Intervento umano sul paesaggio

Il paesaggio agrario, almeno per quello che riguarda l'Italia, ha una duplice matrice: il colle e la siepe. Il primo plasmato dalla natura, la seconda piantata e curata dalla mano dell'uomo. Sul binomio tra opera della natura e opera dell'uomo nel modellamento del paesaggio agrario sono state scritte pagine esemplari. Tra tutte si può ricordare il capitolo iniziale di un libro dal titolo significativo, Man's adaptation of nature di Patrick Bryan, che opponendosi all'ispirazione dei geografi tedeschi che nel crepuscolo dell'Ottocento avevano assunto come dogma la dipendenza necessaria dell'attività umana dalle risorse naturali, fonda la propria riflessione sul postulato che tra l'ambiente e l'uomo che vi abita si stabilisce un rapporto di duplice interazione: l'ambiente condiziona le attività umane, ma l'uomo reagisce al condizionamento modificando l'ambiente, così da rendervi possibili attività che l'assetto naturale non consentirebbe.

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Intervento umano sul paesaggio
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Evoluzione del paesaggio vegetale

Bryan sottolinea che gli interventi più significativi dell'uomo sulla conformazione della terra sono quelli che trasformano l'idrografia: l'erezione di argini per contenere fiumi, l'escavazione di canali per prosciugare acquitrini, la realizzazione di reti di irrigazione che distendono il manto della vegetazione in aree naturalmente desertiche. Neutralizzando le forze idrauliche che esplicano, sviluppandosi nei secoli, un pervasivo potere di trasformazione dell'ambiente, le opere umane a modifica dell'idrologia imprimono al territori un sigillo permanente, il segno dell'uomo, che distende la terra dove sarebbero il mare o la palude, porta l'acqua dove acqua non sarebbe, fissa il corso mutevole dei fiumi, la linea incerta delle coste.

Panorama storico

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Fin dall'alba della civiltà a sospingere gli interventi idraulici è stato il proposito di conquistare la terra alla coltivazione, in particolare per realizzarvi la coltura annuale dei cereali. In Mesopotamia e in Egitto l'uomo ha tracciato canali per irrigare campi di orzo e di farro, in Cina per inondare le risaie, in Mesomerica per irrigare il mais. Se la coltura dei cereali è stata, si può sostenere, la più potente di tutte le forze che hanno spinto, nel corso dei millenni, l'uomo a ridisegnare la terra, esistono aree dove i cereali possono essere coltivati senza grandi lavori per il controllo dell'idrologia: con l'Inghilterra e la Francia l'Italia peninsulare è esempio caratteristico di una terra di antica coltura crealicola disgiunta da grandi opere di emungimento e di irrigazione.

Anche sui dossi, tuttavia, tra i quali non è necessario tracciare argini e canali, l'intervento umano può manifestarsi in forme radicali: dove la pressione della popolazione sulla terra sia più elevata, imponendone lo sfruttamento più intensivo, per non tradursi in ragione di distruzione dello strato fertile del suolo l'intensività obbliga a ricorrere al terrazzamento, con il quale si creano, artificialmente, piccole superfici piane in cui il ritmo di coltivazione può essere assai più insistente di quanto possa sui terreni in declivio.

L'Italia è ricca di regioni di antico, minuzioso terrazzamento: dalle Prealpi alla Liguria, dalle fasce più elevate dell'Appennino emiliano alle valli toscane, Chianti e Casentino, fino alla Basilicata e alle isole Lipari, la Penisola è un caleidoscopio di regioni terrazzate secondo disegni che propongono la gamma più multiforme di soluzioni di rimodellamento dei terreni declivi. Opera meno onerosa del terrazzamento, eppure impegnativo suggello dell'uomo sul territorio sono le "sistemazioni" di collina costituenti orgoglio antico dell'Italia centrale, in specie quella mezzadrile: il giropoggio e il tagliapoggio, la spina e la colmata.

Dove, peraltro, la fame di terra non ha portato a rimodellare le pendici in terrazze, a sagomarle a giropoggio, a tagliapoggio o a spina, la scansione dello spazio è affidata, nelle zone declivi, al comporsi degli spazi agricoli e del bosco, e, negli spazi coltivati, alla divisione, tra campi di proprietari diversi, o tra i campi diversi dello stesso proprietario, della siepe. La siepe non modifica il territorio in modo permanente: un albero, entità vivente, non è un argine, muore, può essere sostituito, può essere asportato e non rinnovato. Eppure la sua presenza segna una scansione la cui alterazione può modificare radicalmente un'intera regione. Ricordo di avere ammirato, vent'anni fa, la regione delle siepi più famose d'Europa, la Francia normanna del bocage, e di averla rivista, l'anno scorso, dopo che le esigenze del trattore hanno imposto lo sradicamento di milioni di alberi che quei campi delimitavano da quasi un millennio: ho verificato come, tolte le siepi, nella Normandia non fosse più riconoscibile la regione ricordata con affetto da grandi scrittore, descritta dai geografi come scenario del tutto unico.

Elemento paesaggistico e fondiario, cardine di pratiche agricole, la siepe ha una storia antica e seducente. È il simbolo della disponibilità individuale del suolo, dell'indipendenza della conduzione in campi attigui, come tale è stata bandita, per quasi mille anni, dalle regioni d'Europa dove vigeva la conduzione comunitaria della terra, sottoposta ad una rotazione rigidamente uniforme, la coltura triennale, che imponeva di riunire tutti i campi del villaggio in tre grandi appezzamenti dove ogni famiglia coltivava la propria striscia secondo l'ordine comune.

In Inghilterra la lotta contro le superfici comuni, i commons, dividendone la superficie in campi delimitati da siepi, le enclosures, ha scritto un capitolo cardinale della storia agraria, economica, civile. Recingere con una siepe gli antichi arativi consentiva di lasciare al pascolo bovini o ovini da ingrasso, che non richiedevano alcuna sorveglianza. Ad arare, ogni otto, dieci anni, quei prati, era sufficiente un buon valletto di fattoria con due imponenti cavalli da tiro: le famiglie che avevano, per secoli, arato e seminato le sottili strisce dei commons divenivano superflue, dovevano andarsene. Così l'impianto delle siepi ha segnato, insieme al trionfo dell'allevamento moderno e delle rotazioni, l'espulsione dei contadini dalla terra, la loro emigrazione in città, quindi, insieme alla nascita dell'agricoltura moderna, l'origine dello sviluppo urbano. Oltre alla siepe l'albero può contribuire a scandire le superfici agrarie ordinandosi in filari: piantate di olmi, di aceri o pioppi maritati alla vite, filari di gelsi, meli o peri possono imprimere su una regione agricola un marchio che la segna in modo inconfondibile. L'Italia è stata per secoli terra di piantate: filari distribuiti a distanze peculiari caratterizzavano la Brianza, il Veronese, l'Emilia, il Veneto, la Toscana e le Marche. Chi scorra le biblioteche scritte da letterati, filosofi e uomini politici, tedeschi, francesi e inglesi, in viaggio in Italia, identifica nell'ammirazione per le belle pianure e le cortine di colli disegnate da fossi e filari una costante quasi immancabile. Ripercorressero l'Italia, Michel de Montaigne e Arthur Young non la riconoscerebbero: il loro disorientamento deriverebbe, essenzialmente, dalla scomparsa dei filari. "Noi abbiamo questo vago giardino che ci sta sott'occhio, questo regolare scompartimento di campi fatti dai nostri filari di viti, abbiamo quest'amenità di colline, risultato dei nostri oliveti... Questa, Signori, è una trista condizione: è una bellissima apparenza, ma in sostanza è una grandissima difficoltà che ci siamo creati..." proclamava ad Empoli, il 16 agosto 1857, Cosimo Ridolfi proponendo ai proprietari toscani le idee chiave del corso di lezioni che costituisce l'espressione più lucida del pensiero agronomico italiano dell'Ottocento. L'Italia era il giardino d'Europa, lo era perché dispiegava uno scenario agrario frutto dell'infinita cura dell'uomo, che nei millenni aveva congegnato, secondo il teorema di Bryan, sistemi straordinari per comporre, in un clima naturalmente non favorevole, quale quello italiano, coltivazioni cerealicole, coltivazioni arboree e allevamento animale.

Condizione essenziale di quei sistemi era l'erogazione pressoché infinita di manodopera, manodopera che le famiglie contadine fornivano per il compenso più misero. Lungimirante spirito economico, conoscitore profondo, per la pluralità dei viaggi, dello scenario agrario del Continente, Ridolfi capisce che di fronte alle pianure centrouropee dove stanno trionfando i fertilizzanti industriali e le macchine, i primi strumenti a traino animale prodotti dall'industria metallurgica, l'Italia della piantata è destinata a soccombere, che per produrre a costi competitivi la coltura promiscua deve cedere alla coltura specializzata: grandi campi privi di ostacoli alla manovra delle macchine e arboreti specializzati, dove concentrare le cure alle piante secondo i canoni della nuova frutticoltura. Il grande agronomo aveva pronunciato la propria sentenza osservando le esigenze di manovra di erpici e falciatrici trainate dai cavalli: il trattore moltiplicherà per cento le esigenze di manovrabilità imposte dal traino animale.

Il "vago giardino" che Ridolfi amava come figlio della Toscana, di cui vedeva l'inconsistenza come agronomo, era condannato: era inevitabile, quindi, che l'Italia divenisse la nazione delle campagne anonime, della caotica commistione tra superfici agricole e suburbi, tra campi e capannoni? Era inevitabile che il Bel Paese si convertisse nel Brutto Paese? Perché, siamo impietosi, attraversare tanti comprensori, al Nord, al Centro e al Sud, significa, oggi, attraversare un paese per il quale il titolo di bello è appellativo usurpato, che è più congruo definire il Brutto Paese. Brutto soprattutto perché le sue campagne hanno del tutto perduto il volto antico, non ne hanno acquistato uno nuovo che conservasse un gusto, il segno dell'amore per l'armonia, il sigillo di quel confronto intelligente tra l'uomo e la natura che ha disegnato gli scenari del Pianeta.

Il progresso tecnologico imponeva, ineluttabilmente, il sacrificio? La risposta non può che essere negativa: il progresso obbligava a modificare tutti i moduli di sfruttamento del suolo, non costringeva a mutarli rigettando ogni amore della terra e della sua bellezza. A imporre la risposta è il confronto con le campagne inglesi, dove si pratica l'agricoltura più moderna dell'intero contesto europeo, perché in Inghilterra le aziende hanno dimensioni maggiori, i trattori sono più potenti, ai trattori sono accoppiati gli utensili più imponenti. Eppure, attraversate regioni intere del Paese e avete l'impressione che le campagne che solcate siano immote nella configurazione plasmata dai secoli, le campagne descritte con tanto affetto da Defoe.

La percezione è illusoria: le trasformazioni sono state radicali, ma sono state operate con intelligenza, con amore per la terra, con fine gusto paesistico. Chilometri di siepi sono state sradicate, ad esempio, ma sono state lasciate quelle in posizione otticamente preminente, che vi fanno apparire tutto il territorio scandito dalle antiche cortine arboree. Le nuove grandi stalle, che in Italia sarebbero state costruite, a gloria del proprietario, sul poggio più in vista, sono state celate nella depressione tra due colli, e sono invisibili dalle vie di comunicazione. Le querce centenarie sono state dovunque rispettate, per ognuna che sia stata abbattuta al centro dei campi, dieci ne sono state piantate negli angoli morti per le manovre delle macchine.

In Italia, salvo che nelle colline semi-abbandonate, le siepi sono scomparse, ai filari si sono sostituiti i vigneti specializzati sorretti dai paletti di cemento, per dispiegare i quali spesso i bulldozer hanno spianato intere colline, mutata la prospettiva di intere vallate. Ricordo l'opera di una società italo-americana nell'incanto di Montalcino: chilometri di pioli di candido cemento, non più una macchia, una quercia: il manager piemontese di una corporation statunitense ha ideato il vigneto lunare.

A guardare, tuttavia, la metamorfosi dello scenario con l'occhio del geografo, che cerca quanto sia permanente, e trascura quanto sia contingente, non sono i mutamenti del corredo arboreo a determinarne la trasformazione. L'espianto di una siepe, o l'impianto di un vigneto specializzato, è opera reversibile: la siepe si potrebbe ripiantare, il vigneto invecchia e sarà sostituito, quello che ne prenderà il posto potrebbe essere impiantato, di nuovo, con supporti di legno, e si potrebbe persino romperne la monotonia con qualche fila di olmi, ripristinando, senza compromettere la funzionalità, il binomio millenario.

L'edificazione selvaggia

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A modificare irreversibilmente il paesaggio è l'edilizia: se tante regioni del Bel Paese fanno dell'Italia, oggi, il Brutto Paese, la causa è l'edificazione, l'espansione informe dei suburbi, il dilagare dei borghi rurali senza alcun rispetto delle campagne, l'inverosimile proliferare di villette, di fabbrichette, di condomini in ogni recesso del territorio rurale. In comprensori interi la campagna, la vera compagna, non esiste più. Ci si può prodigare per fare ripiantare qualche siepe: non mancano i nostalgici che per le siepi combattono epiche, patetiche guerre. Oltre la siepe posticcia ci sarà sempre l'emblema del genio italico, il genio del piccolo artigiano, fortuna e sciagura dell'italica gente, che alla campagna, complici sindaci e assessori, ha imposto il suo sigillo costruendo tra i campi, dove la terra costava meno, la fabbrichetta, e, a immortalare il successo, le ha affiancato la villetta tirolese, che deve ripagare del rammarico di non poter costruire la villa tirolese vera, come il grande industriale, a Cortina.

E come il piccolo manager ha appagato un bisogno profondo conquistando la campagna con capannoni e villetta, gli amministratori di comuni grandi e piccoli hanno misurato, per decenni, il successo della propria gestione sciorinando i metri quadrati sottratti alla campagna per realizzare villaggi industriali, aree pep, parcheggi e tangenziali, nella festa collettiva dell'urbanizzazione di un popolo nel cui cuore pulsava una repulsa profonda delle proprie origini contadine, e della campagna in cui quelle origini affondavano.

Ci si può interrogare, cento volte, sulla matrice della differenza dell'atteggiamento verso il paesaggio degli italiani, degli inglesi e dei tedeschi: credo che all'origine non si possa non identificare una percezione diversa del valore dell'ambiente, radicata nel profondo dell'anima collettiva. Vedere costruire una fabbrica tra campi e querce suscita probabilmente, il disappunto di sessanta inglesi su cento, il consenso di sessanta italiani su cento. Anche gli atteggiamenti collettivi possono cambiare: ma mentre si aspettava che mutasse l'atteggiamento verso il paesaggio, le campagne d'Italia sono cambiate, ormai irreversibilmente, e con la loro deturpazione è stato compromesso un patrimonio di valore essenziale per un paese che vuole competere per i primati turistici internazionali, che dovrebbe considerare la bellezza dei propri scenari autentico bene economico, uno di quei beni culturali di cui la cattiva coscienza ci dice quanto la tutela sia inadeguata agli imperativi civili, alla convenienza economica.

Verso quanto resta del bel paesaggio agrario la resipiscenza dovrebbe portare, quindi, ad un vigoroso moto di difesa, dove ancora possibile di recupero. Se, peraltro, la difesa del paesaggio agrario possa sembrare imperativo secondario rispetto alla pressione edificatoria, somma di interessi che il calcolo economico non può non premiare sull'esigenza turistica e culturale, a imporre un'ispirazione nuova verso gli spazi agricoli dovrebbe essere, ormai, una ragione economica ancora più primordiale, la ragione della sicurezza alimentare. In cinquant'anni di urbanizzazione l'Italia ha coperto di asfalto e cemento oltre un milione, forse un milione e mezzo di ettari di terra: misure precise non esistono. Per un paese che non disponeva che di sei milioni di ettari di pianura, in gran parte strappati faticosamente all'acquitrino, è stato sacrifico ingente. I progressi della tecnologia agricola hanno consentito di riparare alla perdita produttiva: sacrificato un ettaro ogni sei, raddoppiando, sui cinque rimasti, l'impiego di fertilizzanti, la produzione non solo non è caduta, è persino aumentata. È aumentata ma il nostro deficit alimentare è rimasto imponente: equivale alla produzione di oltre due milioni di ettari di pianura, metà della superficie di pianura di cui disponiamo.

Quello che non produciamo possiamo, oggi, agevolmente importarlo: i quattro grandi produttori di cereali del Globo continuano a imporre negoziati per convincere chi ha poca terra a rinunciare alla produzione, e a importare. Ma fino a quando importare sarà tanto agevole? In Asia due miliardi di uomini stanno mutando la propria dieta, chiedendo di mangiare carne di pollo e di maiale, latticini, e di bere birra: tre classi di prodotti che si ottengono dai cereali. Secondo le stime di alcuni commentatori solo la Cina, per modificare i propri consumi potrebbe importare, tra dieci anni, una quantità di cereali equivalente al volume complessivo del commercio mondiale. Estrapolazioni avventate? La superficie agraria a disposizione di ogni cittadino dell'Asia, un decimo di ettaro, cioè un quarto di quella media dei paesi occidentali, non è misura controvertibile. Il solo dubbio su un futuro agroalimentare diverso dal passato dovrebbe spingerci, razionalmente, a guardare le nostre campagne come la risorsa più preziosa, non come vacuum da ricolmare, con tutta la fretta possibile, di capannoni, villette a schiera e "aree logistiche".