Le Istituzioni Religiose della Monarchia Romana
L'àugure (dal latino augur, all'accusativo augurem) era un sacerdote dell'antica Roma che aveva il compito di interpretare la volontà degli dèi osservando il volo degli uccelli, a partire dalla loro tipologia, dalla direzione del loro volo, dal fatto che volassero da soli o in gruppo e dal tipo di versi che emettevano.
Questa figura era tuttavia già nota alla cultura etrusca, come dimostra la Tomba degli Àuguri a Tarquinia, e a quella greca.
Composizione
Tito Livio racconta come fosse noto a tutti che fossero nominati auguri appartenenti alle tre antiche tribù dei Ramnes, Titienses, Luceres, in modo che ognuna ne avesse lo stesso numero delle altre, e che comunque questi fossero in numero dispari[1].
Dalla nascita della Repubblica (509 a.C.) e fino alla fine del IV secolo a.C. solo i patrizi poterono far parte di questo collegio, mentre dal 300 a.C., dopo un'aspra lotta politica che vide contrapposti i plebei, guidati da Publio Decio Mure, ai patrizi, guidati da Appio Claudio Cieco, vi ebbero accesso anche i plebei[2]. Funzioni
Secondo la leggenda questo ordine sacerdotale sarebbe stato creato da Romolo, che avrebbe scelto i primi tre sacerdoti, nominandone uno per ogni tribù di Roma.[3]
Tito Livio riferisce che era ben noto a tutti che a Roma nessuna decisione in guerra e in pace veniva presa senza avere prima consultato gli àuguri.[4]
Nel periodo arcaico c'erano due tipi di auguri: gli auguria privata, sulla cui base si prendevano alcune decisioni all'interno della famiglia, e gli auguria publica[5] per l'ambito pubblico. Di quest'ultimo tipo esistevano più auguri, che costituivano un collegium, in genere consultato dal magistrato prima di ogni importante atto pubblico.
Il compito degli auguri era quello di trarre auspicia dall'osservazione del volo, del comportamento e del verso degli uccelli per capire se gli dèi approvavano o no l'agire umano sia nell'ambito pubblico che in quello privato, sia in pace che in guerra (auspicia deriva da aves specere, cioè "osservare gli uccelli"). L'augure non doveva predire quale fosse la cosa migliore da fare, ma solo se un qualcosa su cui si era già deciso incontrasse o meno l'approvazione divina.[6]
L'arte degli auguri era chiamata augùrio o auspìcio. L'àugure aveva un bastone ricurvo a forma di punto interrogativo: il lituo.
La loro attività era a vita ed erano molto venerati, al punto che per chi li offendeva era prevista la pena di morte.
Un episodio curioso viene raccontato dallo storico romano Floro secondo il quale il re Tarquinio Prisco:
«[...] per avere prova [dall'augure Attio Nevio] se era possibile ciò che egli stesso aveva in mente. [L'augure] dopo aver esaminato la cosa in base ai presagi, rispose che lo era. «Eppure proprio ciò io avevo pensato se potevo tagliare quella roccia con il rasoio». L'augure Nevio replicò: «Tu lo puoi allora». E il re la tagliò. Da quel momento la funzione dell'augure divenne sacra per i Romani.» (Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 5.3-5.)
I segni (signa) inviati dagli dei erano di varia natura e la scienza augurale, dapprima avente per oggetto l'osservazione degli uccelli, poi si dedicò anche all'interpretazione di altri signa. Essi erano:
signa ex caelo o caelestia auguria: segni mandati dal cielo, come le saette (fulmina), i lampi (fulgura), i tuoni (tonitrua); signa ex quadrupedibus o pedestria auspicia: auspici ricavati dal movimento di quadrupedi e rettili; signa ex tripudiis o auguria pullaria: in guerra, dato che erano necessari segni di rapida consultazione, ci si serviva dei polli sacri. Se mangiavano, l'auspicio era favorevole, se poi mangiavano molto avidamente facendo ricadere saltellando a terra particelle di cibo (tripudium solistimum, tripudio perfetto), allora l'augurio era molto favorevole. Pullarius era detto l'àugure che osservava i polli per trarne gli auspici.[7]
C'era poi un quinto tipo di presagi, quello che si traeva ex diris, cioè da avvenimenti crudeli o funesti.[8]
Il collegio degli Auguri, assieme ai restanti collegi sacerdotali, finì con l'essere abolito dall'imperatore Teodosio I alla fine del IV secolo.[9]