Inchiesta in Sicilia
L'Italia unita ricerca la propria identità
Abbiamo esaminato il quadro dell'agricoltura toscana delineato da Cosimo Ridolfi: le apparenze seducenti di uno scenario dominato dalle colture arboree, l'emergere, dietro le cortine armoniose di viti, olivi e gelsi, dell'arretratezza degli ordinamenti, delle incongruenze del sistema mezzadrile, della resistenza, opposta agli imperativi di rinnovamento, dalla rigidità degli equilibri tradizionali. Può sorprendere chi abbia verificato la lucidità delle argomentazioni del patrizio toscano constatare, nel dibattito economico dei decenni successivi all'Unità, l'assunzione della mezzadria toscana a termine ideale di comparazione dei sistemi di conduzione delle regioni del Paese in cui persistono consuetudini agrarie che rivelino le tare dell'inefficienza produttiva e dell'iniquità contrattuale.
L'unificazione nazionale è stato il frutto di un moto che ha coinvolto una cerchia sostanzialmente esigua di spiriti patriottici, pensatori illuminati, generosi uomini d'azione: lo ha raccolto, in circostanze storiche singolarmente favorevoli, il realismo politico di uno statista che ha potuto avvalersi della macchina militare che il suo sovrano ha ereditato da antenati famosi per le glorie guerresche. Dopo secoli di divisione, ai principati uniti dalla corona sabauda manca il cemento di una cultura storica, giuridica, economica comune: abbiamo registrato la crisi di identità che l'Unità determina tra le scuole agrarie regionali, incapaci di emanciparsi dagli orizzonti entro i quali hanno sviluppato la propria tradizione per affrontare i problemi nuovi determinati dalla formazione di un solo grande mercato. L'assenza di una dottrina agraria nazionale alimenta, abbiamo rilevato, lo sconcerto dei possidenti, il disorientamento dei governanti, spiega le incongruenze di più di una scelta politica assunta nell'assenza di una conoscenza adeguata dei fenomeni da disciplinare.
Unita senza conoscere se stessa l'Italia si osserva inquieta alla ricerca della propria identità: gli ostacoli che si frappongono alla mutua conoscenza e comprensione delle aree diverse del Paese sono enormi: intere regioni sono isolate dalla mancanza di vie di comunicazione, parlano linguaggi reciprocamente incomprensibili, praticano costumi che rappresentano il retaggio di civiltà dalle radici le une alle altre estranee. Degli elementi che la coscienza nazionale raccoglie faticosamente alla ricerca di un patrimonio culturale sul quale fondare l'unità politica numerosi sono tali da suscitare stupore e smarrimento, non di rado una violenta repulsa.
Nel quadro nazionale l'agricoltura è l'attività dalla quale trae i mezzi di sussistenza la parte preponderante della popolazione, la prima fonte della ricchezza prodotta nel Paese, il primo dei cespiti che alimentano le finanze pubbliche: è, quindi, obbedendo ad una necessità ineludibile che all'agricoltura dedicano le proprie indagini e la propria riflessione quanti partecipano alla ricerca delle strade per la conoscenza ed il governo della società italiana.
E nella sfera dell'agricoltura gli elementi che suscitano l'apprensione di politici e uomini di cultura impegnati ai trasformare un mosaico di regioni disarticolate in nazione unitaria sono innumerabili: l'arretratezza delle pratiche agrarie diffuse nella maggior parte del Paese, conseguenza del supino ossequio alla tradizione di proprietari e contadini, la miseria delle popolazioni rurali, durissima anche nelle aree dove gli ordinamenti colturali sono più progrediti, la diffusione di malattie endemiche che dilagano con la virulenza di piaghe sociali, la frammentazione dei mercati, pesante remora che si oppone alla specializzazione delle produzioni secondo le vocazioni regionali.
In un panorama nel quale sono i fattori di arretratezza e di disgregazione ai imporre la propria preminenza, un'inquietudine particolare suscita la situazione delle regioni nelle quali agli squilibri agrari appaiono più intimamente legate le lacerazioni del tessuto sociale: la diffusione della criminalità e del brigantaggio, l'inefficienza delle istituzioni civili impiantate dallo Stato unitario. Propongono, con intensità diversa, il binomio di arretratezza agraria e disordine sociale la Romagna, la Campania, la Basilicata, la Calabria: la sua gravità è particolarmente drammatica in Sicilia, dove il brigantaggio trova nella miseria della popolazione rurale il terreno più fertile per imperversare incontenibile, dove la mafia, il vocabolo si è imposto con prepotenza nel lessico politico nazionale, distende un alone di onnipotenza nelle campagne di tutte le province occidentali, e l'invalicabile barriera di omertà di cui godono i delinquenti vanifica gli sforzi dei funzionari regi più solerti, immobilizza l'imponente schieramento militare che il Governo mantiene, senza risultati tangibili, nell'Isola.
Le tare dell'agricoltura, le loro connessioni con le disfunzioni sociali, miseria e delinquenza, e con l'inefficienza delle istituzioni, infiammano il dibattito più concitato. Da quel dibattito prendono vita, tra il 1875 e il 1877, l'inchiesta parlamentare sulla situazione economica e civile della Sicilia e quella sull'agricoltura nazionale, espressioni, entrambe, dell'impegno per la conoscenza del quadro nazionale: il confuso contrappunto di voci in dissonanza che ne accompagna lo svolgimento e ne segue le conclusioni tradisce, peraltro, clamorosamente, l'impreparazione a governare la vita nazionale di una classe politica la maggioranza dei cui membri è incapace di spingere lo sguardo oltre i confini del collegio elettorale.
Gli uomini la cui percezione politica e la cui passione civile varcano le barriere che hanno diviso nei secoli la Penisola sono drappello esiguo: seppure vigorosa, la loro voce si leva a fatica dal coro di quanti reclamano la tutela di interessi locali. In quel manipolo sono destinati ad assumere ruoli di prestigio eminente tre studenti universitari che verificano la comunanza dei propri ideali civili alla Scuola normale di Pisa, nelle aule dalle quali si è irradiato il magistero di Ridolfi e di Cuppari: Leopoldo Franchetti, fiorentino, Enea Cavalieri, ferrarese, Sidney Sonnino, pisano. Il primo futuro animatore, con l'amico Sonnino, della Rassegna, una delle voci più lucide e coraggiose del confronto politico nazionale, il secondo futuro alfiere della cooperazione agricola, il terzo protagonista di una impegnativa attività ministeriale, che lo porterà due volte a ricoprire il ruolo di capo del Governo.
Prima dell'Unità focolaio fervente di idealità patriottiche, negli anni successivi all'unificazione l'Ateneo pisano è assurto a centro di un dibattito appassionato fino alla violenza: professori e studenti si raccolgono attorno alle bandiere che contendono i consensi elettorali e animano lo scontro parlamentare, quella liberale e quella clericale, quella radicale e quella socialista. Tra le fazioni opposte diverbi e polemiche ardono inestinguibili. Per ognuno dei problemi cruciali della vita nazionale quattro strategie si misurano contrapponendo analisi inconciliabili e proposte divergenti, alimentando dissensi tanto violenti sul terreno verbale quanto, spesso, inconsistenti su quello politico.
È la percezione dell'inanità delle dispute verbali, la determinazione a confrontare i propri ideali con i problemi più drammatici della realtà nazionale ad indurre Cavalieri, Franchetti e Sonnino ad una decisione nella quale si compendia il gusto dell'esplorazione dei grandi viaggiatori contemporanei, l'aspirazione a contribuire ali progresso civile della Patria, una considerevole carica di goliardica temerità: visitare la Sicilia per studiarne le condizioni economiche e civili. Siccome reputano che i nodi della società siciliana siano strettamente connessi alle forme di conduzione della terra e a quelle di ripartizione dei suoi prodotti, stabiliscono che lo studio dell'agricoltura costituirà l'obiettivo esplicito della missione, che non riveleranno, invece, a nessuno dei futuri interlocutori le finalità politiche del viaggio, nel convincimento che dall'indagine dei problemi agrari emergeranno, per le connessioni intrinseche, le ragioni economiche, sociali e politiche del disordine civile dell'Isola.
Nessun indizio la relazione del viaggio fornisce per valutare quale influenza abbia esercitato, sulla decisione, sulla scelta dell'itinerario e dei quesiti da affrontare, la conoscenza, che dobbiamo presumere, di Girolamo Caruso, il successore, anch'egli siciliano, di Cuppari sulla cattedra di agronomia dell'Ateneo pisano, ardente fautore della stessa proposta di cui si faranno propugnatori, al ritorno, i tre giovani studiosi per rinnovare il tessuto agrario e sociale dell'Isola, la diffusione del contratto di mezzadria. Mentre precisano il proprio disegno, il Parlamento delibera l'esecuzione di un'inchiesta sulle condizioni della Sicilia. Decisi a precedere, con la propria relazione, la pubblicazione della relazione parlamentare, affrettano i preparativi, che si protraggono, comunque, per qualche mese, compromettendo l'assolvimento del proposito.
Passione civile, carabina e revolver
Procuratisi una serie di lettere credenziali per siciliani facoltosi, per funzionari civili e ufficiali dell'esercito in servizio nell'Isola, acquistate quattro carabine a ripetizione dell'ultimo modello offerto dal commercio e quattro revolver di grosso calibro, accompagnati da un servitore, intraprendono, nel gennaio del 1876, un itinerario che li condurrà, nel corso di quattro mesi, a toccare tutti i centri più importanti della regione, attraversando uno scenario geografico e sociale che non tradisce le attese di tre giovani trasportati dalla passione politica e dallo spirito d'avventura.
«Presa la nostra decisione -scrive Cavalieri vergando, nei 1925, la prefazione alla seconda edizione della relazione del viaggio che, al ritorno, è stata realizzata dai due amici- abbiamo subito pensato alla preparazione necessaria. Anzitutto occorreva che ciascuno raccogliesse quante più lettere di presentazione presso siciliani di diversa condizione ma sempre dimoranti nell'Isola e preferibilmente interessati nell'Agricoltura; infatti alla vigilia della partenza ne contavamo già quaranta che poi si moltiplicarono grazie alla grande cortesia con cui quei signori ci accolsero, e ce ne munirono. Fin da allora ci siamo prefissi di non prendere appunti durante i nostri colloqui, ma di affidarne alla memoria le parti più importanti e redigerne ricordo scritto alla sera aiutandoci scambievolmente. Conservo ancora il mio testo che comprende oltre cinquecento pagine e nel quale si leggono perfino gravissime accuse sulle quali, com'era doveroso, abbiamo conservato un geloso silenzio. Poiché era da prevedere che avremmo passato moltissime notti nei più umili villaggi e nei loro alloggi primitivi, abbiamo pensato ad aggiungere al nostro semplicissimo bagaglio dei letti da campo pieghevoli, ognuno munito di quattro vaschette di rame, rientranti l'una nell'altra per economia di spazio, nelle quali, riempiutele d'acqua, tuffare i piedi del letto prima di coricarci, per isolarlo dagli insetti. Abbiamo pure dovuto preoccuparci dell'eventualità di venire aggrediti dai briganti a scopo di ricatto, e quindi abbiamo deciso di provvedere per noi e per un fidato nostro servo che ci doveva accompagnare, quattro carabine "vetterli" di recentissimo modello a ripetizione, e quattro rivoltelle di grosso calibro, da portare costantemente su noi lungo il viaggio nell'interno... ... abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perché scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minacce concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo mulattiere e guide solo all'ultimo momento...
Ma se i briganti forse non pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l'errore provocando la nostra più schietta ilarità.»
Se l'itinerario siciliano è stato generoso di occasioni per appagare lo spirito d'avventura, dalle visite, dai colloqui, dalla riflessione sulla società in cui si sono immersi i tre laureati della Scuola normale non hanno mancato di ricavare gli elementi con cui assolvere allo scopo che si sono proposti. Usando dell'acume che ne farà protagonisti di primo piano della vita nazionale hanno interrogato centinaia di siciliani di ogni condizione, dai grandi proprietari patrizi ai contadini con i quali sono stati in grado di dialogare, superando diffidenze e ritrosie hanno raccolto notizie, dati, impressioni che coprono l'intero mosaico della vita sociale dell'Isola.
Riordinando, al ritorno, l'immensa mole degli appunti vergati, alla luce della lanterna, nelle stanze di locanda, si accorgono della difficoltà di dividere dati e notizie in tre sfere concettualmente distinte, quante vorrebbero individuarne peli ripartire in tre volumi la memoria del viaggio compiuto. Risolve il dilemma della suddivisione la decisione di Cavalieri, non pago dell'avventura siciliana, di partire per compiere il giro del mondo. La ripartizione della materia in due parti può essere compiuta secondo un criterio intrinsecamente coerente: Franchetti assume il compito di illustrare le condizioni civili e amministrative dell'Isola, Sonnino di svolgere l'esame delle forme di sfruttamento della terra, le pratiche agronomiche, le produzioni, i contratti agrari.
L'imminenza della pubblicazione degli atti dell'inchiesta parlamentare impegna i due giovani studiosi, decisi a precederla con la propria relazione, in un'accesa competizione col tempo. Rifiutando di sacrificare l'organicità del lavoro abbreviandone la stesura, esso vede la luce in dicembre, tre mesi dopo la pubblicazione della relazione parlamentare: anziché comprometterne il significato la dilazione ne accentua il rilievo politico. Cedendo alle pressioni dei circoli politici siciliani, gli estensori della relazione hanno omesso l'analisi delle radici sociali del clima di illegalità che regna nell'Isola, hanno sottaciuto le connivenze e la generale omertà di cui fruisce la delinquenza organizzata. Oltre al significato di analisi penetrante della società siciliana, la relazione del viaggio assume quello di denuncia delle omissioni dell'inchiesta pubblica.
Fedeli al disegno concepito partendo per la spedizione, muovendo dal terreno di un'indagine di economia agraria Franchetti e Sonnino sviluppano un'analisi organica dei rapporti sociali ed economici, dell'ordine amministrativo, di quello giudiziario della Sicilia. La procedura d'indagine si rivela perfettamente coerente all'oggetto di studio: salvo l'appendice mineraria rappresentata dall'estrazione dello zolfo, la società siciliana è, infatti, una società agricola. È parte di una società agricola la folla di braccianti, piccoli affittuari e compartecipanti che popola i borghi dell'Isola, di cui coltiva le distese di cereali e i giardini arborati in una condizione di soggezione alla terra e ai suoi padroni di inconfondibile matrice medievale. È parte di una società agricola l'unico elemento di borghesia mercantile presente nel quadro isolano, quel ceto di gabellotti che costituisce l'arbitro dell'economia della regione, disponendo dell'affitto dei latifondi, del commercio del grano, dei flussi di denaro, che controlla attraverso l'usura. È parte di una società agricola la nobiltà che nei palazzi di Palermo dissipa in un ozio sontuoso le rendite dei latifondi, la cui infima produttività, conseguenza della primordialità dei metodi di coltura, è compensata dall'immensità delle superfici.
Intrinsecamente interdipendenti, analisi degli ordinamenti agrari e analisi degli equilibri sociali si dividono nei due volumi senza perdere la coesione che ne fa i segmenti di una sola indagine, guidata dalla medesima ispirazione economica e civile. L'opera vede la luce con un titolo generale, La Sicilia nel 1876, ed un sottotitolo per ognuno dei due volumi: Condizioni politiche e amministrative il primo, I contadini il secondo.
La mafia signora della vita civile ed economica
Costruito, secondo un piano espositivo di grande funzionalità, usando gli strumenti di una profonda cultura giuridica e politica, in una prosa elegante ed efficace, il primo volume, frutto del lavoro di Franchetti, propone al lettore moderno pagine di attualità sconcertante nel terzo capitolo, La pubblica sicurezza, nel quale, analizzando i fenomeni che turbano la convivenza nell'Isola, il giovane studioso indaga sulle radici storiche e le manifestazioni peculiari, sociali ed economiche, della più potente delle forze dell'illegalità siciliana, la mafia. Signora incontrastata della vita economica e civile delle province di Trapani, Girgenti e Caltanissetta, il cuore dell'idra pulsa tra i ricchi agrumeti della Conca d'Oro ed i palazzi di Palermo, una città alla cui singolare bellezza corrisponde una diffusione della violenza e della corruzione senza eguali tra tutte le città d'Europa.
Del fenomeno Franchetti ricerca la genesi nella storia delle istituzioni civili dell'Isola, commisurando sistematicamente il risultato dell'indagine storica con le testimonianze e le osservazioni raccolte nel corso del viaggio. La sua origine deve essere attribuita, spiega, all'ordinamento feudale che ha costituito la forma della convivenza civile, in Sicilia, fino al 1812, quando fu soppresso con un provvedimento altrettanto privo di risonanza nella coscienza collettiva quanto vuoto di effetti sull'ordine sociale. Ordinamento feudale significa legittimità dell'esercizio della forza da parte dei signori terrieri, cui i titoli feudali attribuiscono, nei rispettivi domini, la potestà dell'esercizio della giustizia. È caratteristica intrinseca dell'ordinamento feudale la facilità di abusi, che nessuna autorità superiore è in grado di controllare: abusi del signore a vantaggio di interessi personali, abusi delle sue guardie armate, inevitabilmente propense ad usare della forza di cui detengono il privilegio contro una popolazione inerme. Agli arbitrii all'interno del feudo si aggiungono quelli che nascono dalla soluzione, affidata anch'essa alla forza, delle controversie che insorgano tra la giurisdizione dei signori di domini confinanti.
Come ogni ordine giuridico legittima i propri strumenti, l'ordinamento feudale giustifica, comunque, l'uso della forza, nella quale la popolazione riconosce la manifestazione del diritto vigente. Soppressa, formalmente, la feudalità, il governo borbonico non era in grado di sostituire all'imperio della forza dei baroni l'imperio della legge dello Stato: la violenza privata è rimasta il, mezzo universale per la soluzione di ogni conflitto di interessi, da strumento legittimo assumendo i connotati di strumento arbitrario. L'abuso, che nella cornice dell'ordine feudale rivestiva apparenze di diritto, si è imposto esplicitamente come diritto del più forte, consolidando nella società dell'Isola il convincimento già radicato che la forza fosse l'unica arma per la tutela degli interessi individuali.
La sovrapposizione, dopo la conquista garibaldina, delle istituzioni giudiziarie dello stato moderno ad una situazione di illegalità consolidata dalla degenerazione dell'ordinamento feudale è stato innesto dagli effetti meramente epidermici, incapace di informare a regole nuove l'ordito dei rapporti tra i cittadini.
La sussistenza di qualsiasi ordinamento moderno si fonda, argomenta Franchetti, sul consenso generale dei cittadini al sistema delle leggi, il cui imperio è considerato vantaggio generale, la cui violazione, a danno di chiunque, viene percepita come minaccia alla sicurezza di ciascuno. Mancando, nella coscienza civile della Sicilia, qualsiasi sentimento che potesse costituire il supporto delle nuove istituzioni, il trapianto di un ordinamento moderno ha moltiplicato, anziché contenere, le opportunità della violenza, siccome i rappresentanti dello Stato nell'Isola si sono trovati a confrontarsi con gli esponenti dell'antico ceto feudale rivestiti della nuova dignità parlamentare, che li riveste della dignità di rappresentanti del popolo seppure siano, nella realtà, mandatari della tutela di un tessuto di interessi fondati sull'illegalità. Il confronto ha sistematicamente determinato la sconfitta dei funzionari fedeli al proprio dovere, dei quali i parlamentari dell'Isola hanno sempre ottenuto la rimozione: a diciassette anni dall'annessione l'acquiescenza è la regola universale dell'amministrazione della giustizia in Sicilia. È nella sfera giudiziaria che deve individuarsi, secondo Franchetti, la falla più grave dell'apparato statale, in modo particolare nell'inefficienza della rete delle preture, che anziché costituire l'asse portante del sistema della giustizia si sono trasformate, per l'isolamento dei borghi, per i legami dei pretori con i potentati locali, nel baluardo a difesa dei ceti che della generale illegalità sono i diretti beneficiari.
L'impotenza della giustizia consolida, sottolinea il giovane studioso fiorentino, il convincimento generale che per la difesa degli interessi personali non esista legge diversa dalla violenza, rafforza la considerazione che la coscienza collettiva tributa a chi sappia imporre la propria preminenza, qualsiasi siano delitti e prevaricazioni attraverso le quali essa è conquistata e conservata.
Caratteri peculiari, nel quadro del generale imperi o della violenza, presenta. il circondario di Palermo, dove la frequenza dei delitti mostra che nella coscienza della popolazione l'assassinio è considerato il mezzo ordinario per risolvere conflitti di qualsiasi natura. Della violenza dei costumi di Palermo Franchetti identifica l'origine nella tradizionale presenza, nella città, delle schiere di bravi al servizio delle casate patrizie, una moltitudine turbolenta per la quale il delitto costituisce esercizio ordinario del proprio mestiere.
Il legame tra mafia e aristocrazia, asse portante della vita politica Se, tuttavia, la frequenza del delitto di sangue è l'elemento più appariscente del quadro civile della città, conseguenze ancora più gravi per l'ordine pubblico derivano dalla rete inestricabile del potere mafioso che domina il suo circondario. Le ricche campagne della Conca d'Oro sono ripartite, riferisce Franchetti, in aree di influenza di capimafia, arbitri sovrani della scelta degli affittuari e dei guardiani degli agrumeti, del prezzo di vendita dei prodotti agricoli, delle tariffe dei mulini, persino delle clausole economiche dei patti matrimoniali.
Con la trama onnipotente della mafia intrattengono relazioni sistematiche le grandi famiglie patrizie, che all'autorità della mafia affidano la tranquillità dei propri possessi e la regolare riscossione degli affitti. Ripagano quella sicurezza riconoscendo alla mafia il potere di intermediazione economica che costituisce il fondamento della sua potenza, quella forza intimidatrice che ne fa l'arbitro dei rapporti sociali. Il riconoscimento, palese seppure non esplicito, da parte della nobiltà terriera, assicura alla mafia la più indiscutibile legittimazione nel quadro della società isolana.
Nell'alleanza, antica e indissolubile, tra mafia e nobiltà terriera, Franchetti addita uno dei nodi che rendono insolubili i problemi della Sicilia: il disinteresse dei patrizi per l'amministrazione dei propri possedimenti significa, infatti, indifferenza. per i mezzi con i quali il mafioso cui ne è rimessa la tutela regola i rapporti con la folla multiforme dei subalterni, così che anche il proprietario dall'indole più mite, rifiutando di assolvere personalmente i fastidi di cento rapporti minuti, si converte, forse inconsapevolmente, eppure inevitabilmente, nel connivente di un delinquente, probabilmente di un assassino. Nei rapporti tra nobiltà e mafia deve identificarsi, cioè, il seme della corruzione della vita politica dell'Isola.
Il giovane patrizio che mira alla carriera politica difficilmente rifiuterà il sostegno offertogli dall'uomo che esercita un'autorità notoria ed indiscussa su un intero borgo rurale: può forse, intimamente, provare ripugnanza per il ricatto ed il crimine: accettando quel sostegno si lega ad un delinquente con un patto che gli imporrà, quando avrà conseguito prestigio ed autorevolezza, di usarne per assicurare all'uomo cui è debitore della propria ascesa l'acquisizione di appalti, l'archiviazione di indagini giudiziarie, ergendosi, ad ogni richiesta, a patrono dei mestieranti del crimine che dell'alleato politico sono il braccio esecutivo.
«Il vantaggio che un membro della classe dominante -scrive Franchetti, nel capitolo sulla Pubblica sicurezza, al paragrafo 57- può trarre dall'esistenza del ceto dei malfattori è, nel massimo numero dei casi, indiretto. Ben di rado egli ha bisogno di dare un mandato per omicidio, ed anche per minaccia. Nel corso ordinario della vita, perch'egli possa impunemente imporre la sua volontà, basta la fama ch'egli è alleato colla mafia. Come la mafia è la forza più rispettata, così chi l'adopera è certo di vincere chiunque usi altri mezzi di violenza, e fra coloro che l'adoperano, è sicuro di predominare chi è unito alla frazione più temuta di essa. Inoltre, la mafia non ha bisogno di adoperare attualmente la violenza o l'intimidazione diretta se non nel minimo numero dei casi in cui usa la sua autorità. Essa ha ormai relazioni d'interesse così molteplici e variate con tutte le parti della popolazione; sono tanto numerose le persone a lei obbligate per la riconoscenza o per la speranza dei suoi servigi, che essa ormai ha infiniti mezzi d'influire all'infuori del timore della violenza, per quanto la sua esistenza si fondi su questa...
Parimente, la perfetta organizzazione della classe dei facinorosi è cagione che essa possa assumere qualunque impresa per così dire, a cottimo, in modo che chiunque le dà un incarico non abbia da occuparsi dei mezzi che essa adopera per raggiungere il fine desiderato, e possa perfino ignorarli. Può benissimo darsi che sia commesso anche un assassinio nell'interesse di uno che si appoggi sulla mafia, non solo senza che questi lo sappia, ma anche quando sia uomo da riprovarlo ed impedirlo se lo sapesse. Non è che le cose avvengano sempre in questo modo. Più di un membro della classe dominante è direttamente responsabile di aver dato mandato per omicidii o per intimidazioni. Ma molti, e forse la maggior parte non hanno e probabilmente non avranno mai intenzione diretta di far commettere un assassinio; si contentano di conoscere in genere che se ne commettono, e si rassegnano a malincuore alla dura necessità che sia da altri usato siffatto mezzo per raggiungere direttamente o indirettamente i propri fini...
Ma se tutti coloro i quali proteggono la mafia non sono complici dei suoi misfatti, tutti, senza eccezione, contribuiscono a porla in grado di commetterli, adoperando tutti i mezzi di cui dispongono per mantenerla in vita prospera e rigogliosa, per proteggere i malfattori e sottrarli alla giustizia. Il dar loro ricovero, il nasconderli dalle ricerche dell'autorità, il dar loro vitto, vesti, armi, sono, fra i mezzi usati, i meno efficaci, e per così dire i più negativi; molto più che questi fatti, considerati isolatamente, caso per caso, si possono in gran parte giustificare col timore di una vendetta. Ma l'alleato della mafia, protegge i malfattori, aiutandoli a fuggire se arrestati, intrigando presso la magistratura o l'autorità coi potenti mezzi di cui dispone per impedire le condanne, sollevando al bisogno la cosiddetta opinione pubblica, per mezzo dei giornali di cui dispone, contro i funzionari che li fanno arrestare, e contro il Governo che sostiene quei funzionari.»
Nella precisione delle fondamenta storiche, nella lucida individuazione degli interessi economici e dei legami sociali che dominano la società siciliana, è un'analisi nella quale nulla ritiene di dover mutare, poco di dover aggiungere, chi abbia varcato, negli ultimi lustri del Ventesimo secolo, la soglia della società di una regione in cui l'autorità della legge dello Stato è tanto inconsistente da non opporre che risibili remore formali alle forze che detengono, oggi come al tempo del viaggio nell'Isola appena unita all'Italia, l'autentico, incontrastato dominio della vita economica e civile.
Nelle plaghe dell'interno la tirannia del grano
Nella cornice storica e sociale delineata dal compagno di viaggio, nel secondo volume Sidney Sonnino affronta il tema che ha costituito lo scopo esplicito dell'avventuroso itinerario: i contratti agrari, le modalità di ripartizione, cioè, tra i ceti sociali che partecipano al suo sfruttamento, dei frutti della terra nelle diverse aree della regione, secondo le caratteristiche delle proprietà e delle colture praticate Predisponendo la cornice entro la quale delineare il proprio quadro, alla disamina delle consuetudini contrattuali lo studioso toscano premette la descrizione della geografia agraria dell'Isola, che divide in due regioni: quella interna, ripartita in latifondi nei quali si pratica la coltura estensiva dei cereali e l'allevamento in forma semibrada, le coste sulle quali, in proprietà di dimensioni minori, prosperano le colture arboricole: vite, olivo, agrumi, mandorlo, frassino mannifero.
Tanto è desolatamente monotono lo scenario dell'area cerealicola, i cui connotati si ripetono identici dalla piana di Catania all'entroterra di Palermo, dai contrafforti delle Madonie a quelli dei Peloritani, altrettanto omogenei sono i canoni secondo i quali sono amministrati i latifondi in cui è suddivisa, identiche, in aree anche lontane, le pratiche agrarie, privo di varianti significative il tessuto dei contratti agrari.
I latifondi cerealicoli sono i dominii terrieri che hanno costituito l'ossatura del sistema feudale siciliano. Dissolta, con le leggi di eversione della feudalità, la connessione tra proprietà fondiaria e potere civile, hanno assunto, formalmente, i caratteri di grandi proprietà agrarie: soppresso, tuttavia, dalla legge di un sovrano privo di autorità, l'antico ordine giuridico, nulla è mutato nel contesto dei rapporti economici che si intessono per il loro sfruttamento. La sostanziale continuità delle forme di conduzione dei latifondi nella realtà dell'Isola trova l'espressione più efficace nel termine con cui li definisce il linguaggio comune, quello di ex feudi.
Le loro dimensioni sono variabili, comunque oltremodo ampie: la superficie media del latifondo cerealicolo può considerarsi, annota Sonnino, compresa tra 500 e 1.000 ettari, non pochi varcano, tuttavia, il limite dei 6.000 ettari.
Lo scenario di cui costituiscono le tessere è una fuga senza fine di dossi nudi, verdeggianti di un manto rigoglioso di grano, fave e foraggi nei mesi della primavera, quelli durante i quali si compie il viaggio dei tre compagni, che ripartiranno prima che la mietitura del grano li trasformi in deserto di stoppie, poi il lavoro degli uomini e dei muli in distesa di zolle nere e brune. La vista del rigoglio della primavera, non contemperata da quella dell'aridità dell'estate, distorcerà, constateremo, alcune delle valutazioni di Sonnino sulla fertilità dell'Isola.
Al centro dei campi che domina dall'alto, la masseria racchiude, entro muraglie solide come quelle di una fortezza, stalle e magazzini. Attorno alla sua mole quadrata qualche fico, olivo, carrubo interrompono con una presenza arborea la, distesa ossessiva dei seminativi e dei pascoli che si perdono, tra ondulazioni sempre uguali, all'orizzonte.
«Campi a grano, pascoli naturali -scrive Sonnino descrivendo, nel primo capitolo, i Caratteri generali della prima zona-, e maggesi lavorati alla profondità di un palmo - ecco la descrizione completa di tutta l'immensa campagna, che abbiamo compresa nella prima zona. Si può camminare a cavallo per cinque o sei ore da una città ad un'altra e non mai vedere un albero, non un arbusto. Si sale e si scende, ora passando per i campi, ora arrampicandosi per sentieri scoscesi e rovinati dalle acque; si passano i torrenti, si valicano le creste dei poggi; valle succede a valle; ma la scena è sempre la stessa: dappertutto la solitudine, e una desolazione che vi stringe il cuore. Non una sola casa di contadini. A lunghissimi intervalli, forse a ore di distanza, si trova qualche grande casolare all'apparenza antica e trasandata, Con una costruzione che accenna insieme a fortezza e a granaio. È quello il centro dell'amministrazione di qualche grande tenuta o ex feudo, servendo talvolta più di magazzino provvisorio, che di luogo di abitazione. Per strada s'incontra forse qualche gruppo di contadini che tornano dal lavoro, a piedi, o a due e tre a cavallo di un asino o di un mulo, tutto spelacchiato e piagato, sul quale hanno pure caricati tutti gli arnesi di campagna, cioè l'aratro e la zappa. Ad un tratto apparisce sull'orizzonte una comitiva di gente a cavallo, che scende nella vallata in direzione opposta alla vostra, e vedete il luccicare delle armi. Eccovi tutti in guardia. Esaminato il grilletto della vostra carabina, procedete innanzi con qualche precauzione. Non sarà nulla: - forse due o tre proprietari, o un gabellotto, che viaggiano coi loro campieri, tutti armati fino ai denti, da una fattoria o da una città ad un'altra.» L'area del latifondo è un'immensa distesa di terre disabitate: la precarietà dei rapporti di conduzione e l'insicurezza delle campagne impediscono ai contadini di risiedere sulla terra che coltivano, accentrandoli in grandi borghi nei quali vivono in tuguri miserabili, in indescrivibili condizioni di promiscuità e sudiciume. La conseguenza dell'accentramento nei borghi è l'entità degli spostamenti che debbono affrontare, quotidianamente, per recarsi sul campo, aggiungendo un percorso defatigante alla fatica del lavoro.
La distanza tra le abitazioni dei contadini e la terra che lavorano oppone una remora insormontabile all'impianto, nelle aree cerealicole, di qualsiasi coltura arborea, che imporrebbe una presenza costante. Precarietà dei contratti, insicurezza delle campagne, concentrazione dei lavori nei periodi cruciali della monocoltura, assenza di occasioni di lavoro per la cura di piante diverse, si compongono in un contesto in cui ogni elemento è, insieme, causa ed effetto di ogni altro, che insieme rendono indissolubile il binomio della cerealicoltura e della miseria.
A collegare le masserie ai grandi borghi non esistono, per di più, vere strade: le trazzere sulle quali si svolgono le comunicazioni della Sicilia interna non sono che piste di terra, che la prima pioggia d'autunno trasforma in solchi fangosi, che solo i muli sono in grado di percorrere faticosamente. La mancanza di strade rappresenta una delle tare più gravi dell'agricoltura dell'Isola, siccome impone il trasporto e la vendita del grano sul mercato più vicino immediatamente dopo il raccolto: una necessità che costringe i contadini a cedere la quota di loro spettanza nel momento in cui la congestione del mercato consente agli incettatori di imporre i propri prezzi senza incontrare alcuna resistenza.
Gabellotti, metatieri, terratichieri
La forma universale di conduzione degli ex feudi è l'affitto: i casi di conduzione diretta del proprietario sono tanto rari, annota Sonnino, da costituire più ragione di sorpresa che occasione di studio. Nel lessico agrario dell'Isola il contratto di affitto è definito col termine di gabella, un vocabolo di origine medievale che esprime efficacemente la natura di un sistema contrattuale nel cui ordito le clausole vessatorie tipiche dei rapporti economici medievali costituiscono elementi essenziali.
Ad assumere a gabella i latifondi della nobiltà terriera è il gabellotto, figura peculiare dello scenario economico siculo, nel qual costituisce l'unico rappresentante di un ceto imprenditoriale, dotato del capitale necessario a prestare le garanzie pretese dal proprietario e a sostenere le spese di conduzione. Non è evento raro, costituisce, anzi, la regola dei latifondi di dimensioni maggiori, la cessione, da parte di chi abbia stipulato l'affitto col proprietario, di parti dell'ex feudo in subaffitto a gabellotti dalle capacità economiche minori.
Anche quando, tuttavia, conduce direttamente il latifondo, il gabellotto, imprenditore caratteristico di una società primitiva, non assume né gli oneri né i rischi della coltivazione della terra, si limita a provvedere, attraverso personale stipendiato, alla cura del bestiame di sua proprietà, che utilizza il foraggio dei maggesi, secondo la rotazione ordinaria un terzo della superficie totale, ma rimette la coltivazione dei seminativi a contadini che la realizzano a proprio rischio, limitandosi, attraverso i propri guardiani, a sorvegliarne le opere ed a riscuotere la quota del raccolto di sua pertinenza.
La subconcessione della terra si realizza secondo una molteplicità di forme contrattuali: qualsiasi sia il meccanismo adottato, esso assicura al gabellotto la percezione di una quota sicura del prodotto esonerandolo dalle spese e dai rischi della coltivazione. Della parte del raccolto che spetterà, alla divisione, al concedente, tutte le clausole del contratto tendono ad accrescere l'entità a svantaggio del lavoratore, che esegue tutte le operazioni colturali senza alcuna certezza che il suo lavoro sarà compensato, siccome formalmente l'atto che gli assicura la disponibilità della terra è un contratto di affitto o di compartecipazione, che percepirà, quindi, quanto resterà del prodotto dopo il prelievo, da parte del gabellotto, delle quote che gli assicura la molteplicità di clausole a suo vantaggio. Qualunque sia l'entità del raccolto, il sistema garantisce al gabellotto la potestà di spoliazione del contadino.
Giungendo alla messe, infatti, onerato dalle anticipazioni ricevute dal concedente ad interessi usurari, obbligato ad adempiere ad una molteplicità di clausole vessatorie, costretto a vendere la propria parte del prodotto al momento in cui i prezzi sono più bassi, spesso privo dei mezzi per il trasporto ad un mercato, anche dall'esito dell'annata più favorevole il contadino non ricaverà mai quanto gli sarebbe necessario per affrontare l'annata successiva libero dalla schiavitù dell'usura, l'esito di un'annata infausta lo costringe a vendere il tugurio in cui vive, cadendo in una miseria ancora più disperata.
«Con questo contratto -scrive Sonnino analizzando, nel secondo capitolo della seconda parte, l'essenza economica della concessione del suolo per la coltivazione del grano- si rende assicuratore dei rischi di una coltura incerta, come quella dei cereali dovunque specialmente manca l'irrigazione, il piccolo coltivatore del suolo che difetta di capitali; e senza capitali non vi è possibile assicurazione di rischi. Ora perché il contadino potesse formarsi un tal capitale di assicurazione per le annate meno buone, bisognerebbe che le condizioni del fitto fossero moderatissime, e che il canone fosse calcolato piuttosto sulle raccolte delle annate cattive che delle buone. Ma invece abbiamo già veduto che cosa accade. La forma del contratto lasciando aperto a doppio battente l'adito alla concorrenza dei lavoranti, i padroni ne approfittano per stringere i patti, ed elevare sempre più i canoni di affitto, riducendo fino all'ultimo limite e al di là, il compenso che può toccare al contadino per la prestazione della sua opera.»
Nella molteplicità delle varianti legate a usi locali, e alla disponibilità, da parte del contadino, di un animale per l'aratura, la concessione del suolo per la coltura del grano assume, nei latifondi dell'area interna, due forme alternative: quella di un contratto di affitto, il terratico, quella di un contratto di compartecipazione, la metateria. Per gli studi compiuti sulla mezzadria toscana osservatore accortissimo di clausole e vincoli, di entrambi Sonnino svolge l'analisi più accurata, esaminandone ogni condizione, eseguendo il computo degli esiti della ripartizione del prodotto secondo le clausole adottate, secondo le anticipazioni che il contadino abbia richiesto al concedente e l'entità del raccolto.
«Il contratto di terratico -spiega al secondo capitolo, nel quale descrive le peculiarità della Zona intermedia e meridionale- non è altro che un fitto in grano. Si conviene che il contadino terratichiere deve pagare secondo la qualità delle terre o i luoghi 2, 3 o 5 salme di grano (1 salma di grano palermitana = litri 275,09) per salma di terra (1 salma di superficie palermitana = mq 17.460) Di più paga in generale 1 tumulo di grano (16 tumoli = 1 salma) per ogni salma di terra a titolo di diritto di guardia, ossia pel pagamento del campiere, impiegato dal gabellotto per sorvegliare la terra e più ancora il rigoroso adempimento del contratto da parte del villano... Si dice in Sicilia che il terratico è di 2, 3 o 5 terraggi... secondo il numero di 2, 3 o 5 salme di grano, che il contadino debba pagare per ogni salma di terra.
In media si può forse ritenere che il terratico in Sicilia sia di 3 terraggi; ma le medie ci dicono poco o nulla; e per farsi un giudizio di quanto sia volta per volta più o meno grave la prestazione per il contadino, bisogna poter tener conto di molti altri elementi oltre quello della cifra degli ettolitri da pagarsi per ettaro di terra, come per esempio della fertilità del suolo, del capitale impiegato, ecc... Il terraggio in¬grano è dovuto dal terratichiere anche per l'anno del maggese, quando questo sia compreso nel contratto, e ciò tanto se il contadino vi semina le fave, e questo è il caso più generale, come se fa il maggese vuoto. Naturalmente l'essereci o no il maggese compreso nel contratto fa una differenza nel fitto.»
Operazioni colturali e clausole di divisione
«Secondo gli usi dei luoghi, la natura dei terreni o la più o meno durezza dei padroni, e la concorrenza dei lavoranti -scrive lo studioso pisano analizzando, al paragrafo successivo, il secondo contratto-, sono infinite in Sicilia le minute varietà del contratto di metaterìa, e che vertono specialmente sui patti di restituzione della semenza e sul maggiore e minor numero di diritti, che deve pagare il contadino sulla sua parte...
E cominciamo dall'anno del maggese, supponendo che questo sia a carico del contadino. Se il maggese resta vuoto, e soltanto lavorato con due o tre arature dal contadino, questi nulla paga e nulla riscuote per quell'anno, ma i patti per l'anno seguente sono in compenso più vantaggiosi per lui. Riceve intanto, e finché durano i lavori nel campo, qualche soccorso in grano dal padrone; soccorso ch'egli deve rendere nell'anno seguente, alla raccolta del frumento, restituendo 20 tumoli per ogni 16 che riceve.
Se invece sul maggese si mettono le fave, i patti sono di due specie. Nella prima che è la meno vantaggiosa pel contadino, il padrone anticipa la semenza delle fave, che ripiglierà al tempo del raccolto coll'addito, o frutto, di quattro tumoli per ogni salma (16 tumoli) che ha dato... detratta... la semenza, il resto si divide a metà...
Secondo l'altra forma di contratto, che si usa per le terre più stanche, più distanti e meno buone, tutto quanto il raccolto va al contadino colla sola deduzione della semenza coll'addito; ma in questo caso per lo più i patti per la divisione del frumento dell'anno seguente sono alquanto aggravati...
Passiamo ora al primo anno della coltura del frumento. Se il padrone lavorò, il maggese precedente per proprio conto, la divisione del raccolto si fa con uno dei due sistemi seguenti, che si ritrovano usati ambedue negli stessi luoghi.
1° Il padrone dà la semenza senza riprenderla sul raccolto. Il contadino fa l'aratura e tutti i lavori di seminagione, prendendo l'aratro in affitto, se non l'ha in proprio, oppure unendosi ad un altro compagno, se egli non possiede che un solo mulo; fa tutti i lavori di sarchiatura del grano, tutte le spese della raccolta, del trasporto sull'aia, e della trebbiatura che in tutta la Sicilia si fa colle cavalle, o più spesso coi muli. Per il trasporto all'aia il padrone è tenuto talvolta a prestare i bovi; altre volte egli prende dal contadino un tanto fisso, generalmente un tumolo di grano per salma di terra, a titolo di trasporto... Più spesso la divisione è di tre parti, di cui una al borgese e due al padrone, riprendendosi questi per di più, ora sì e ora no, la semenza prestata. Il contadino deve sulla sua parte pagare a titolo di guardia, un tumolo di grano per salma di terra.
2° Il padrone anticipa la semenza. Il contadino fa tutti i lavori e le spese dette sopra. Il raccolto si divide a metà, ma il contadino deve per di più al padrone sulla propria metà: a) La semenza, ch'egli deve restituire nella quantità ricevuta, più l'addito di quattro tumoli per salma, ossia del 25% per circa 7 mesi: - talvolta l'addito non è che di due tumoli, ma è caso alquanto raro... b) Un terriggiuolo o antiparte, che varia molto nel suo importare, ma sta per lo più tra una e due salme di grano, per salma di terra; c) Il diritto di guardia, che varia da mezzo a due tumoli, ma ordinariamente è di un tumolo di grano per salma di terra... Di più secondo i casi, i luoghi, i terreni e i proprietari si toglie dalla parte del contadino il diritto di messa; ordinariamente un tumolo per salma di terra. Questo diritto viene tassato nei luoghi lontani dalla città, per pagare il prete che dice la messa... diritto di estimo o di stimatina, di cui non sapremmo bene dare la spiegazione; e che per lo più non si prende che nel solo primo anno in cui si coltiva frumento. È di circa un tumolo per salma di terra; diritto di sfrido per la perdita che subirà nella vagliatura il grano restituito per la semenza: è di circa 3/4 di tumolo per salma di terra; restituzione della tassa di ricchezza mobile colonica stata anticipata per legge dal padrone; diritto di cuccìa o del maccherone, che vien dato dal contadino al campiere a titolo di dono. - I padroni dicono che essi non ci hanno che vedere, e che il contadino può dare quel che vuole, ma nel fatto accadono molti abusi e i padroni , non se ne incaricano. Si ritiene ordinariamente come giusto il dare un mezzo tumolo per salma di terra; diritto del galletto, ed altri minuti diritti e angherie. L'una o l'altra delle suddette due forme di contratto riesce più o meno vantaggiosa al padrone o al contadino, secondo il maggiore o minore prodotto che si ottenga da una salma di terra. Se il prodotto è molto ricco, converrà più al padrone la prima forma di divisione a 3/4 e 1/4, o anche a 2/3 e 1/3, siavi o no prelevazione della semenza, mentre quando il prodotto per salma di terra è meschino, riesce più grave al contadino la seconda forma, quella cioè della divisione a metà, più la restituzione della semenza coll'addito, e il pagamento del terriggiuolo fisso; - e ciò evidente mente perché essendo il terriggiuolo una quantità fissa, come pure la restituzione della semenza coll'addito, esse superano nelle cattive annate la differenza che può correre tra la metà e i due terzi o anche i tre quarti del raccolto.»
I braccianti, paria della società isolana
Nel quadro di degradazione economica e morale in cui trascinano l'esistenza i contadini siciliani, vivono in condizioni ancora più precarie dei terratichieri e dei metatieri, che il lessico siciliano definisce, paradossalmente, borgesi, coloro che, non possedendo nemmeno il mulo con cui eseguire l'aratura di un appezzamento assunto in concessione, sono costretti ad affidare la sopravvivenza alle prestazioni giornaliere, i giornatari. Ai giornalieri la cerealicoltura estensiva che domina l'area del latifondo non offre, nell'intero corso dell'anno, sicurezza di lavoro che in due periodi, quello delle semine e quello della mietitura, quando l'urgenza delle operazioni essenziali per la produzione fondamentale dell'economia del latifondo consente ai giornatari di richiedere salari sufficientemente elevati: i più alti, annota Sonnino, tra quanti si registrano nell'intero Paese, nelle condizioni più favorevoli fino a 3,5 lire al giorno. La domanda di lavoro si esaurisce, tuttavia., in archi brevissimi di settimane, costringendo i braccianti ad un ozio forzato che si protrae per la maggior parte dell'anno, causa dell'orrenda miseria in cui vivono.
A pagare i salari dei braccianti non sono comunque, nel meccanismo inesorabile che fagocita i frutti del lavoro dei contadini siciliani, i gabellotti, sono i metatieri ed i terratichieri cui spetta, in base ai rispettivi contratti, l'esecuzione di tutte le operazioni colturali. Solo nel caso di impossibilità del concessionario del terreno ad assoldare le braccia necessarie, vi sopperisce, a proprie spese, il gabellotto, sicuro di potersi rivalere sul grano accumulato nell'aia dopo la trebbiatura.
«Tutta l'economia agricola della maggior parte dell'Isola - rilevaa Sonnino nel terzo capitolo della seconda parte, dedicata ai salari - tende a rigettare il pagamento dei salari dei braccianti sulla stessa classe dei contadini. Sono difatti i contadini metatieri o terratichieri che devono pagare tutti i lavori necessari per la coltivazione dei loro poderi... Tutte queste classi, e sovrattutto i metatieri e terratichieri, che sono il maggior numero, si trovano in condizioni tali che è loro impossibile di accordarsi in modo espresso o tacito, per lottare contro l'elevatezza dei salari in quelle epoche dell'anno in cui è grande il bisogno di braccia. Se essi per difendersi mostrassero di voler differire o sospendere i lavori, ci penserebbe subito il loro padrone o il suo campiere a fissare addirittura le ciurme dei lavoranti; e al padrone poco importa se il salario pagato è di qualche centesimo più o meno, poiché egli non fa che anticiparlo per conto del borgese.»
Nella miseria comune, la differenza tra le condizioni dei borgesi e quelle dei giornatari si risolve, annota Sonnino, nella certezza dei primi di impiegare la propria opera quando non sussiste, per i braccianti, alcuna possibilità di lavoro, ed in quella di poter richiedere al gabellotto anticipazioni sul raccolto che seppure, a ragione del tasso usurario a cui saranno ripagate, fagociteranno la loro quota di raccolto, assicurano loro la sopravvivenza durante l'inverno.
Un'economia fondata sull'usura
Compartecipante o bracciante, nelle plaghe del latifondo la vita del contadino si consuma nell'assoluta precarietà del lavoro, le cui occasioni si risolvono in poche settimane di fatiche abbrutenti all'epoca delle arature e della mietitura, il cui compenso spesso non è sufficiente a ripagare i debiti contratti per soddisfare i bisogni primordiali della famiglia. La sua esistenza scorre nella soggezione incondizionata all'usura, il perno sul quale ruota il meccanismo della ripartizione dei frutti della terra nella Sicilia cerealicola, il meccanismo che rende possibile ad un ceto di privilegiati di trarre da un'economia primitiva i mezzi per un tenore di consumi che eguaglia quello delle capitali europee del commercio e delle manifatture.
«Il tarlo roditore della società siciliana è l'usura - scrive Sonnino al quinto capitolo della prima parte-. Il contadino siciliano è sobrio, laborioso e duro alla fatica: il suolo è fertile quanto altro mai: la media di produzione di grano non è certo inferiore alle otto semenze, più cioè che in Toscana dove si vanga profondo e si concima, mentre in Sicilia l'aratro non fa che malamente scalfire la terra con solchi della profondità di un palmo, e la concimazione è più nominale che reale: il clima è temperato e assai costante, - e con tutto ciò la condizione delle classi agricole è misera. I contratti agricoli sono tali che la concorrenza reciproca dei contadini riduce sempre il loro guadagno annuale complessivo al minimo necessario alla vita; come accade sempre e dovunque la legge, l'accordo, o meglio la consuetudine, non abbiano posto barriere alla libera concorrenza dei lavoranti; ma quel che peggio è, in Sicilia la forma speciale dei contratti e le condizioni dell'agricoltura in tre quarti dell'Isola, sono tali da rendere indispensabile al contadino di mutuare denari, ossia di chiedere soccorsi anche nelle stesse annate buone...
Il saggio comune del frutto o addito, che si prende il padrone per le anticipazioni fatte al proprio contadino, è di 4 tumoli a salma, ossia del 25%. E si noti che questo addito si prende anche per una anticipazione fatta non più di due o tre mesi prima del raccolto, sicché in questo caso il saggio annuo dell'interesse diventa quattro o cinque volte maggiore, e veramente enorme... La ragione per la quale ai proprietari o gabellotti convien sempre di fare essi stessi le anticipazioni ai metatieri durante i lavori sulle loro proprietà, è quella d'impedire che altri possa, prestando soccorsi al contadino, acquistare privilegio per il rimborso sul raccolto...
E finalmente... essendo i prezzi del grano nell'inverno scorso e nella primavera di quest'anno (1876) rimasti piuttosto bassi, vari gabellotti e proprietari dei pressi di Caltanissetta, temendo di riscuotere troppo poco grano all'epoca della futura raccolta col semplice conguaglio dei prezzi, più i 2 tumoli di addito, s'appigliarono al partito di valutare il grano che consegnavano ai contadini a un prezzo fittizio, e molto superiore a quello vero del mercato...
E questo invero è l'espediente generale con cui l'usura in Sicilia come altrove, maschera una parte delle sue enormità, col valutare cioè a un prezzo fittizio e superiore al vero, quanto viene consegnato al mutuatario.
Il giornaliere si trova naturalmente, quando abbia bisogno di soccorsi, in condizioni ancora più dure di quelle del metatiere, poiché non avendo padrone a cui indirizzarsi, e a cui importi di lui, egli deve, salvo i casi di relazioni personali o di clientela con qualche proprietario o gabellotto, ricorrere in ogni circostanza agli usurai di mestiere. L'usura rende impossibile al contadino siciliano ogni risparmio, ogni miglioramento della sua sorte; e peggio ancora, col tenerlo in uno stato continuo di asservimento legale e di depressione morale, gli toglie ogni libertà, ogni sentimento della propria dignità.»
Vite, olivo, mandorlo, frassino
Una correlazione speculare a quella che unisce la monotonia del dominio del latifondo all'omogeneità dei rapporti contrattuali che vi sono praticati si rileva tra la multiforme varietà delle colture delle fasce costiere e delle valli che dalla costa si protendono fra i rilievi, ed i contratti praticati per la loro coltivazione. In un ambiente geografico singolarmente propizio a tutte le coltivazioni arboree, secondo le condizioni climatiche e le tradizioni locali si dispiega sulle coste dell'Isola una gamma ricchissima di specie e di consociazioni. La vite domina incontrastata tra Mazzara e Trapani, gli agrumi nei giardini della Conca d'oro; della costa settentrionale, tra Termini Imerese e Messina, è signore l'olivo, che cede il proprio primato, in aree particolari, a specie diverse: il frassino mannifero a Castelbuono, il gelso a Patti. La costa orientale è un denso mosaico di vigneti, oliveti, agrumeti. Vite e olivo risalgono, fino al limite dei boschi, le pendici dell'Etna; in provincia di Siracusa l'arboricoltura si protende verso l'interno con gli agrumeti di Lentini e le piantagioni di carrubo di Noto. Dovunque mandorli e fichi si inframmettono tra le specie diverse.
Delle specie dominanti, delle consociazioni colturali, delle pratiche di coltivazione e delle consuetudini contrattuali Sonnino delinea schizzi di grande precisione agronomica, di seducente efficacia letteraria.
«Il comune di Marsala - scrive nel terzo capitolo della prima parte, dedicato alla Zona alberata-, oltre all'alto onore di aver dato il nome al vino siciliano più conosciuto in Europa, presenta la particolarità di essere uno dei due soli municipii di tutta la parte occidentale dell'Isola, dove la popolazione rurale abiti in gran parte sparsa nelle campagne... Verso Mazzara la proprietà dei vigneti non è molto frantumata, e vi si usa più dai proprietari la coltivazione per mezzo di salariati a giornata... A Marsala invece, il vignere prende l'impresa di tutti i lavori della vigna, a estaglio, ossia a un tanto - ordinariamente 24 lire - per ogni 1000 piante. Egli deve fare due arature fra le viti, la potatura, e ogni altro lavoro, prendendo per suo conto i giornalieri necessari: la spesa di vendemmia però è a metà col padrone... In ogni vigna, che non sia piccolissima, evvi una casetta, che ha generalmente un primo piano oltre quello terreno.
L'aspetto di tutte queste casette è sorridente, e dà un'impressione di benessere dei contadini, forse anche maggiore della realtà, poiché l'abitazione vera del contadino è quasi sempre ristretta a una stanza, e il resto della casa è riservato esclusivamente al proprietario della vigna, che va a starvi durante la vendemmia. La condizione però della classe dei vigneri, sembra essere veramente un po' migliore che altrove...
La coltura così estesa della vite è stata promossa dai grandi stabilimenti per la fabbricazione di quel tipo di vino conosciuto dovunque come vino di Marsala. Il più antico di questi stabilimenti (Woodhouse) data fin dal 1789; a questo s'aggiunse 1815 lo stabilimento Ingham, che occupa ora circa 300 operai, e possiede 12 grosse barche a vela, che viaggiano le coste della Sicilia per raccogliere da ogni parte mosto e vino; e in data molto più recente surse il non meno grandioso stabilimento Florio...
I grandi stabilimenti che a Marsala vengono designati col nome generico gl'Inglesi, fanno nel corso dell'anno anticipazioni in denaro ai proprietari e ai censuari dei vigneti, contro l'obbligo di consegnare a suo tempo allo stabilimento mutuante, tutta l'uva, o il mosto, o il vino che produrranno; e ciò al prezzo generale che fisseranno gli stessi Inglesi... Questo prezzo viene fissato uniformemente da tutti gli stabilimenti primari.»
«Prima però di lasciare la provincia di Palermo -scrive Sonnino riferendo della prima tappa dell'itinerario tra Palermo e Messina-, merita il conto di fare una gita nella fertile vallata di Castelbuono, che giace immediatamente sotto le Madonie, ed è divenuta tristamente reputata, per essere da circa quattordici anni teatro delle gesta della banda brigantesca capitanata dal Rinaldi. Qui oltre gli oliveti e le vigne, troviamo il centro maggiore della coltivazione del frassino mannifero, e specialmente della varietà amolléo, che produce una manna più bianca e di maggior prezzo...
Una particolarità singolare che si riscontra più specialmente in questa vallata, è la promiscuità dei diversi diritti di proprietà degli oliveti. Il suolo degli oliveti appartiene spesso a un proprietario, e gli alberi a uno o più altri. L'origine storica di questa singolarità è la seguente. Nei secoli scorsi il marchese di Geraci, feudatario di questa valle, allo scopo di arricchire la città e le terre, e per attirarvi maggiore popolazione, dava il permesso a chiunque di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far così proprie le piante di olivo. Il Comune di San Mauro tolse la promiscuità nei suoi beni col censimento che ne fece nel 1861, nella quale occasione concedé a un censo minimo a ciascun proprietario di qualche pianta di olivo, il pezzo di terreno sottostante... In moltissimi oliveti però dura tuttora la promiscuità dei diritti. Il possessore degli olivi ha diritto di innestare gli oleastri che nascono più vicino ai suoi alberi che a quelli degli altri. Morto però un olivo, il possessore non ha diritto di ripiantarlo; il diritto di piantare nuovi olivi non spetta che al proprietario del suolo...
Nei contratti agricoli che si usano nella vallata per le colture alberate, si ritrova più frequente l'uso della partecipazione del contadino al prodotto, che non in tutta quella parte della Sicilia, che abbiamo finora percorsa. Non vi è però- forma di mezzadria secondo il tipo continentale, perché mancano nella campagna le case rurali; perché di anno in anno variano generalmente i patti che si fanno con ogni contadino, il quale contratta ogni volta per appezzamenti diversi, e non ha alcun legame stretto e continuato collo stesso padrone; e perché presso ogni proprietario e per ogni speciale coltura i patti hanno forma e natura diversa.»
Espressione della varietà delle consociazioni, conseguenza dell'isolamento di ogni piana o vallata, siccome le strade litoranee non sono migliori di quelle che attraversano l'interno, le forme contrattuali praticate per la coltura degli arboreti propongono una gamma innumerabile di varianti di un novero pure cospicuo di rapporti tipici. Nel proprio itinerario sulle coste i tre viaggiatori registrano la prevalenza, nelle aree che attraversano successivamente, dei rapporti medievali di censo e di enfiteusi, dei contratti di affitto, di quelli di partecipazione, fino ai contratti di miglioria, il patto con cui il contadino si impegna ad impiantare un arboreto di cui godrà i frutti nei primi anni per renderlo, scaduto il termine, al proprietario: una forma di miglioramento fondiario che addossa ogni onere, ancora, al lavoratore, al quale non assicura che un beneficio temporaneo, di valore certamente inferiore alle spese di piantagione.
Oltre alla molteplicità delle forme contrattuali, differenzia il quadro delle consuetudini agrarie delle fasce arboricole da quello del latifondo la diffusione dell'impiego di lavoro salariato, un uso che si spiega, annota Sonnino, considerando la delicatezza delle cure richieste da un impianto arboreo, tale da indurre il proprietario ad affidarne l'esecuzione a personale sottoposto al proprio controllo diretto.
Conoscono una considerevole diffusione anche i patti che prevedono la parziale partecipazione del lavoratore alla divisione del prodotto, che compongono una gamma che si dispiega da forme di semplice integrazione del salario, che rappresenta l'elemento fondamentale della retribuzione, con quote pressoché insignificanti del raccolto, fino ad autentici rapporti di ripartizione della produzione, in cui il compenso del lavoro è costituito per intero da una parte del prodotto. Particolarmente diffusi in provincia di Messina, i patti di compartecipazione assumono nelle campagne circostanti le Petralie una configurazione che consente di assimilarli alla mezzadria toscana.
Contro la miseria contadina diffondere la mezzadria
A conclusione della rassegna che ne ha compiuto Sonnino dichiara, comunque, che i patti di partecipazione che si praticano sulle coste della Sicilia sono inadeguati, complessivamente, ad assicurare condizioni di lavoro più eque ai contadini, che nelle aree caratteristiche dell'arboricoltura versano nella stessa miseria di quelli dell'area cerealicola. La constatazione, riconosce, potrebbe essere assunta a dimo¬strazione dell'indifferenza, per il contadino, della configurazione del contratto secondo il quale presti la propria opera, siccome la concorrenza dei lavoratori livellerebbe le retribuzioni, in qualsiasi forma pattuite, ai limiti della sussistenza.
Un'analisi più accurata delle forme di partecipazione praticate in Sicilia consente di rilevare, sottolinea lo studioso toscano, che la loro incapacità di assicurare ai lavoratori condizioni di vita più umane deve essere attribuita alla loro frammentarietà, siccome sullo stesso fondo è consuetudine associare compartecipanti diversi alle differenti colture, e alla loro precarietà, siccome la durata si esaurisce generalmente nel corso di una stagione. Per consentire la sicurezza del lavoratore i contratti di partecipazione debbono essere integrali, sottolinea Sonnino, interessare, cioè, tutte le colture del fondo, e stabili, avere cioè, per principio, durata illimitata.
Il contratto di compartecipazione che assolve con maggiore organicità ai due requisiti è la mezzadria, che, allievo dell'Ateneo in cui hanno esercitato il proprio magistero Ridolfi e Cuppari, egli stesso autore di un penetrante saggio sulla mezzadria toscana, Sonnino propone come il modello verso il quale indirizzare, per rinnovare il tessuto economico della regione, l'evoluzione dei patti agrari siciliani.
La diversità delle condizioni sociali tra le quali propone la trasposizione del contratto è tale da suggerire il dubbio che l'assunto sia frutto di velleità utopistiche: valendosi della conoscenza del patto mezzadrile acquisita con le indagini condotte in Toscana, della messe di dati sull'agricoltura siciliana acquisita nel corso della spedizione, il giovane studioso toscano si impegna a dimostrare tanto la necessità quanto la possibilità di diffondere la mezzadria nell'Isola, una dimostrazione che sviluppa attraverso un lucido contrappunto di enunciazioni teoriche, di osservazioni economiche, di ipotesi politiche: nel suo insieme un lucido saggio di economia applicata.
Fornisce la chiave dell'intera argomentazione l'identificazione delle condizioni necessarie per la sussistenza del contratto di mezzadria, le condizioni che lo distinguono da ogni patto diverso di partecipazione facendone forma organica di integrazione del capitale e del lavoro. Quelle condizioni sono, secondo Sonnino, fondamentalmente tre. La prima, la partecipazione del contadino a tutte le produzioni del podere, coltivazioni e allevamenti, così che gli sia possibile dedicare le proprie cure, con sistematicità, alle diverse specie, i cui calendari colturali si integrano consentendogli di svolgere un'attività continuativa, e di partecipare alla ripartizione delle produzioni che maturano al succedersi delle stagioni, così che la disponibilità dei mezzi necessari alla famiglia sia affidata ad una pluralità di fonti i cui proventi si succedono nel corso dell'anno. La seconda, una durata del contratto che leghi moralmente il contadino alla terra, inducendolo a dedicare l'impegno più attento a tutte le colture, specialmente a quelle arboree, che patti temporanei spingono a sfruttare senza alcuna preoccupazione per il vigore necessario ai raccolti futuri. La terza, la residenza del contadino sul podere, delle cui colture possa seguire lo sviluppo quotidianamente, dedicando alla loro cura tutto il proprio tempo, senza l'aggravio di spostamenti faticosi ed inutili.
Sono i tre elementi essenziali per la sussistenza del contratto di mezzadria, la cui composizione non si verifica, salvo le rare eccezioni del Messinese, in nessuno dei rapporti di partecipazione diffusi nelle aree arboricole dell'Isola, dove è uso universale affidare a coloni diversi le colture seminative e quelle delle differenti specie arboricole, dove la precarietà dei rapporti è regola generale, dove le abitazioni poderali costituiscono la singolarità di aree eccezionali.
È dal mancato assolvimento delle tre condizioni della società mezzadrile che deriva, ribadisce Sonnino, l'incapacità dei patti di compartecipazione della Sicilia di assicurare ai coloni condizioni di vita meno precarie di quelle dei braccianti. Per offrire ai lavoratori agricoli una sicurezza di vita e di lavoro più degna di una società civile il mezzo più sicuro sarà, quindi, la diffusione nell'Isola della mezzadria nella sua forma integrale, quella caratteristica della Toscana.
È formulando, nella terza parte del volume, che dedica all'enunciazione di Rimedi e proposte, la propria ipotesi per la riforma del tessuto agrario dell'Isola che Sidney Sonnino, militante politico non meno che studioso di economia, assolve ai propositi che hanno determinato il viaggio costruendo, sui risultati della propria indagine, una proposta organica per il riscatto economico e civile dell'Isola, il cui disegno rivela, inconfondibili, i segni dell'idealità liberale del futuro capo del governo e della matrice culturale della scuola pisana.
«Già da molti è stata proposta l'introduzione nell'interno della Sicilia del contratto di mezzadrìa -osserva criticamente nel secondo capitolo, in cui suggerisce le coordinate per L'azione dei proprietari-, colla conseguente divisione dei poderi e delle colture, come rimedio ai mali economici, morali, politici e sociali che affliggono quel paese... D'altra parte vi sono pure molti e non di poco valore, che oppongono che le condizioni telluriche e climatologiche della Sicilia contrastano all'utile introduzione di questa forma di contratto, e che la coltura piccola e la mezzana dovrebbero là considerarsi piuttosto come un pericolo da evitarsi, anziché un ideale cui tendere con tutte le forze... Abbiamo già detto quali sono le condizioni che debbono accompagnare la mezzadrìa, perché essa possa veramente dare utili risultati sociali, come forma di distribuzione della ricchezza prodotta dal suolo. Di quelle condizioni, la maggior parte dipende dalla volontà dei proprietari, come, per esempio, quella della partecipazione eguale del contadino a tutti quanti i prodotti...
Vi sono però due condizioni capitali tra quelle avvertite, le quali talvolta non dipendono che in piccola parte dalla volontà dei proprietari o di chicchessia; e sono- quella di una varietà di colture sullo stesso podere, e che le colture arborescenti vi si uniscano a quelle dei cereali o delle leguminose; e l'altra, che vien quasi come conseguenza della prima, che vi sia lavoro continuo in tutto l'anno sul podere, onde possa pure esservi la fissità del colono sullo stesso appezzamento di terra.
Orbene, la Sicilia si presta in modo tutto particolare nella maggior parte del suo territorio a soddisfare a queste condizioni. La varietà delle colture è resa facile da un clima e da un suolo in cui crescono rigogliosi, secondo i vari terreni e le diverse esposizioni, l'olivo, l'agrume (limone, arancio, mandarino), il mandorlo, il frassino mannifero, il gelso, il fico d'India, il carrubbio, il nocciuolo, il pistacchio, e quasi ogni varietà di albero da frutta... Molte però di queste colture, ci si osserverà, e specialmente di quelle legnose, non esistono attualmente nell'interno dell'Isola, e ci vogliono capitali e un lasso di anni perché si possano attivare, e perché se ne possa ritrarre un qualche frutto...
Né perciò si richiederebbero grandi capitali. Bastano a dimostrare il contrario le colonìe perpetue introdotte in passato dai conventi e dai monasteri... Lo dimostrano pure i contratti a migliorìa della costa settentrionale, di quella orientale, e del Siracusano, dove vediamo poveri villani creare vigne, oliveti, mandorleti e carrubbeti, soltanto perché il prodotto delle loro fatiche è assicurato loro per un certo numero di anni...
Ci sembra che tali fatti servano a dimostrare praticamente come sarebbe facile per i proprietari, ove veramente volessero introdurre la mezzerìa nelle loro terre, di ridurle con pochi sacrifizi a quelle condizioni di coltura che abbiamo supposto necessarie per la completa riuscita di quella forma di contratto. Basterebbe a questo intento che stipulassero coi coloni dei contratti lunghi in modo da assicurare loro il giusto frutto dei loro sforzi; che concedessero loro per i primi anni alcune condizioni più larghe di repartizione dei prodotti; e di più che li aiutassero nella costruzione delle case, e nel provvedersi di qualche strumento agricolo un po' meno primitivo di quelli attuali; e li sovvenissero con qualche soccorso senza interessi, o a un frutto. modico, e col dar loro possibilmente qualche capo di bestiame a soccida, perché possano meglio lavorare e concimare i poderi, e ritrarre qualche guadagno dall'allevamento.
Sappiamo in vero che molti proprietari non sono in condizioni di poter far subito nemmeno questo, ma d'altra parte ve ne sono pure tanti altri per cui la formazione ogni anno di uno o due nuovi poderi muniti di tutta la dote occorrente per l'attivazione di una mezzadrìa, sarebbe cosa facilissima, e che non implicherebbe altro sagrifizio che quello di voler prendere una decisione; ovvero per alcuni la rinunzia a un cavallo di lusso, o a un palco al teatro, o a qualche giorno di più di visita alle bagnature dell'estero: e, diciamo il vero, il pensiero di tali sagrifizi non ci commuove, e tanto meno se pensiamo che essi non rappresentano altro che la rinunzia a un godimento immediato in vista di un vantaggio avvenire; che equivalgono insomma a mettere denari a frutto.»
Alla formulazione della proposta Sonnino ha premesso la dichiarazione della consapevolezza che più di un'ipotesi analoga è già stata avanzata nel dibattito politico degli anni recenti, ma che nessuna ha saputo imporsi contro le critiche che ha suscitato. Dimostrata l'idoneità delle condizioni climatiche dell'Isola alla diffusione del contratto, e l'insussistenza di ostacoli economici insuperabili, a conclusione della propria argomentazione esamina e confuta, con lucido puntiglio, le ragioni addotte da chi ha sostenuto l'impossibilità di introdurre il contratto nell'Isola, che prevede verranno reiterate contro la propria proposta.
Piccola e grande coltura, dilemma capzioso
La prima di quelle ragioni è un assunto di economia agraria, l'asserzione che l'economia moderna imporrebbe la diffusione della grande coltura, la forma di coltivazione fondata sull'uso delle macchine praticata nelle pianure dell'Inghilterra, della Francia e della Germania: inscindibilmente connessa ad unità poderali di dimensioni limitate, la mezzadria costituirebbe impedimento all'espressione di una tendenza sospinta da imperativi incoercibili. Rigettando la legittimità di dogmi che pretendano di imporre le soluzioni funzionali in ambienti specifici a situazioni dai connotati diversi, e ricalcando le argomentazioni con cui hanno sostenuto la maggiore produttività della piccola coltura, nelle regioni caratteristiche delle coltivazioni arboree, gli economisti francesi, tra i quali possiamo iscrivere De Gasparin, Sonnino ribadisce che le caratteristiche climatiche dell'Isola ne fanno l'ambiente ideale per le colture intensive, quindi per la piccola coltura, che assicurerebbe possibilità di lavoro adeguate alla numerosa popolazione della Sicilia, moltiplicandone, insieme, le produzioni più pregiate.
«Quanto alla questione della coltura grande e di quella piccola, non ci è dato di qui discuterla in tutti i suoi aspetti, chè non basterebbe un volume apposito; ma osserveremo a tal riguardo che tutte le ragioni che sono state addotte in teoria, e che si sono dimostrate valide in pratica, per consigliare la piccola coltura nella maggior parte della Francia, e specialmente nelle provincie sue meridionali, valgono a fortiori per la Sicilia, dove è maggiore la varietà delle colture, e maggiore il profitto di quelle colture legnose, che, come l'olivo, la vite, ec., richiedono maggior cura, e in genere di tutte quelle coltivazioni in cui la qualità del lavoro ha un'importanza non minore della sua quantità... E la mezzadrìa nel suo tipo toscano raggiunge in gran parte i vantaggi del sistema francese del contadino proprietario, poiché eleva egualmente il morale del contadino, esercitandone l'intelligenza nella direzione della coltura del podere; lo affeziona al suolo; gli fornisce lavoro in tutti i mesi dell'anno; assicura al1e colture più delicate, lo zelo e le cure assidue di chi ha interesse diretto nella prosperità del fondo...»
Intrinsecamente connessa alla prima obiezione è quella di chi oppone alla creazione di poderi mezzadrili la presunzione che le loro dimensioni costituirebbero un ostacolo all'impiego delle macchine, la cui diffusione viene riconosciuta esigenza imprescindibile per il progresso agricolo. Sonnino la confuta ricordando i risultati dell'indagine di Edward Leslie sulla diffusione delle nuove attrezzature nell'agricoltura dell'Inghilterra, della Francia e del Belgio, dove la maccanizzazione è risultata più intensa nei distretti dove predomina la piccola proprietà che in quelli dove domina la grande azienda.
Dissolti i dubbi di natura più spiccatamente teorica, lo studioso toscano affronta le obiezioni che alle proposte di introduzione della mezzadria hanno opposto gli esperti di cose agricole dell'Isola. Per confutarne gli argomenti trascrive le osservazioni, che ritiene risolutive, di un altro viaggiatore toscano, Ermolao Rubieri, segretario dell'Accademia dei Georgofili durante la presidenza di Ridolfi, che ha attraversato l'Isola dieci anni prima del viaggio dei tre amici pisani. La precisione del riferimento accresce la nostra curiosità per l'assenza di ogni menzione, nel volume, degli scritti e dei discorsi con cui ha propugnato, dalla cattedra di Ridolfi di Cuppari, la diffusione della mezzadria in Sicilia l'agronomo siciliano che al momento del viaggio dei tre amici esercita a Pisa il proprio magistero, Girolamo. Caruso. «Ci resta ancora da esaminare -scrive nello stesso capitolo- talune delle principali difficoltà pratiche che secondo il parere di alcuni si oppongono invincibilmente all'introduzione della mezzadrìa nella maggior parte della Sicilia. Esse sono: lo stato della pubblica sicurezza, la mancanza di acqua potabile, la malaria e, per alcune provincie, la vicinanza delle zolfatare, dove i gas che emanano dai calcaroni nella fusione dello zolfo, nuocciono entro una certa cerchia ad ogni coltura, e specialmente a quella di piante arborescenti.
Diremo innanzi tutto di quest'ultima circostanza. In primo luogo si potrebbe studiare il modo di evitare l'attuale sprigionamento dei gas durante la fusione degli zolfi, o almeno di diminuirlo di molto, con non piccolo risparmio del minerale. Inoltre la cerchia di terreno resa attualmente in parte improduttiva per siffatta ragione non è di una grande estensione...
In risposta alle altre obiezioni... riprodurremo qui per comodo del lettore l'argomentazione del Rubieri, giacché non sapremmo esprimere meglio gli stessi. concetti con parole diverse. Si dice prima di tutto che la mezzerìa non può stabilirsi in Sicilia per la mancanza di pubblica sicurezza. Ma lasciando da banda che tal mancanza deriva appunto, almeno in parte, da quella campestre solitudine che non esisterebbe se esistesse la mezzerìa, io voglio concedere che sarebbe imprudente il cominciare dallo stabilirla in luoghi affatto remoti dall'abitato: potrebbesi bensì senza rischio cominciare dallo stabilirla a contatto di quella zona adiacente alle città dove il sistema delle case sparse e de' piccoli poderi già vige, e passare ad estenderla di mano in mano, serbando sempre una congiunzione non interrotta tra i poderi già istituiti e quelli da istituirsi...
Si dice che anche la mancanza di acqua potabile fornirebbe un impedimento. Ma anche su questo punto ritengo che l'acqua vi sia, che la mancanza si riscontri piuttosto né lavori atti ad assicurarne l'uso, e che la mezzerìa facendo sentire il bisogno di tali lavori ne farebbe cessare la mancanza...
Ma si dice finalmente (seguita il Rubieri) che la malsanìa è quella che le fa paura (alla mezzerìa). È infatti assiomatico esser la scarsità della popolazione che produce il difetto di coltura, e questo che produce la insalubrità del clima. In pochissimi casi la malsanìa può esser tanto predominante e incorreggibile da impedir tali effetti. Uno di tali casi è certamente quello delle toscane maremme. Eppure anche in queste la malsanìa è andata restringendosi in ragione diretta dello estendersi della coltura e della popolazione, e si è arrivati al punto che... ha già potuto in buona parte stabilirvisi anche la mezzerìa...»
Che auspicare la diffusione nell'Isola di rapporti mezzadrili non sia espressione di mera utopia, e che l'insediamento del contratto assicurerebbe ai lavoratori della terra condizioni di vita incomparabili con quelle che impone di constatare la vista dei borghi siciliani provano, peraltro, in modo inequivocabile, i rapporti colonici delle aree, quantunque rare, nelle quali i patti agrari si avvicinano alla forma canonica del contratto toscano, quei rapporti di partecipazione meno aleatori che i tre amici hanno registrato nel Messinese, tra i quali può definirsi autentica mezzadria quello praticato nelle campagne delle Petralie, dove ai coloni è affidato l'intero novero delle colture del podere, e dove esistono casi in cui la persistenza della stessa famiglia sul medesimo podere che si protrae da più di una generazione. Oltre ai vantaggi economici, dimostra il valore di strumento di civiltà della mezzadria la dignità delle condizioni di vita, che Sonnino ed i due amici hanno verificato in tutti i casi in cui l'abitazione del contadino sia ubicata sul fondo, anche dove non sussista alcun patto di compartecipazione, come nel caso dei vigneri di Marsala, che vivono in condizioni incomparabili a quelle dei borgesi e dei giornatari ammassati come bestie, insieme alle proprie bestie, nei borghi rurali.
Rilevata la coerenza delle repliche dell'economista toscano alle opinioni avverse alla proposta che formula, chi rifletta sul contesto dell'argomentazione non può mancare di osservare come sia assente, tra le ragioni poste a confronto, l'unica obiezione agronomica che le può essere rivolta: la constatazione dell'inospitalità dell'interno della Sicilia per le più ricche tra le colture arboree diffuse sulle coste, e dei limiti insuperabili opposti dall'aridità estiva all'allevamento intensivo che costituisce condizione essenziale dell'economia mezzadrile. L'errore costituisce, probabilmente, conseguenza dell'epoca durante la quale i tre compagni hanno attraversato l'Isola, la primavera, quando il rigoglio dei pochi mandorli e carrubi disseminati attorno alle masserie, ed il lussureggiare dei pascoli, suggeriscono l'impressione di una terra capace di trasformarsi, alla sola condizione dell'impiego dell'intelligenza dell'uomo, in un unico giardino.
L'eversione della manomorta, un errore economico e civile
Se la mezzadria costituisce il sistema agrario capace di assicurare lo sfruttamento più razionale, a vantaggio della società isolana e dell'economia nazionale, della generosità di una terra fecondata da un clima propizio, e se le remo re economiche ed agronomiche alla sua diffusione non possono ritenersi insormontabili, la realizzazione della riforma presuppone, tuttavia, la sussistenza di adeguate condizioni politiche: scrutatore attento di equilibri parlamentari, il futuro primo ministro del Regno d'Italia dedica al loro esame pagine di singolare penetrazione. Nelle quali si interroga sulla capacità del Governo nazionale di operare scelte lungimiranti e interventi coerenti per rinnovare il quadro economico e civile dell'Isola. Degli elementi attraverso i quali ricerca una risposta al quesito, che raccoglie nel primo capitolo della terza parte, in cui esamina L'azione dello Stato, quelli di segno negativo sono alquanto più numerosi, peraltro, di quelli di segno positivo. La loro analisi è una lucida denuncia dell'inadeguatezza, di fronte ai problemi del Paese, della politica dei primi governi unitari.
La prima posta passiva del bilancio degli interventi statali è la forma nella quale è stata eseguita la vendita delle proprietà ecclesiastiche la cui espropriazione è stata una delle prime decisioni dello Stato liberale. L'operazione, ricorda Sonnino è stata realizzata dall'Erario assetato di liquidità con procedure improvvisate e in assenza di controlli rigorosi, assicurando al tesoro pubblico entrate irrisorie rispetto al valore dei beni venduti, di cui hanno favorito l'aggiudicazione ai grandi proprietari, che si sono associati in vere camorre per manipolare le aste a proprio beneficio. Pagando cifre insignificanti si sono assicurati la proprietà di estensioni immense, che hanno aggiunto a quelle già sconfinate di cui non si curavano che per la riscossione del canone annuale dal gabellotto.
«I soli ricchi potevano amicarsi - Sonnino rievoca, al primo capitolo della terza parte del volume, le forme in cui si sono svolte le aste-, e alcune volte organizzare le camorre, che dominavano assolute nelle aste. Il modo stesso in cui erano fatti gl'incanti rendeva impossibile ogni lotta contro quelle coalizioni, che avevano per mira di accaparrarsi i beni a modico prezzo, o di lucrare sull'asta, facendosi pagare forti somme dai compratori. Se qualcuno non si sottoponeva alle esigenze della camorra, questa spingeva in su e senza limiti il prezzo dell'asta, e sapeva di non correre con ciò nessun pericolo. E difatti mandava a offrire agl'incanti qualche nullatenente, il quale rimasto padrone del podere lo sfruttava quanto più possibile, tagliando e abbattendo le piante che vi potevano essere, per pagare le prime spese dell'incanto: il Demanio poi doveva spesso aspettare due anni d'ineseguito pagamento per potersi riprendere il terreno...
È triste il pensare di quale enorme ricchezza è stato defraudato lo Stato, senza che per questo si giovasse né all'agricoltura né alle classi bisognose, ma contribuendo soltanto a diminuire nelle menti di quelle popolazioni ogni rispetto per la legge, ogni concetto di equità e di onestà! E più triste ancora è il considerare gli effetti di quella censuazione, fatta a rompicollo, quando si abbia in mente tutti i benefici che si potevano ritrarre da quelle proprietà per la salute economica e morale di quel1e provincie...
Ma non potevasi forse colla vendita di una parte delle terre, trovare i capitali per dotare le altre, e per costituire un fondo di prestito ai contadini proprietari - un fondo simile a quello che istituì l'Inghilterra colla legge del 1870 per gli affittuari Irlandesi?»
Nelle forme in cui si è svolta, la liquidazione della manomorta ecclesiastica si è risolta in un errore altrettanto tragico sul piano finanziario, su quello agrario e su quello civile: cedendo quelle terre a prezzi più consoni, ma con pagamenti differiti, lo Stato avrebbe conseguito il duplice obiettivo di acquisire, seppure in un arco di tempo più ampio, somme senza paragone maggiori, e di insediare in Sicilia una folta schiera di piccoli proprietari, il ceto che costituisce il nerbo, sottolinea Sonnino, di qualsiasi società democratica. Senza ricavarne nemmeno il controvalore reale ha destinato quelle terre, invece, a estendere ulteriormente il dominio di una classe le forme di conduzione dei cui possedimenti dimostrano, senza necessità di appello, la rapacità e l'ignavia. Imponendo, insieme, ai ceti popolari di verificare che il cambiamento di governo nessun limite ha imposto alla prepotenza secolare degli antichi padroni.
Un errore ulteriore della politica statale nella sfera agraria è stata, dichiara Sonnino, l'emanazione delle norme che, in nome di un'avversione puramente dottrinaria per gli ordinamenti feudali, hanno attribuito ai concedenti di terre in enfiteusi l'incondizionata facoltà di ottenerne il riscatto, una misura dagli immancabili effetti dissuasivi sulla stipulazione di nuovi rapporti enfiteutici, un istituto che se in una società moderna non rappresenta che un relitto giuridico, in un quadro economico tanto lontano da quello di una società moderna quale quello siculo, costituiva l'unico strumento capace di indurre i proprietari di grandi estensioni incolte a concederne frazioni à contadini disposti ad impiegarvi il proprio lavoro bonificandoli e realizzandovi piantagioni arboree nella certezza di poterne goderne i frutti per il lungo corso del contratto.
Giustizia fiscale e sviluppo agricolo
Oltre agli errori perpetrati da una politica finanziaria soggiogata ad esigenze immediate di cassa, e da una legislazione sulla proprietà ignara della realtà della regione, un ostacolo ulteriore al progresso del mondo rurale siciliano deriverebbe immancabilmente, proclama Sonnino, dalla perequazione dell'imposta fondiaria, un provvedimento il cui progetto è al centro del più vivace confronto parlamentare. Il Regno d'Italia ha ereditato dai principati di cui ha riunito i territori una molteplicità di catasti, costruiti secondo i criteri più eterogenei: mentre, infatti, quello austriaco, vigente in Lombardia e in Veneto, deve essere annoverato tra i più funzionali d'Europa, nelle regioni del Mezzogiorno gli antichi diplomi feudali costituiscono l'unica prova dei titoli di proprietà e l'unico fondamento dell'imposizione fiscale.
Diversità di catasti significa diversità del trattamento fiscale di cespiti di eguale consistenza ubicati in regioni diverse: costituisce esigenza irrinunciabile di uno stato che si proponga di imporre la medesime legge a tutti i cittadini la formazione di un catasto unitario, che imponga oneri fiscali omogenei alle proprietà di tutte le regioni del Paese. Fautore appassionato dell'idea liberale dello stato di diritto, che postula la rigorosa eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, Sonnino è fervente avversario delle proposte di "perequazione" dell'imposta fondiaria, che ad un'equità fiscale meramente ipotetica assocerebbe, ritiene, danni economici sicuri.
Del giudizio che ha formulato lo studioso toscano propone le ragioni con argomentazioni economiche di estremo rigore: per rinnovare il proprio tessuto, sottolinea, l'agricoltura italiana presenta l'urgenza di una mole imponente di miglioramenti fondiari, la cui attuazione impone un ingente flusso di investimenti: a ragione, tuttavia, della maggiore sicurezza degli investimenti mobiliari, in primo luogo dei titoli del debito pubblico, nessun proprietario sarebbe indotto ad investire il denaro nella terra se non fosse certo di poter ritrarre dalla terra un reddito maggiore, una condizione che decadrebbe nel momento in cui il catasto registrasse le condizioni effettive dei fondi, sottoponendo a tassazione il frutto delle migliorie realizzate. Per l'economia nazionale deve reputarsi più vantaggioso, cioè, tollerare le sperequazioni dell'imposta immobiliare che paralizzare, in nome di un'astratta equità fiscale, ogni impulso di rinnovamento agricolo. È un'argomentazione di indiscutibile realismo, seppure in palese contrasto con i principi essenziali del diritto, che nel quadro dell'Italia unificata impongono, per armonizzare il caleidoscopio della proprietà fondiaria, la realizzazione di un catasto moderno, inventario organico del patrimonio immobiliare nazionale. Consente di spiegare la radicale categoricità del giudizio di Sonnino la violenza del dibattito acceso, nelle aule parlamentari, dal progetto di riforma, fiscale presentato da Minghetti due anni prima del viaggio in Sicilia, un progetto privo di. qualsiasi misura diretta a prevenire eventuali effetti dissuasivi dei miglioramenti fondiari. Caduto il progetto Minghetti, le esigenze di valutazione obiettiva dei valori immobiliari e di tassazione delle rendite secondo criteri tali da non scoraggiare gli investimenti saranno contemperate nel progetto di legislazione catastale che presenterà al Parlamento, nel 1882, il ministro Magliani, il cui testo verrà perfezionato, dopo la lucida relazione economica e giuridica curata, nel 1883, da Template:AutoreCitato, che, nella continuità della tradizione catastale del Regno lombardo-veneto, dirigerà la realizzazione del catasto unitario al perseguimento congiunto di obiettivi di equità fiscale e di stimolo degli investimenti.
Dell'ispirazione della futura legge istitutiva del catasto enuclea i postulati essenziali lo stesso Sonnino nella definizione che propone, nel corso della complessa disamina, della rendita fondiaria, una definizione di cui non è difficile identificare la matrice nel pensiero di Ricardo, al quale ispirerà il proprio lavoro anche Messedaglia.
«L'imposta prediale è per sua natura un'imposta sul capitale; ma ha questo di speciale a differenza di molte altre imposte sul capitale: mentre quelle sono una vera e propria confisca a beneficio dello Stato, di una ricchezza prodotta dal possessore del capitale o da coloro da cui l'ebbe in dono o in via di successione, l'imposta fondiaria invece colpisce una ricchezza che non è frutto del lavoro particolare di nessuno, ma è un effetto della progressiva variazione nella proporzione tra il capitale e la popolazione da un lato, e dall'altro la quantità limitata di quella parte di terra che sia posta in certe condizioni più favorevoli, o contenga in sé delle speciali qualità di fertilità naturale. Questa ricchezza speciale della terra va generalmente aumentando in ogni paese che progredisce; e non vi è quindi in teoria nulla che sia contrario all'equità o all'istituzione della proprietà privata territoriale, nell'aumento progressivo dell'imposta che la colpisce. Le difficoltà qui vertono piuttosto sul modo pratico di ottenere questo aumento dell'imposta sulla rendita fondiaria, senza che essa degeneri in tassa sull'industria agricola...»
Una minaccia ulteriore alle pure esigue possibilità di rinnovamento del tessuto fondiario attraverso la suddivisione dei latifondi cerealicoli in poderi ad ordinamento intensivo Sonnino intravede nella proposta di tassazione degli edifici rurali inserita nel progetto di riforma fiscale di Minghetti. Se la rinuncia ad un cavallo o ad un soggiorno in una stazione termale straniera sarebbe sufficiente perché i grandi proprietari siciliani costruissero ogni anno qualche casa poderale creando altrettanti fondi mezzadrili, l'approvazione della proposta dissolverebbe le eventualità più remote che il costume ad investire nelle proprie terre potesse insediarsi nell'Isola.
«Argomento di controversia è stato pure l'ultimo capoverso dell'art. 5 del progetto Minghetti -scrive, nello stesso capitolo, al paragrafo 91-, con cui si determina che le costruzioni rurali saranno soggette all'imposta sui fabbricati, ed esenti da quella sui terreni. Il Basile si mostra favorevole a questa disposizione... Le ragioni pro e contro hanno un certo valore; ma è indubitato che nella attuale scarsezza di convenienti fabbricati rurali, tanto per abitazione dei contadini come per gli usi agricoli, il disposto dell'art. 5 presenterebbe il pericolo d'impedire le nuove costruzioni. E la questione delle case coloniche, e specialmente nelle provincie meridionali che tanto ne difettano, è questione sì grave e che interessa talmente, oltreché l'agricoltura, la sicurezza pubblica nelle campagne, la moralità e il benessere delle popolazioni, che ogni ostacolo frapposto ad un miglioramento delle condizioni presenti non può essere considerato che come cosa improvvida e pericolosa...»
La proposta di tassazione delle case rurali non sarà reinserita, peraltro, dal ministro Magliani nel proprio progetto, di cui proprio Minghetti sarà relatore in parlamento.
Un'isola nella storia del Continente
Una realtà umana fatta di miseria e di prevaricazione, un quadro agrario di pratiche rudimentali, di contratti primordiali, eppure un clima propizio quanto pochi, nel Continente, per produzioni di elevato pregio commerciale, tanto numerose da potersi comporre in una gamma di ordinamenti ai cui cicli sarebbe connaturale una forma di conduzione che legasse stabilmente il contadino alla terra, stimolandone la dedizione al lavoro, assicurandogli, attraverso la partecipazione al frutto della propria fatica, condizioni di vita degne di un uomo, moltiplicando, insieme, la ricchezza dell'Isola e quella del Paese: è la drammatica contraddizione che prende forma dall'analisi dell'agricoltura e della società rurale della Sicilia di Sidney Sonnino, una contraddizione al cui superamento si oppone, lo studioso toscano ne è lucidamente consapevole, l'arrogante ignavia della nobiltà terriera, la rapacità degli intermediari, la potenza della delinquenza mafiosa, le forze dell'arretratezza alla cui virulenza ha prestato il proprio contributo il Governo nazionale con le proprie scelte improvvide, alle quali altre sono destinate ad aggiungersi, specchio di una classe politica ignara della realtà dell'Isola quando non interessata alla conservazione dei privilegi e della prevaricazione che vi dispiegano il proprio imperio.
A conclusione dell'articolata indagine geografica, storica ed economica che ha sviluppato nel volume, nell'ultimo capitolo della terza parte, la Conclusione con la quale chiude il proprio lavoro, il futuro capo del Governo italiano propone una spiegazione dello iato storico che separa la società siciliana dalle società europee, una diagnosi che, a oltre un secolo dalla propria stesura, a tre lustri dall'impressionante serie di assassinii che eliminò quanti, autorità governative, regionali e magistrati, si opponevano alla mafia, impone, immutata, la propria verità impietosa:
«Si deplora in generale che la rivoluzione francese non abbia fatto sentire il suo soffio vivificatore in Sicilia -scrive al paragrafo 127-, e il pensiero è giusto, ma quel che è quasi più ancora da deplorarsi è che la Sicilia abbia iniziato le sue riforme liberali sotto l'influenza inglese in un momento in cui in tutta Europa risorgeva più potente lo spirito di reazione, e il medioevo sembrava dover rivivere. L'atmosfera era già viziata, quando i petti siciliani si allargarono ai primi respiri di libertà, e le maggiori riforme civili furono introdotte nell'Isola per opera di un Borbone, in tempo di completa reazione. Che-meraviglia dunque se le oppressioni di classe su classe si mantennero! se nel 1860 vi trovammo con leggi moderne, costumi e tradizioni medioevali!»
«E quel che trovammo nel 1860 – Sonnino prosegue la propria argomentazione nel paragrafo successivo-, dura tuttora. La Sicilia lasciata a sé troverebbe il rimedio: stanno a dimostrarlo molti fatti particolari, e ce ne assicurano l'intelligenza e l'energia della sua popolazione, e l'immensa ricchezza delle sue risorse. Una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente, sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi, Italiani delle altre provincie, impediamo che tutto ciò avvenga. Abbiamo legalizzato l'oppressione esistente; ed assicuriamo l'impunità all'oppressore. Nelle società moderne ogni tirannia della legalità è contenuta dal timore di una reazione all'infuori delle vie legali. Orbene, in Sicilia colle nostre istituzioni, modellate spesso sopra un formalismo liberale anziché informate a un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l'oppressione di fatto che già prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri mediante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è in mano sua; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla, che, a qualunque eccesso spinga la sua oppressione, noi non permetteremo alcuna specie di reazione illegale, mentre di reazione legale non ve ne può essere, poiché la legalità l'ha in mano la classe che domina.»
È un giudizio storico alla cui cruda lucidità non è possibile opporre riserve o obiezioni. Isola nella geografia del Continente, la Sicilia non è meno un'isola nella storia d'Europa, nel cui corso ha indugiato immota durante il secolo di progresso scientifico e di rinnovamento istituzionale dal quale ha preso forma la società moderna, il Settecento. A metà dell'Ottocento rispetto alle società che sono state investite dal moto propagato dalla Rivoluzione francese registra un ritardo di ampiezza secolare. Realizzata senza alcuna partecipazione di forze locali, l'introduzione delle istituzioni dello stato moderno non ha prodotto alcun mutamento degli assetti sociali, ha eretto simulacri di un diritto inapplicabile, la cui presenza inane moltiplica le contraddizioni della società isolana, offrendo strumenti di nuova efficacia alla perpetuazione del costume di prevaricazione cresciuto nella degenerazione del sistema feudale.
Sono le constatazioni che si impongono a chi abbia penetrato, fino al crepuscolo del Ventesimo secolo, le regole che governano, in Sicilia, in modo particolare nelle sue campagne, i rapporti economici e sociali. Dopo le istituzioni dello stato di diritto, dei paesi moderni l'Isola ha acquistato molti degli elementi più appariscenti, primo fra tutti una funzionale rete viaria: gli itinerari che i tre studenti pisani percorsero, nella primavera del 1876, spendendo giornate interminabili su carreggiate fangose, possono essere compiuti, oggi, in poche ore, su autostrade che vantano alcuni dei ponti più arditi della rete stradale del Continente. Quelle autostrade attraversano campagne, collegano borghi in cui dietro le vestigia esteriori della civiltà moderna la violenza detta ancora la propria legge insindacabile, in cui le istituzioni dello Stato sono larve incapaci di imporre l'ordine del diritto alla trama dei rapporti che si realizzano secondo una legge che non è quella dello Stato. La frattura secolare che separava, nel 1876, la società dell'Isola da quella dell'Europa moderna permane, profonda, forse incolmabile.
È solo l'esistenza di quella divaricazione a consentire, a chi osservi lo scenario agricolo siciliano, di spiegare come, nonostante l'apparente floridezza, lo spazio che separa l'agricoltura dell'Isola dai mercati europei, ai quali dirige, tra difficoltà che nessun intervento pare capace di superare, la gamma delle produzioni favorite da un clima, come ha percepito Sidney Sonnino, singolarmente propizio.
Imponenti investimenti pubblici hanno assicurato all'agricoltura siciliana tutti gli strumenti dell'agricoltura moderna, dalle macchine agli apparati di irrigazione, dai laboratori scientifici ai grandi impianti di conservazione e di trasformazione dei prodotti: la permanenza di una rete di rapporti arcaici tra quanti partecipano ai cicli produttivi ha impedito che alla modernità dei mezzi tecnici si unisse quella dei sistemi organizzativi, necessaria per imporre i frutti della terra siciliana ai consumatori nazionali e stranieri. Non è compito dello storico stabilire se l'accoglimento della proposta di Sidney Sonnino, la diffusione nell'Isola della mezzadria, avrebbe innescato un processo di rinnovamento dei rapporti contrattuali capace di colmare il ritardo secolare. L'osservatore del quadro agrario italiano rileva che le aree nelle quali era fiorita la mezzadria hanno vantato, nel crepuscolo del Ventesimo secolo, il tessuto organizzativo più dinamico tra quelli proposti dal quadro nazionale: superata dalla trasformazione degli equilibri economici, la mezzadria aveva lasciato, prezioso retaggio ereditario, un tessuto di proprietà contadina la cui vitalità ha animato, nella seconda metà del Novecento, la vitalità di regioni agricole che si imponevano come modelli di efficienza produttiva ed economica. Se l'analisi storica non può determinare quali possibilità sussistessero, nell'ultimo quarto dell'Ottocento, di trasferire tra dossi e valli della Sicilia la mezzadria toscana, la storia dell'agricoltura italiana nel Novecento impone di identificare nella mezzadria la matrice, dove fosse radicata, di una lunga stagione di prosperità agraria. Una stagione forse conclusa: nella cornice radicalmente nuova dei mercati planetari dell'alba del Terzo millennio le radici della prosperità antica, fossero le più solide, non possano assicurare il dinamismo presente senza l'impulso di una strategia politica fondata sull'analisi più penetrante del contesto internazione, condotta con determinazione e lungimiranza. Dagli ultimi lustri del Novecento ogni impegno per un'autentica strategia agraria è stato reputato, in Italia, impegno superfluo da governanti convinti che la preoccupazione per l'approvvigionamento alimentare costituisse la tediosa incombenza dei ministri ducali di secoli remoti, impegno superfluo per gli arbitri di una moderna società industriale.
Nell'estinguersi, per l'assenza di ogni strategia agraria, della floridezza delle aree di antica vitalità produttiva e mercantile, la Sicilia ha realizzato l'inserimento nel contesto nazionale al quale pareva fosse incapace di unirsi: all'alba del Terzo millennio gli agrumi siciliani dimostrano la medesima incapacità di conquistare i mercati esteri del Parmigiano reggiano, emblema della più dinamica tradizione agricola padana. Nel corso di un cinquantennio di straordinario progresso l'intraprendenza locale ha sopperito, nelle aree privilegiate, all'assenza di una strategia agraria nazionale, fino a quando, di fronte ai mercati planetari, che è impossibile affrontare senza un disegno altrettantom plaentario, le regioni di antica prosperità hanno conosciuto condizioni identiche a quelle di antica inefficienza e di pluridecennale dissipazione: l'assenza di capacità di governo ha conseguito l'obiettivo invano auspicato per oltre un secolo, l'unificazione, nel progressivo decadimento, di quelle che una locuzione efficace definì "le cento agricolture d'Italia".