Egitto: La rivolta del 2011
Giovanni Testi, dal Cairo
Le sfide di piazza Tahrir
modificaDa Nigrizia di marzo 2011: Egitto, dopo la caduta del rais
Le manifestazioni che si sono susseguite al Cairo hanno chiesto e ottenuto la fine del regime di Hosni Mubarak. La spinta maggiore è venuta dai giovani in cerca di futuro. E dai Fratelli Musulmani, da sempre all'opposizione. Uno scenario in movimento.
Sono stato osservatore diretto della rivolta. La sede provinciale dei comboniani in Egitto, in via Ramsès, al Cairo, attigua alla chiesa "Cordi Jesu", è a poche centinaia di metri dall'ormai famosa piazza Tahrir, luogo simbolo del movimento giovanile da cui il popolo di questo antico paese è partito per rinascere. La costruzione di questa casa fu iniziata nel novembre 1874; la prima pietra della chiesa fu benedetta da san Daniele Comboni il 28 dicembre 1870. Questa sede e questa chiesa si sono trovate nel cuore della storia, testimoni di una voglia e di uno slancio, tanto entusiasmanti quanto incerti, di cambiamento.
Il 25 gennaio 2011, l'Egitto, il più popoloso dei paesi arabi (84 milioni di abitanti) si rivolta contro il suo presidente. Per un po', il presidente Hosni Mubarak resiste. Poi, il vicepresidente, Omar Suleiman, che piace a Israele e Stati Uniti, cerca di avviare riforme, intavolando colloqui con i gruppi d'opposizione, compresi i Fratelli Musulmani, per discutere del futuro del governo egiziano, ma non convince. La protesta continua. Il braccio di ferro tra il popolo e il regime si intensifica. Ci sono anche feroci scontri. Si parla di circa 300 morti.
La svolta arriva l'11 febbraio: Mubarak si dimette e passa il potere nelle mani delle forze armate. In serata, il primo comunicato del Consiglio supremo delle forze armate, guidato dal maresciallo Mohammed Hussein Tantawi: «L'esercito non è un sostituto delle aspirazioni legittime avanzate dal popolo. Siamo consapevoli della pericolosità della situazione e agiremo per venire incontro alle richieste dei cittadini». Il 13 febbraio viene sciolto il parlamento. Il 15, con un decreto, si nomina una commissione per la modifica della costituzione.
Chi, o cosa, ha fatto scoccare la scintilla? Poche settimane prima dell'inizio della rivolta popolare, il 17 dicembre 2010, in Tunisia è accaduto un evento drammatico, anche se forse insignificante sullo scacchiere geopolitico internazionale: Mohamed Bouaziz, 26 anni, venditore ambulante che s'è visto sequestrare il carrettino su cui trasportava la verdura, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. Il suo gesto di protesta ha innescato una serie di sommosse popolari che hanno provocato la fuga del capo di Stato, Ben Ali (14 gennaio). Grazie ai social network, la notizia si è prontamente diffusa in tutto il Nord Africa. Le immagini di giovani tunisini che chiedono democrazia colpiscono l'immaginario dei coetanei egiziani. Facile per i primi identificarsi con i secondi: tutti hanno prospettive lavorative minime e una rappresentanza politica nulla.
Come in Tunisia, anche in Egitto sono stati i giovani i veri protagonisti della rivolta. Si sono mossi prima che scendessero in campo i Fratelli Musulmani. Prima che Muhammad Mustafa El-Baradei, diplomatico egiziano, dal dicembre 1997 al novembre 2009 direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), premio Nobel per la pace 2005, annunciasse il suo ritorno in patria e si dicesse pronto a mettersi alla testa dell'opposizione. Prima che si facessero sentire i partiti d'opposizione. Sono loro a sognare un domani diverso. Sono loro a costituire il bacino elettorale cui chiunque voglia candidarsi come alternativa allo status quo si deve rivolgere.
Stato di polizia
Com'è sfuggita di mano la situazione al rais Mubarak, che fino al giorno prima aveva governato con mano forte, sbaragliando le opposizioni e riuscendo a mettere i propri uomini in ogni fibra delle infrastrutture politiche, educative ed economiche del paese? Si può trovare l'abbozzo di una risposta in due eventi interconnessi.
Il primo ha luogo il 16 gennaio, giorno dedicato ai giudici. Mubarak ha in programma la visita al consiglio superiore della magistratura, nel centro della capitale. La sera precedente, gruppi di netturbini hanno ripulito la zona; le luci sono tornate a funzionare nei lampioni; si sono disposte le transenne ai bordi delle strade. All'alba, due cordoni di poliziotti lungo i bordi della strada garantiscono che nessuno sia presente o esca dalle case adiacenti quando passerà il rais. Per ore, le zone della città attraversate dal corteo presidenziale sono paralizzate. Poi, ecco potenti automobili, nere e lucide, sfrecciare ad alta velocità. In una di esse c'è Mubarak.
Subito dopo, tutto torna alla normalità. Riappare il caos. Si risentono i clacson strombettare. I venditori ambulanti urlano la loro merce... Inevitabili due domande: perché la gente - o meglio, la sua ordinaria povertà - è tenuta lontana dal presidente? E perché le miserie della capitale sono cosmeticamente mascherate ai suoi occhi? Una sola la risposta: è l'Egitto che deve adeguarsi alle aspettative di Mubarak, non viceversa.
Il secondo evento è del 6 giugno 2010. Khaled Mohamed Saeed è seduto in un Internet-café di Alessandria. Due agenti di polizia entrano e l'arrestano. Il proprietario del bar racconta: «L'hanno trascinato all'edificio adiacente e gli hanno sbattuto la testa contro una porta di ferro e le pareti del palazzo. Due medici hanno cercato di rianimarlo, ma invano. La polizia ha continuato a picchiarlo». Il fatto la dice lunga. L'Egitto si è gradualmente trasformato in uno stato di polizia. Dal 1981 è in vigore lo stato di emergenza, in virtù del quale la polizia ha il diritto di arrestare persone sospettate di qualunque cosa e senza precise accuse, di detenerle a tempo indeterminato, di limitare la libertà di espressione e di riunione, e di gestire "tribunali speciali di sicurezza".
Curiosamente, il 25 gennaio, giorno d'inizio della rivolta, è la festa nazionale della polizia. Pura coincidenza? Tra i gruppi che vi partecipano più attivamente c'è "We are all Khaled Saeed", il movimento di attivisti on-line più numeroso del paese.
La gente c'è
Mubarak è sempre stato convinto che, senza di lui, il paese sarebbe caduto nel caos. Eppure, anche nella più totale assenza della polizia, l'Egitto ha saputo organizzarsi in maniera autonoma per garantire la sicurezza delle proprietà private e dei beni culturali. Sottovalutazione o presunzione del rais?
È un fatto che Il Cairo, una delle città più popolose del mondo, si è gestita senza aiuto del governo. La gente si è impossessata del paese, che sembrava patrimonio di una sparuta parte della sua popolazione, e ha cominciato a parlare di politica e di buon governo, senza più paura di gridare il proprio dissenso. Fino al giorno prima, aveva pubblicamente taciuto ogni critica al regime per timore della onnipresente polizia segreta (amn aldawla), infiltrata ovunque, capace di repressioni brutali, spesso connivente con la dilagante corruzione.
Prima della rivolta, la vita delle chiese cristiane era un ingorgo di misure di sicurezza. Dopo l'attacco terroristico alla chiesa copta ortodossa in Alessandria, all'alba del 1° gennaio 2011, siamo stati obbligati ad acquistare metal detector ed estintori e ad assumere nuovo personale per controllare gli accessi alle nostre chiese. E mentre l'opinione internazionale definiva l'attacco «atto di persecuzione contro la comunità cristiana», nel paese si moltiplicavano episodi di solidarietà da parte della comunità musulmana nei confronti dei cristiani. Molti islamici si sono posti come scudi umani alle porte delle chiese cristiane per la celebrazione del Natale copto, il 6 gennaio. Anche durante tutto il periodo in cui le strade sono state abbandonate dalla polizia, né moschee né chiese sono state fatte oggetto di attacchi.
Tra le immagini che hanno catturato il sostegno e la simpatia delle masse hanno spiccato quelle in cui si sono visti i manifestanti innalzare la luna crescente islamica intrecciata alla croce cristiana. Un piccolo simbolo, è vero, ma molto significativo, perché contrasta con la paura, profondamente radicata e diffusa nella comunità cristiana, che i Fratelli Musulmani, una volta al potere, porterebbero il paese verso una pericolosa deriva fondamentalista.
Incognita Fratelli Musulmani
I Fratelli Musulmani, una delle più importanti organizzazioni islamiche con un approccio di tipo politico all'islam, fondati in Egitto nel 1928 da Al-Hasan Al-Banna, hanno sempre rappresentato la più consistente opposizione al potere di Mubarak. Allo stesso tempo, sono stati la prima ragione dell'assolutizzarsi di questo potere.
La minaccia che l'Egitto si trasformasse in un nuovo Iran ha fornito al presidente la possibilità di godere di ingenti aiuti militari da parte del mondo occidentale, in primis gli Stati Uniti, e la scusa per consolidare il potere in patria. In controtendenza, il movimento dei Fratelli Musulmani ha progressivamente moderato le sue posizioni più estreme, abbracciando un programma di trasformazione non violenta, basato sul modello della "pazienza e perseveranza" del primo periodo di vita del profeta Maometto, sul buon esempio e sulla collaborazione (taqiyyah). Ha pure stabilito una rete capillare di solidarietà sociale, specie nelle aree più povere e popolate del paese, e creato un network di banche etiche od organizzazioni di carità, aventi come fine l'islamizzazione dentro e fuori dal paese, grazie anche a ingenti finanziamenti dell'Arabia Saudita. Il tutto, sulla base ideologica dell'applicazione della legge coranica (shari'a) e dietro la promessa di uno stato giusto ed etico.
Pur non essendo un gruppo del tutto omogeneo, è scontato che, in un dopo-Mubarak, i Fratelli Musulmani emergeranno come un forte candidato al governo del paese. Il pronostico più accreditato è che, in elezioni libere, potrebbero prendersi un terzo del parlamento.
Permane - per molti almeno, sia in Egitto che all'estero - il dilemma: meglio sconfiggerli, o almeno soggiogarli, alla maniera di Mubarak, o affrontarli dentro l'arena legittima del confronto politico democratico?
La retorica anti-americana o anti-straniera tout court è un segnale pericoloso per un paese che ha creato la stabilità della sua mal distribuita prosperità economica su accordi commerciali con l'estero, eppure comincia a essere usata come mezzo di persuasione politica, in controtendenza al network on-line, che ha fatto sognare una società al plurale. Se non si controlla questa tendenza, le forze rappresentate dai giovani insorti, che dichiarano di aver ottenuto la liberazione da un tiranno, potrebbero solo creare lo spazio per un nuovo uomo forte.
Per ora, comunque, gli egiziani sembrano intenti ad ascoltare il grido di liberazione che dalla piazza Tahrir si è esteso a tutto il paese. Tahrir significa, appunto, libertà.
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Cristiani egiziani: ghettizzati ma prudenti
Il numero di cristiani egiziani si aggira tra i 6 e gli 8 milioni, nella stragrande maggioranza copti ortodossi. I cattolici sono circa 220mila. Come gli anglicani. I cattolici sono sparsi in tutto il paese, serviti da sette diocesi e dalla diocesi patriarcale di Alessandria. Oltre alla cattolica romana, ci sono altre sei chiese cattoliche: latina, greco-melchita, armena, maronita, siriaca e caldea.
Durante la crisi, la maggior parte dei cristiani copti è parsa pro- Mubarak, mentre i cattolici - gerarchia, clero, religiosi e religiose, fedeli - hanno mantenuto un prudente silenzio. Di certo non si sono associati al gruppo di teppisti pro-Mubarak che ha tentato di deragliare la protesta in una spirale di violenza. Hanno, tuttavia, guardato con sospetto quanti hanno occupato la piazza Tahrir, nonostante le notizie dessero grande rilevanza ad alcuni cristiani in preghiera a fianco dei musulmani.
Sotto il governo di Mubarak, i cristiani hanno goduto, se non di pari diritti, almeno di una maggiore protezione, ma al prezzo di una discriminazione strutturale e della caduta in una mentalità di ghetto, che li ha resi estranei alle aspirazioni di un cambiamento politico e civile del paese. La risposta a questo stato di cittadinanza di seconda classe è stata la fuga dal paese. Nell'Instrumentum laboris del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, pubblicato nel giugno 2010, si legge: «In Egitto, la crescita dell'islam politico, da una parte, e il disimpegno, in parte forzato, dei cristiani nei confronti della società civile, dall'altra, rendono la loro vita esposta a serie difficoltà. Inoltre, questa islamizzazione penetra nelle famiglie anche mediante i mass media e la scuola, modificando le mentalità che, inconsapevolmente, si islamizzano». (34). Si auspicano «una evoluzione delle mentalità e della società», maggiore «educazione alla libertà dell'altro», e «il superamento degli interessi confessionali per maggiore giustizia ed uguaglianza di fronte al diritto» e una «laicità positiva» (39).
Oggi la sfida maggiore è passare da un regime teocratico a una costituzione che riconosca la distinzione tra l'ordine religioso e quello temporale nella vita pubblica. Solo così si potrà garantire l'inalienabilità dei diritti civili (libertà di opinione, di espressione, di pensiero e di religione, l'uguaglianza dei cittadini, parità tra uomini e donne...). Come conseguenza, dovrà sparire dalla carta d'identità egiziana la voce "religione". Molto più difficile immaginare che sia riconosciuta la possibilità per una donna musulmana di sposare un cristiano.
Nel sogno di san Daniele Comboni, l'Egitto rappresentava il paese della coesistenza possibile. Piazza Tahrir, su cui la chiesa "Cordi Jesu" si affaccia, lo ha fatto intravedere come un sogno mai interrotto. Un sogno in cui minareti e campanili sono al servizio della libertà e della giustizia. (G.E.)