Giordano Bruno (superiori)

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Giordano Bruno (superiori)
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Giordano Bruno nacque a Nola nel 1548, e fu battezzato con il nome di Filippo. Imparò a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e fece gli studi di grammatica nella scuola di un tale Bartolo di Aloia. Proseguì gli studi superiori, dal 1562 al 1565, nell'Università di Napoli, che era allora nel cortile del convento di San Domenico, per apprendere lettere, logica e dialettica da «uno che si chiamava il Sarnese»[1] e lezioni private di logica da un agostiniano, fra Teofilo da Vairano.

A «14 anni o 15 incirca»,[1] rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola domenicana, e assume il nome di Giordano, in onore del Beato Giordano di Sassonia, successore di San Domenico, o forse del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica. Valutando retrospettivamente, la scelta di indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici - che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'Ordine potente certamente gli garantiva.

Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestò inequivocabilmente: Bruno, discutendo di arianesimo con un frate domenicano, Agostino da Montalcino, ospite nel convento napoletano, sostenne che le opinioni di Ario erano meno perniciose di quel che si riteneva, dichiarando che « [...] Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce et ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto et processato, tra le altre cose, forsi di questo ancora [...]».[2] Così riferì nel 1592 all'inquisitore veneziano dei suoi dubbi sulla Trinità, ammettendo di aver «dubitato circa il nome di persona del figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre»[3] ma considerando, neoplatonicamente, il Figlio l'intelletto e lo Spirito, pitagoricamente, l'amore del Padre o l'anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine.

Denunciato da fra Agostino al padre provinciale Domenico Vita, questi «fece processo contro di me sopra alcuni articuli, ch'io non so realmente sopra quali articuli, né di che in particular; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di eresia [...] per il che, dubitando di non esser messo in preggione, mi partii da Napoli ed andai a Roma»[4]. Bruno raggiunse Roma nel 1576, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Sisto Fabri da Lucca, diverrà pochi anni dopo generale dell'Ordine e nel 1581 censurò i Saggi di Montaigne.

Sono anni di gravi disordini: anche Bruno è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin, il 7 dicembre 1585, che Bruno fuggì da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno ebbe notizia che nel convento napoletano avevano trovato tra i suoi libri opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotate da Erasmo e che si stava istruendo contro di lui un processo d'eresia.

Abbandona allora l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo e fugge in Liguria, raggiungendo nell'aprile 1576 Genova. Da qui, va poi a Noli (allora repubblica indipendente), dove per quattro o cinque mesi insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti. Nel 1577 è a Savona, poi a Torino, che giudica deliciosa città ma, non trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo scritto, andato perduto, De' segni de' tempi. Ma a Venezia era in corso un'epidemia di peste che aveva fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così Bruno va a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano.

Da Bergamo, nell'estate del 1578, decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia, passando l'inverno nel convento domenicano di Chambéry; nel 1579 è a Ginevra, città dove è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese napoletano Galeazzo Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia, nel 1552 vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. Il 20 maggio s'iscrive all'Università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».

In agosto accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce «pedagoghi» i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo era mirata a questo scopo. Scomunicato e processato per diffamazione, il 27 agosto è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante università, dove per quasi due anni occupò il posto di lettore, insegnandovi il De anima di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna di Lullo. Nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi dove «acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamar un giorno, ricercandomi se la memoria che havevo et che professava era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfattione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesmo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. E doppo questo feci stampar un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; e con questa occasione mi feci lettor straordinario e provvisionato».

Nell'aprile 1583 «andai in Inghilterra a star con l'ambasciator di Sua Maestà». A Londra pubblicò l'Ars reminiscendi, il Sigillus sigillorum e l'Explicatio triginta sigillorum, nella quale inserì una lettera indirizzata al vice cancelliere dell'Università di Oxford, una richiesta di poter insegnare nella prestigiosa università che viene accolta e nell'estate del 1583 Bruno vi tiene tre lezioni sulle teorie copernicane. Ritornato a Londra, nel 1584 vi pubblicò La cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De l'infinito, universo e mondi e lo Spaccio de la bestia trionfante, mentre l'anno successivo uscirono De gli eroici furori e la Cabala del cavallo pegaseo.

Nell'ottobre 1585 l'ambasciatore Castelnau è richiamato in Francia e Giordano Bruno s'imbarca con lui. Bruno abita a Parigi, presso il Collège de Cambrai, e ogni tanto va a prendere in prestito qualche libro nella biblioteca di Saint-Victor, nella collina di Sainte-Geneviève, il cui bibliotecario, il monaco Guillaume Cotin, ha l'abitudine di annotare giornalmente quanto avveniva nella biblioteca. Entrato in qualche confidenza col filosofo, da lui sappiamo che Bruno stava per pubblicare un'opera, l'Arbor philosophorum, che non ci è pervenuta, che aveva lasciato l'Italia per «evitare le calunnie degli inquisitori, che sono ignoranti e che, non conoscendo la sua filosofia, lo prenderebbero per eretico». L'anno successivo pubblica, dedicata a Piero Del Bene, abate di Belleville e membro della corte francese, la Figuratio Aristotelici physici auditus, un'esposizione della fisica aristotelica. Il 28 maggio 1586 fa stampare col nome del discepolo Jean Hennequin l'opuscolo antiaristotelico Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos, partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadendo le sue critiche alla filosofia aristotelica. Contro tali critiche si levò un giovane avvocato parigino, Raoul Callier, che replicò con violenza chiamando il filosofo Giordano Bruto. Sembra che l'intervento del Callier abbia ricevuto l'appoggio di quasi tutti gli intervenuti e che si sia scatenato un putiferio di fronte al quale il filosofò preferì, una volta tanto, allontanarsi, ma le reazioni negative provocate dal suo intervento contro la filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge alla Sorbona, unitamente alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e alla mancanza di appoggi a corte, lo indussero a lasciare il paese.

Raggiunta in giugno la Germania, soggiorna brevemente a Magonza e a Wiesbaden, passando poi a Marburgo (Germania)|Marburg, nella cui Università risulta immatricolato il 25 luglio 1586 theologiae doctor romanensis. Ma non trovando possibilità di insegnamento, probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche, il 20 agosto 1586 s'immatricola nell'Università di Wittenberg come doctor italicus, insegnandovi per due anni. Nel 1587 pubblica il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell' Ars magna di Raimondo Lullo e il De progressu et lampade venatoria logicorum, commento ai Topica di Aristotele; altri commenti a opere aristoteliche sono i suoi Libri physicorum Aristotelis explanati, pubblicati nel 1591. Un suo corso privato sulla Retorica sarà pubblicato nel 1612 col titolo di Artificium perorandi; anche le Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum verranno pubblicate soltanto nel 1891. Il nuovo duca Cristiano I, succeduto al padre morto l'11 febbraio 1586, decide di rovesciare l'indirizzo degli insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine di Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie aristoteliche. Dovette essere questa svolta a spingere Bruno, l'8 marzo 1588, a lasciare l'Università di Wittenberg.

In aprile va a Praga, dove rimane sei mesi. Pubblica il De lampade combinatoria lulliana e il De lulliano specierum scrutinio, dedicati all'ambasciatore spagnolo don Gugliemo de Haro, il quale vantava Raimondo Lullo fra i suoi antenati, mentre all'imperatore Rodolfo II dedica gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, che trattano di geometria. Ricompensato con trecento talleri dall'imperatore, in autunno lascia Praga e, dopo una breve sosta a Tubinga, giunge a Helmstedt, nella cui Università, chiamata Accademia Julia, si registra il 13 gennaio 1589. Il 1º luglio 1589, per la morte del fondatore dell'Accademia, Julius von Braunschweig, vi legge l' Oratio consolatoria, ove presenta se stesso come forestiero ed esule. Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente della Chiesa luterana della città, il teologo luterano Heinrich Boethius[5] - per motivi non noti. Benché scomunicato, poté tuttavia rimanere ancora a Helmstedt, dove aveva ritrovato Valtin Acidalius Havenkenthal e Hieronymus Besler, già suo allievo a Wittenberg, che gli fa da copista e vedrà ancora brevemente in Italia, a Padova. Bruno compone diverse opere sulla magia. Alla fine di aprile del 1590 lascia Helmstedt e in giugno raggiunge Francoforte in compagnia del Besler, che proseguì verso Padova. Verso febbraio parte per la Svizzera, accogliendo l'invito di Hans Heinzel von Dagernstein e di Raphael Egli, ove per quattro o cinque mesi insegna filosofia a Zurigo: le sue lezioni, raccolte con il titolo di Summa terminorum metaphisicorum, saranno in parte pubblicate a Zurigo nel 1595 e poi a Marburg nel 1609, insieme con la Praxis descensus seu applicatio entis. Ritornato a Francoforte in luglio, vi pubblica il De monade, numero et figura liber consequens quinque, il De imaginum, signorum et idearum compositione, dedicato ad Hans Heinzel, e il De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo.

Nell'agosto 1591 Bruno giunse a Venezia dove si trattenne per pochi giorni e poi andò a Padova per incontrare il Besler. A novembre, con il ritorno del Besler in Germania per motivi familiari, Bruno tornò a Venezia ma per mesi non si recò dal Mocenigo: solo dalla fine del marzo 1592 si stabilì in casa del patrizio veneziano, interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. Il 21 maggio informò il Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere: questi pensò che Bruno cercasse un pretesto per abbandonare le lezioni e il giorno dopo lo fece sequestrare in casa dai suoi servitori; il 23 maggio presentò all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine.

Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa. L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio.

Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa Clemente VIII[6]. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.

L'8 febbraio 1600, dinnanzi ai cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla»). Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata da una morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.

Candelaio

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Nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l'alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.

In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».

Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto: «par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno [...] un che ride solo per far come fan gli altri: per lo più lo vedrete fastidito, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla».

La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, di cui abbiamo, come rileva Pasquale Sabbatino, il ritratto cartografico disegnato da Du Pérac e stampato da Antoine Lafréry a Roma nel 1566 e la descrizione di Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli, apparsa a Napoli, nello stesso anno, presso Scotto.

La Cena de le Ceneri

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La Cena de le Ceneri è divisa in cinque dialoghi ed è la sua seconda opera in volgare, dedicata all'ambasciatore francese a Londra Michel de Castelnau. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Bruno, Giovanni Florio, segretario dell'ambasciatore francese, il medico Matthew Gwinne, il cavaliere Brown e due dottori luterani di Oxford.

Bruno vi difende la teoria di Niccolò Copernico contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Andrea Osiander, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella del Copernico, «uomo» – scrive Bruno – «che non è inferiore a nessuno astronomo, che sii stato avanti lui [...]: al che è divenuto, per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la commune e volgar filosofia, non voglio dir cecità, ma però non se n'è molto allontanato; perché lui più studioso de la matematica, che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto, che potesse a fatto toglier via le radici d'inconvenienti e vani principii».

I vani principi sono la finitezza dell'universo e il credere che in esso esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il sole come prima vi si immaginava fissa la terra. Seguendo la Docta ignorantia del Cusano, Bruno sostiene l'infinità dell'universo, in quanto effetto di una causa infinita, e dunque l'insussistenza di un centro. Bruno è naturalmente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della terra – ma, risponde, «se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti». Ma la Scrittura tratta le norme morali, non è già una filosofia della natura, non si occupa delle speculazioni e delle dimostrazioni delle cose naturali: la Scrittura «parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale».

Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.

Lo Spaccio de la bestia trionfante

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Insieme con i successivi De gli eroici furori, lo Spaccio de la bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.

Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.

Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.

Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.

«Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi.»

(Giordano Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo)

Gli Eroici furori

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Nei dieci dialoghi che compongono l'opera De gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».

Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano «facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de li perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia, onde più non vegga come per forami e per foreste la sua Diana ma, avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l'aspetto de tutto l'orizonte. Di sorte che tutto vede come uno, non vede più distinzioni e numeri, che [...] fanno vedere e apprendere in confusione. Vede l'Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la monade, vera essenza de l'essere de tutti; e se no la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede ne la sua genitura, che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l'universo, il mondo».

La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.

De la causa, principio e uno

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“De la causa, principio et uno”[7] è un’opera di Giordano Bruno, pubblicata nel 1584 a Londra. E’ composta da 5 dialoghi in cui espone il suo pensiero riguardo le cause e i principi dell’universo.

Dialogo primo

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Si pensa che sia stato aggiunto dopo la pubblicazione de La cena delle ceneri. I protagonisti Elitropio, Filoteo e Armesso sembrano rappresentare lo stesso Bruno che si difende dalle accuse mosse alla sua opera. I tre, infatti, discutono dello scalpore che il libro ha causato e di come l’autore sia stato accusato di essere un cane rabbioso per il modo in cui ha esposto i temi trattati nell’opera. Alla domanda di Armesso che chiedeva se volesse apparire un cane rabbioso, Filoteo risponde di sì, in quel modo nessuno lo avrebbe più disturbato.

Dialogo secondo

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causa e principio
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I protagonisti di questo dialogo sono Teofilo, Gervasio, Dicsono Arelio e Polihimnio. Tutto parte da una domanda di Dicsono Arelio riguardo le cause e i principi a cui Teofilo risponde dicendo che qualsiasi cosa che non sia causa prima o principio primo, ha causa e principio e che però non è sempre possibile riconoscere quali siano. In questo modo, Bruno intende dire che chiunque si dedichi alla conoscenza dell'universo non potrà mai giungere a una conoscenza piena della “divina sostanza” di cui l'universo è effetto, ma soltanto avvicinarsi a questa in modo parziale. In seguito parla di Dio come principio primo in quanto tutte le cose sono dopo di lui, e come causa prima in quanto tutte le cose sono distinte da lui "come la cosa prodotta dal producente". Infine introduce i termini di materia e forma, attraverso cui spiega che causa e effetto non sono equivalenti, infatti si può pensare alla causa come un’agente esterno e al principio come qualcosa di interno, così come la sostanza divina è una causa esterna e la materia e la forma sono “interne” all’universo.

Sempre nel secondo dialogo i protagonisti discutono riguardo all’anima e al principio vitale, arrivando alla conclusione che tutte le cose sono dotate di un’anima poiché “L’anima del mondo è il principio formale constitutivo de l’universo e di ciò che in quello si contiene”.

Dialogo terzo

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Il terzo dialogo inizia con una accesa discussione tra Gervasio e Polihimnio, interrotta da Teofilo e Dicsono Arelio che riprendono la discussione del secondo dialogo. Teofilo spiega che forma e materia possono essere intesi come potenza attiva e potenza passiva cioè potenzialità di fare e di poter essere fatto. Bruno, inoltre, spiega che il rapporto tra atto e potenza dipende dal soggetto che prendiamo in considerazione, per esempio in Dio, atto e potenza sono la stessa cosa, mentre nell'universo no. Infine nell'uomo, atto e potenza sono limitati ed è proprio a causa di ciò che si spiega la corruzione delle cose.

Dialogo quarto

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Il quarto dialogo riguarda principalmente la materia. Gervasio e Polihimnio conversano su di essa e Polihimnio, facendo numerosi riferimenti alla Genesi e ad Aristotele, stabilisce che la materia è definita in senso dispregiativo al femminile, citando alcuni episodi storici avvenuti a causa di una donna. In seguito, Dicsono e Teofilo intervengono nella conversazione associando la materia alla forma. Secondo Teofilo, la materia intesa come la totalità della materia presente nell’universo non ha forma né può averla in quanto le possiede tutte, e non ha nemmeno dimensione. La materia, infatti, riceve forme e dimensioni dall’interno, in quanto sono già contenute in essa. Teofilo continua dicendo che ebbero questa intuizione i filosofi Peripatetici, Averroè e Plotino ma essa è in contrasto con la teoria sviluppata da Platone delle idee. Successivamente, però, Aristotele trova difficoltà nel rispondere al quesito che pone la sua attenzione su dove risieda la forma all’interno della materia. Egli lo risolve tramite un’assurdità che distingue la “materia in potenza” e la “materia in atto”: tale distinzione farebbe pensare che la materia sia quasi un niente, senza qualità come virtù e perfezione. Secondo quanto detto nel dialogo precedente, le forme sono in movimento, imperfette, destinate a mutare, corrompersi e dissolversi. Al contrario la materia non è soggetta a tutto ciò in quanto eterna e animata dall'interno e perciò viva.

Dialogo quinto

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L’inizio del quinto dialogo dell’opera De la causa, principio et Uno è una sintesi del pensiero di Bruno sull’Uno e sulle sue caratteristiche. I filosofi naturali sono giunti alla conclusione che, nonostante le variazioni e mutazioni degli enti, la sostanza rimane sempre unica e immutabile. Bruno si riferisce sia alla tradizione filosofica greca sia alla Bibbia. I punti principali su cui si sofferma in questo dialogo sono: Per Bruno l'universo è uno, infinito, immobile e inalterabile. Egli procede a dimostrare le proprie tesi ammettendo innanzitutto che una sola è la possibilità di sviluppo dell'universo, ovvero una sola è la via che porta alla realizzazione delle possibilità della materia. Quindi l'universo è dotato di una sola forma, nel senso che è dotato di un singolo spirito animatore, che ne garantisce l'ordine e che è l'universo stesso. Questa forza animatrice deve essere Dio perché deve essere superiore al mondo, in quanto ne è il principio regolatore. Egli, essendo superiore all'universo, quindi superiore ad ogni cosa, non ha niente che lo possa limitare. Ma esso deve anche essere immobile, in quanto non ha niente in cui muoversi, perché lo spazio è compreso nella struttura dell'universo stesso, a cui Egli è superiore. Se è tutto, allora questo universo-spirito, non può né generare né essere generato, perché non può essere altro essere che se stesso. Allo stesso modo non si può corrompere, ma deve rimanere sempre uguale a se stesso. Se non può cambiare non può nemmeno crescere o decrescere, a causa del suo essere infinito, infatti aggiungendo o togliendo qualcosa all'infinito non ottengo altro che ancora infinito. L'universo è dunque inalterabile in alcun modo, in quanto comprende ogni cosa, ed ogni cosa è compresa in esso. Bruno passa poi ad elencare altre caratteristiche peculiari dell'universo-dio. Egli non è la forma, il contenitore, di niente, in quanto è il tutto, non è misurabile, in quanto infinito, non comprende sé stesso, nel senso che non può, essendo il massimo, essere maggiore di sé stesso, non può venir compreso perché tutto è al di sotto di esso.

Bruno, paragona l'universo ad una sfera, in quanto non trova alcuna ragione per credere che vi sia qualche dimensione maggiore di altre. Quindi nell'universo i termini larghezza, lunghezza e profondità, sono essenzialmente la stessa identica cosa. Dato che l'universo è infinito, infinite devono pure essere le sue dimensioni. Ma non infinite nel senso di continuare senza termine, ma infinite in quanto non proporzionabili a niente, in quanto qualsiasi cosa è compresa nell'universo di cui sono caratteristiche, l'universo è dunque non misurabile, non confrontabile con niente. Infatti, misurare significa stabilire che una certa cosa A è tot volte un'altra cosa B. Ma allora, se A è infinito anche B deve essere infinito, in quanto rappresenta una parte dell'infinito. Quindi, se l'universo, nel suo essere infinito, non si può misurare, allora non si può nemmeno dividere in parte, perché, in fondo, le due sono la stessa cosa. L'universo è dunque unico (non può essere diviso e infinito nello stesso tempo), infinito e indifferenziabile.

Se l'universo è uno, indivisibile e in lui non possono esserci differenze di alcun tipo, allora in esso non può esserci né potenza né atto, o meglio, le due cose non hanno alcuna differenza. A questo punto Bruno procede ad escludere il duo spirito-universo da ogni possibile geometria che tenti di comprenderlo. Per escludere l'universo, nella sua totalità e nel suo essere Dio, dalla geometria, Bruno deve dimostrare non validi i concetti fondamentali della geometria stessa, ovvero il punto, la linea, la superficie e il corpo (il volume). Bruno, considera questi quattro concetti come l'uno contenuto nell'altro, in una catena di potenzialità. Infatti dal punto deriva la linea, quindi il punto è una linea potenziale, la linea è una superficie in potenza, infine la superficie potenzialmente un volume. In altre parole, egli considera ognuno di questi concetti come riconducibili a quello precedente. Avendo negato ogni differenza quantitativa e ogni differenza di potenzialità o attualità, viene quindi negata ogni differenza fra punto, linea, superficie e volume.

In questa parte, Bruno intende dimostrare che lo Spirito del Mondo è dappertutto e in tutto. Anche qui, il filosofo ricorre all'indivisibilità dell'Uno. Se tutto è indivisibile, allora è impossibile applicarvi la geometria, quindi possiamo dire che il centro dell'Universo è dappertutto, oppure da nessuna parte, e che la circonferenza è in nessun luogo, oppure dappertutto. Ma l'Universo è anche quel centro e quella circonferenza, quindi esso, lo spirito-universo, è dappertutto e pervade tutte le cose che lo compongono.

A questo punto, resta da chiarire perché, se tutto è l'Uno e l'Uno è tutto, le cose paiono mutare ed essere diverse le une dalle altre. Bruno, per rispondere, distingue tra l'essere, la sostanza, che è una, e il modo proprio di esistere, di comparire come fenomeno, delle cose. Così ogni cosa fisica, non è altro che il modo di essere della sostanza fondamentale. La differenza fra l'Uno-tutto e le cose è proprio questa: le cose hanno un solo modo d'essere, l'Uno li ha tutti. Le cose non hanno tutti i modi di essere, le forme, perché alcune forme sono incompatibili le une con le altre, ma possono essere coniugate ed unite in un Tutto superiore, l'Uno appunto. Infine, l'Uno comprende tutto l'essere, in quanto è infinito e nulla può esistere oltre l'infinito. Invece le cose sono parte di quell'essere, ma non lo comprendono tutto, in quanto esistono infinite altre cose. Quindi il tutto è all'interno di ogni cosa, in quanto l'essere è in ogni cosa, ma non in modo uguale in ciascuna cosa.

In quest'altra sezione, Bruno continua la sua analisi delle caratteristiche dell'Uno. Se l'Uno è tutto indivisibile e niente può esistere fuori da esso, egli è assoluto e non può essere messo all'interno di un confronto relativo con qualcos'altro. Ma se questo infinito è assoluto, allora dovrebbero perdere senso tutti i numeri e la matematica, perché non avrebbero alcuna ragione di esistere, in quanto non ha senso confrontare o operare con qualcosa di limitato, nella prospettiva dell'infinito. Bruno, deve però ammettere una sua realtà al numero, in quanto esso è praticamente sensato e lo fa affermando che il numero rappresenta una complessità maggiore nell'Uno, ovvero mostra come egli esista in forme e modi diversi. Bruno, inoltre, ammette che le cose mutino che è un dato di fatto, ma non cessano. La loro sostanza, che compone il Tutto ed è Dio, continua ad esistere, dunque esse non fanno altro che mutare in altre cose. Dopo alcuni esempi di personaggi che hanno compreso il senso della mutazione, Bruno conclude dicendo che noi siamo nell'Universo-Dio, e che l'Universo è in tutti noi, così che tutto è unito profondamente e perfettamente. Quindi non dobbiamo preoccuparci per le cose che appaiono, perché tutto è un unico armonico.




  1. 1,0 1,1 L. Firpo, Il processo a Giordano Bruno, p. 156
  2. L. Firpo, cit., p. 171
  3. L. Firpo, cit., p. 170
  4. L. Firpo, cit., p. 191
  5. A. Verrecchia, cit., pag. 208
  6. Clemente VIII «decrevit et ordinavit quod praefigatur sibi terminus ad resipiscendum pro his quas confessus est», in L. Firpo, cit., 1998, p. 329
  7. De la causa, principio e uno

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