I sistemi di classificazione delle opere video

Il problema della classificazione delle opere video nasce quando si vuole ordinare la videoteca e soprattutto quando si vuole ritrovare un video in mezzo a tutti quelli che abbiamo. È un po' come per i libri, se non sono catalogati correttamente, se non abbiamo fatto una scheda di quel libro con gli autori che vi hanno scritto, con gli argomenti che trattano, insomma con il suo contenuto, in tutta la nostra biblioteca non sapremo come ritrovarlo. Così per i video, si tratta cioè di ordinarli con alcuni criteri logici che ne identifichino in modo sistematico il contenuto per poterli collocare sullo scaffale giusto e consentire anche ad altri di poterli poi agevolmente ritrovare.
Il primo tentativo di classificazione delle opere video lo dobbiamo a Renato Barilli, il quale dopo la prima mostra italiana di video d'autore Gennaio '70 che si tenne alla Galleria Civica di Bologna, già a partire dai titoli delle sezioni della mostra, cercò di riflettere sulle categorie dentro le quali i lavori della mostra si potessero collocare:
Barilli "propone una rubricazione delle esperienze video degli artisti di Gennaio 70 secondo alcune categorie che corrispondono all'esigenza di fondare una terminologia e un metodo di lettura specifico:
1 iterazione, per la monotonia esasperata e la ricerca di pura durata in Boetti, che aumenta serialmente un conteggio dei numeri primi ritmandola al suono di una percussione, e in Merz che accosta la serie di Fibonacci al suono stridulo di un violino; 2 fissazione dell'immagine, per la specularità di Calzolari (le scritte), di Ceroli (tra una sagoma di legno e una persona vera), e di Marisa Merz (tra se stessa e una calotta di cera);
3 taglio casuale, per la scrittura di lettere con la telecamera sul cielo e sulla terra in Penone, e per la casualità fluida del divenire degli oggetti in Zorio;
4 metateatro, per il gioco tra specchio, telecamera e video, tra il vero e il suo doppio in Pistoletto e per le scansioni ritmiche tra percezione e non-immagine nel televisore acceso- spento-acceso di Prini;
5 montaggio, per la meditazione sul nulla di Fabro, e per l'affabulazione magico-tecnologica di Patella sulle tracce di un'invasione spaziale;
6 concettualità, per i segnali di Mattiacci sull'idea di equilibrio, per i gesti-metafora di De Dominicis, per la misurazione visiva del tempo che la luce impiega per arrivare dal sole alla terra di Anselmo;
7 elettronica, per la messa in libertà e insieme il controllo del flusso elettronico in Colombo;
8 spettacolo-happening, per la pura registrazione delle azioni di Kounellis (i fiori di fuoco sul pavimento) e degli invasivi grovigli inchiodati da Cintoli."[1]
È evidente che simili categorie erano più vicine al tentativo di interpretazione critica di un nuovo nascente linguaggio che ad una razionalizzazione classificatoria, erano più ritagliate sulla mostra e sui materiali in essa esposti, e che ovviamente non potevano essere estensibili alla videoarte in generale.

Un secondo apporto importante, quello di Giaccari ebbe più fortuna. Luciano Giaccari alla fine degli anni '60 apre a Varese, per passione, lo studio 970/02 dedito soprattutto alla documentazione di eventi d'arte. Teatro, danza, mostre, performance, video d'autore ecc. Disponendo di un ampio spettro tipologico di produzioni, nel 1972 sente la necessità di ordinare la classificazione a partire da un concetto di base semplice e che cerca di sciogliere l'aspetto cruciale della paternità dell'opera: ci sono opere prodotte interamente dall'artista, e opere prodotte con la collaborazione di un autore secondario, il tecnico che conosce la nuova tecnologia e media, interpreta e realizza il progetto dell'artista. «La classificazione dei metodi di impiego - come scriveva Giaccari - si basava su due ipotesi fondamentali: nella prima l'artista ha un rapporto diretto con lo strumento, che usa per scopi creativi; nella seconda l'artista ha un rapporto mediato con lo strumento, che viene usato da altri sulla sua opera creativa e con finalità prevalentemente documentarie o didattiche».[2]

Secondo questo approccio il rapporto diretto produce:

1 Videotape: Il nastro magnetico come supporto materiale che sostanzia l'opera, come la tela, la pietra o la pellicola, e che usa il linguaggio specifico e indipendente usato dall'autore.

2 videoperformance: è la performance dell'artista davanti alla telecamera e registrata dal circuito chiuso.

3 videoenvironment: è la registrazione di una situazione ambientale creata dall'artista, con o senza la sua comparsa nella registrazione.

Il rapporto mediato produce:

1 videodocumentazione in tempo reale: è la ripresa integrale di una performance o di un'azione dell'artista documentata da altri.

2 videoreportage: è videoinformazione, con la riprese che non è integrale, viene tagliata e montata con un approccio giornalistico per informare di un evento, e può contenere prove, interviste ecc.

3 videocritica: è videoinformazione con un commento e un taglio critici sull'opera dell'artista.

4 videodidattica: è videoinformazione con un taglio didattico, che può essere organizzato in cicli di lezioni di storia dell'arte.

Nel 1974 gli aspetti principali di questa classificazione vengono accettati e usati anche negli Stati Uniti: il video diretto diventa l'Hot Video (video caldo) e il video mediato diventa Cold Video (video freddo).

Sempre nel 1972 dal Centro videoarte di Ferrara, ad opera di Lola Bonora si mette a punto un sistema di catalogazione che scavalcando il problema dell'autorialità mira alla destinazione d'uso e semplifica in questo modo la classificazione delle opere video: Videoarte, Videoregistrazione, Videodibattiti, Videosociale, Videodidattica.

Note modifica

  1. riflessioni in un suo articolo su Marcatre. vedi Silvia Bordini in bibliografia.
  2. in Silvia Bordini, vedi bibliografia.


Bibliografia modifica

Collegamenti esterni modifica

il sito di Giaccari
video diretto
video mediato

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