte sopra o sotto il diaframma (ad esempio, possono essere coinvolte contemporaneamente la regione ascellare e quella mediastinica, oppure quella mesenterica e quella iliaca);
  • Stadio III: interessamento di più sedi linfonodali, da ambedue i lati rispetto al diaframma (ad esempio, in sede mediastinica e mesenterica). Un'ulteriore suddivisione dipende dalla sede rispetto ai vasi renali:
    1. Stadio III-1, se sono coinvolte sedi al di sopra dei vasi renali (ilare, portale, ecc);
    2. Stadio III-2, se sono coinvolte sedi al di sotto dei vasi renali (mesenterici, paraortici, ecc).
  • Stadio IV: interessamento diffuso di uno o più organi extralinfonodali (assimilabile a quelli di tipo metastatico), indipendentemente dal numero di sedi linfonodali coinvolte. Nel linfoma di Hodgkin è raro rinvenire un interessamento extralinfonodale (quindi anche uno stadio IV), mentre risulta più diffuso in quelli non-Hodgkin.

Negli stadi I-III, in caso di interessamento di un singolo organo extralinfonodale si aggiunge il suffisso E (quindi stadio Ie, stadio IIe, ecc). Generalmente si utilizza anche l'iniziale in inglese dell'organo coinvolto per precisare la sede (quindi L per il polmone, K per il rene, ecc). Nelle masse bulky (ossia di diametro superiore ai 10 centimetri) si aggiunge il suffisso X.

Terapia

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Il linfoma di Hodgkin come si è detto ha prognosi piuttosto favorevole rispetto ad altre neoplasie ematologiche: nei pazienti di stadio I e II la sopravvivenza a 5 anni è del 95% circa, mentre si riduce all'85-90% nello stadio III e all'80% nello stadio IV.

L'approccio chemioterapico di prima scelta è stato per decenni la MOPP, un cocktail di farmaci costituito dal Mustargen (nome commerciale della mecloretamina, una mostarda azotata con attività alchilante), Oncovin (nome commerciale della vincristina, un alcaloide), Procarbazina (altro alchilante) e Prednisone:

  • nelle prime due settimane di trattamento viene somministrata una dose giornaliera di procarbazina e prednisone;
  • il giorno 1 e il giorno 8 vengono somministrati anche la mecloretamina e la vincristina.

La terapia viene somministrata in cicli da 4 settimane ciascuno, per un totale di circa 6 cicli.

La MOPP ha rappresentato il gold standard terapeutico a partire dalla sua introduzione negli anni '70, pur non risultando scevra da rischi: è stato riscontrato infatti un rischio di circa il 20% di sviluppare una neoplasia secondaria (intesa non come recidiva dell'Hodgkin, ma come vera e propria neoplasia scollegata alla precedente -ad esempio una neoplasia gastrica, o una leucemia-) in seguito all'utilizzo della MOPP. Tale problematica, dovuta all'utilizzo degli alchilanti, ha determinato una drastica riduzione nell'utilizzo di questo schema terapeutico.

Attualmente la terapia di elezione nel trattamento del morbo di Hodgkin è la ABVD, che prevede la somministrazione di Adriamicina, Bleomicina, Vinblastina e Dacarbazina. I primi due sono antibiotici antitumorali, il terzo un alcaloide e il quarto un alchilante. La somministrazione dei farmaci avviene nel giorno 1 e 15 della terapia, in un ciclo di quattro settimane. Nella ABVD il rischio di sviluppare neoplasie secondarie è sensibilmente ridotto, attestandosi sul 3-5%.

Altro schema terapeutico assai diffuso è il BEACOPP, che prevede l'utilizzo di Bleomicina, Etoposide (inibitore della topoisomerasi II), Adriamicina, Ciclofosfamide (alchilante immunosopressore), Oncovin (vincristina), Procarbazina e Prednisone. Si tratta di un approccio più articolato e aggressivo rispetto all'ABVD, con conseguente grado di ospedalizzazione maggiore (l'ABVD può essere fatto tranquillamente in day-hospital, mentre la BEACOPP richiede un supporto maggiore e aumenta il rischio di ricovero dovuto allo svilupparsi di effetti collaterali). Alcuni trial[1] hanno tuttavia evidenziato che la percentuale di effetti collaterali nelle due terapie è pressoché identica.

Un terzo schema è lo IEV, costituito da Ifosfamide (alchilante), Epirubicina (antibiotico) e Vepeside (alcaloide).

Generalmente si inizia utilizzando uno schema terapeutico: se dopo due cicli di terapia una PET di controllo evidenzia ancora residui neoplastici, si cambia schema.

I linfomi di Hodgkin rispondono piuttosto bene alla radioterapia, specie in presenza di masse bulky.

Nei casi più problematici può essere necessario ricorrere al trapianto di midollo autologo o allogenico.

Nel 2017 la FDA ha approvato la commercializzazione del Brentuximab vedotin, un anticorpo monoclonale anti-CD30 contenente l'agente antimitotico monometil-auristatina E (MMAE). Poiché le cellule di Reed-Sternberg sono CD30 positive vengono legate dall'anticorpo, il quale viene internalizzato e libera il MMAE, che blocca la polimerizzazione della tubulina e conseguentemente la formazione dei microtubuli (e quindi la mitosi cellulare). Attualmente l'utilizzo del Brentuximab viene limitato ai pazienti refrattari alle chemioterapie.

  1. https://doi.org/10.1200%2FJCO.2011.38.5807