Contrattualistica/Interpretazione e integrazione del contratto

Oggetto dell'attività ermeneutica ed integrativa è il contenuto del contratto, formato dall'insieme delle dichiarazioni narrative e dispositive che concorrono a formare il testo negoziale in senso sostanziale, cioè l'autoregolamento di interessi cui le parti si vincolano per raggiungere un certo scopo.
Per la teoria tradizionale del dogma della volontà, dal contratto possono derivare solo le conseguenze che si riallacciano alla volontà delle parti.
Per la moderna teoria precettiva invece, è una “mera finzione” affermare che il contenuto del contratto resta quello indicato dalle parti, in quanto è l'ordinamento statuale che ha il compito esclusivo di fissare gli effetti del contratto. Per tale scuola di pensiero, è venuto meno il monopolio delle parti nella costruzione dell'assetto di interessi, sicché non è più accettabile la vecchia distinzione tra effetti voluti ed effetti imposti.
Va piuttosto evidenziato che l'autonomia privata (di concludere il contratto, di fissarne un certo contenuto, di scegliere il contraente, di stipulare negozi atipici, ecc.), è conformata dalla legge, la quale può intervenire per modificare un atto che, così ampliato o ristretto, probabilmente le parti non avrebbero accettato di stipulare.
Va anche evidenziato che l'autonomia contrattuale in tanto tollera limitazioni e modifiche in quanto ciò sia previsto dalla legge, per tutelare e garantire interessi più vasti, superindividuali, cioè per attuare quella cd. funzione sociale ex artt. 41-42 Cost. indissociabile dall'esercizio di qualsiasi attività.

lezione
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Contrattualistica/Interpretazione e integrazione del contratto
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Diritto privato

N.B. Le cd. clausole di stile di solito non hanno un reale valore contrattuale perché non sono realmente volute dalle parti, salvo che dal rapporto non risulti il contrario.
Per la giurisprudenza, la qualificazione di una clausola contrattuale come clausola di stile deve operarsi secondo un'interpretazione letterale che consenta di verificare se la pattuizione possegga quei requisiti di genericità e ripetitività propri di tale categoria di clausole (in tal caso sono assimilabili agli usi).
I cd. documenti allegati possono talvolta concorrere a precisare il contenuto contrattuale, anche se redatti dopo la stipula, quando siano assunti come “parti integranti” dell'atto contrattuale cui sono allegati e nel quale sono esplicitamente richiamati.

Identificazione dell'atto da interpretare modifica

Il primo problema che si pone all'interprete è quello di identificare il tipo di contratto (cd. problema della qualificazione giuridica), cioè di stabilire in quale schema negoziale rientra, in quanto da ciò dipende l'applicazione di regole ermeneutiche diverse (per gli atti mortis causa le regole interpretative divergono da quelle per l'interpretazione degli atti tra vivi).
Se si tratta di atti giurisdizionali, l'interpretazione va effettuata alla luce della motivazione. L'art. 111 Cost. impone infatti che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, sicché la decisione di rigetto o di accoglimento delle pretese del legittimato attivo possa essere interpretata e compresa alla luce dei motivi di fatto e di diritto che precedono il dispositivo.
In particolare, la dottrina afferma che la motivazione ha una limitata rilevanza nelle sentenze del giudice ordinario, dove il cd. giudicato si forma principalmente sul dispositivo, mentre assume un rilievo maggiore nelle sentenze del giudice amministrativo, in quanto qui rappresenta il cd. dispositivo in senso sostanziale sul quale si forma il giudicato.
Se si tratta di atti legislativi, l'interpretazione tenderà ad accertare il contenuto e la portata di un precetto ordinamentale secondo la sua cd. funzione sociale: le cd. leggi interpretative seguono perciò criteri del tutto peculiari, dovendo tenere conto di problemi di costituzionalità, di vigenza temporale, di retroattività, ecc.
Se si tratta di atti amministrativi, il problema dell'identificazione si pone con maggiore evidenza, non essendo tale figura contemplata dalla legge e dunque non esistendo parametri sicuri di qualificazione.
In assenza di qualsiasi previsione specifica, le SS.UU. dal 1972 hanno ritenuto applicabile per analogia la disciplina civilistica in materia di interpretazione del contratto, sebbene con i dovuti adattamenti per la particolare natura e funzione dell'atto amministrativo.

L'identificazione del tipo negoziale modifica

L'interpretazione del negozio è uno dei problemi più discussi e si collega alla stessa problematica dell'identificazione della funzione del negozio.
Nel Codice troviamo due serie di norme:

  1. le norme sui contratti in generale (art. 1321-1469), che sono norme comuni valevoli per tutti i tipi negoziali;
  2. le norme sui singoli contratti, che valgono solo per i contratti cui si riferiscono, e si trovano nel Codice o in leggi speciali.

Ciò vale soltanto in linea di massima: può accadere che il legislatore consenta l'applicazione delle norme del primo gruppo “solo in quanto compatibili”, oppure che la giurisprudenza in via pretoria estenda l'operatività delle norme sui singoli contratti ad atti atipici, oppure ancora che occorra integrare le norme del primo e del secondo gruppo per giungere ad un'interpretazione soddisfacente.
Bisogna allora tener presente che:

  • le norme sul contratto in generale sono frutto di esperienze maturate in relazione ai singoli contratti;
  • la tecnica codicistica risponde ad un'esigenza di economia di normazione, perché molte norme sono effettivamente comuni a più tipi contrattuali;
  • va tenuto conto dell'autonomia contrattuale, che può dare luogo a schemi negoziali atipici, la cui interpretazione è disciplinata da particolari criteri.

L'identificazione dei contratti misti modifica

Ai fini di una corretta identificazione del tipo di contratto, è decisiva l'analisi della causa, cioè della funzione che l'accordo è destinato a realizzare.
Si pongono però dei problemi quando le parti utilizzano schemi contrattuali tipici, con cause tipiche, ma combinati in un unico accordo: si pensi a chi acquista una vettura nuova contro un corrispettivo costituito in parte dal trasferimento di una vettura usata: tale contratto è qualificato come “contratto misto di vendita e permuta”, ma è sottoposto alle sole norme sulla vendita, in base al criterio della prevalenza del carattere traslativo del contratto.
Attenzione, perché il problema dei contratti misti non è un problema di pluralità di prestazioni, ma è un problema di pluralità di cause. Se un contratto ha un'unica causa (es. causa venditionis) con più prestazioni (es. custodire la cosa fino alla consegna), resta un contratto a causa semplice, tipico o atipico che sia, in quanto le prestazioni accessorie trovano causa nella vendita.

Problemi di qualificazione e di interpretazione sono sorti quanto al contratto di appalto avente ad oggetto “lavori e servizi” oppure “lavori e forniture”.
Si discute se gli appalti pubblici misti siano un'applicazione dei contratti misti di diritto civile, e in dottrina si accoglie la soluzione negativa, perché:

  1. il contratto misto di diritto civile è caratterizzato da un'unica causa atipica, risultante dalla fusione di più cause tipiche (N.B. il negozio collegato conserva la sua individualità, solo che è in rapporto di reciproca dipendenza dall'altro, condizionandosi a vicenda nella validità e nell'efficacia);
  2. l'appalto pubblico misto è invece caratterizzato dalla fusione in un unico schema negoziale di più procedimenti pubblicistici di aggiudicazione, laddove la p.a. non può scegliere il regime da applicare previsto da leggi speciali ad hoc.

La ricostruzione dell'intento delle parti modifica

L'interpretazione è un procedimento articolato in due fasi, tendente a ricostruire l'intento delle parti contraenti così come è stato manifestato nella dichiarazione.
Una volta identificato il tipo negoziale ed accertare quindi le norme applicabili, nella fase preliminare l'interprete ricostruisce il “dato storico” dell'intento pratico perseguito dalle parti (che cosa le parti avevano interesse a realizzare attraverso quel negozio), tenendo conto di eventuali dichiarazioni, comportamenti, atti esecutivi, condotte di terzi che agiscono per incarico o nell'interesse delle parti, precedenti convenzioni preliminari, trattative, ecc.
Tutti questi elementi assumono rilevanza in sede interpretativa, poiché le dichiarazioni conclusive (cioè quelle che danno vita al contratto e sono formalizzate in un documento) non sono un fatto isolato ma rappresentano il momento centrale di una vicenda che inizia con una serie di contatti tra le parti e termina con l'esecuzione conforme agli impegni assunti.
Nella fase successiva si confronta tra il risultato dell'operazione precedente (cioè la ricostruzione della comune intenzione delle parti) con lo schema contrattuale adoperato dalle parti, per stabilire se il contenuto sostanziale del contratto era idoneo ab origine a produrre gli effetti previsti e programmati, ovvero lo diventa a seguito dell'interpretazione.

I criteri interpretativi modifica

Circa i criteri di interpretazione, possono distinguersi due gruppi di norme:

  • il primo gruppo (artt. 1362-1365 cod. civ.) di norme primarie fornisce criteri soggettivi di interpretazione, diretti a chiarire la cd. comune intenzione delle parti,
  • il secondo gruppo (artt. 1367-1371 cod. civ.) di norme sussidiarie fornisce criteri oggettivi, diretti a fissare il significato del contratto, quando residua qualche dubbio sulla comune intenzione delle parti dopo aver utilizzato i criteri soggettivi.

La tecnica codicistica enuncia in apertura (art. 1362) il principio basilare secondo cui anche in claris fit interpretatio: la mera interpretazione letterale del testo giammai può condurre alla certezza della reale comune intenzione delle parti (il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si pone come il primo (ma non unico) degli strumenti di interpretazione).
Tra il primo ed il secondo gruppo, il Codice pone la norma (art. 1366) che prevede il criterio di buona fede interpretativa: tale collocazione ha fatto nascere il problema se si tratta di un criterio primario o secondario di interpretazione.
Sul punto vi sono diversi orientamenti:

  1. per una parte della dottrina, essa è un criterio soggettivo di interpretazione, volto a favorire la piena rilevanza del principio di affidamento: il contratto va interpretato secondo quanto la controparte aveva diritto di intendere e il dichiarante ha lasciato intendere (conta ciò che le parti si sono dette e le espressioni che hanno usato);
  2. per un'altra parte della dottrina, essa è lo stesso criterio oggettivo che rileva nella fase delle trattative e di esecuzione del contratto: il negozio va interpretato secondo quello che potevano intendere due contraenti corretti e leali (buona fede intesa come obbligo di solidarietà che governa la discrezionalità contrattuale);
  3. per la Relazione al Codice, la buona fede rappresenta il punto di sutura tra l'interpretazione soggettiva e quella oggettiva, perché esprime un concetto di chiarezza e correttezza;
  4. per G. ALPA e BESSONE (teoria minoritaria), la buona fede interpretativa è uno strumento di controllo offerto al giudice allo scopo di dare un significato al contenuto negoziale e verificarne l'esigibilità in relazione a circostanze sopravvenute, per bilanciare la prestazione secondo l'economia interna al contratto, e per valutarne la razionale distribuzione dei rischi.

Tale teoria è criticata perché sovrappone la buona fede interpretativa alla buona fede in executivis, peraltro prevista in norme e contesti diversi (art. 1375).

  1. per la Cassazione, la buona fede ex art. 1366 è un criterio secondario (o meglio sussidiario), inutilizzabile ove la volontà negoziale risulti di per sé chiara attraverso l'interpretazione letterale, e corrisponde a regole oggettive di lealtà e correttezza, alla cui stregua si deve ricostruire la volontà delle parti, ma non al fine di giustificare una dilatazione della portata dei patti negoziali, con l'introduzione di diritti ed obblighi diversi da quelli pattuiti.

Distinzione tra interpretazione e integrazione modifica

L'interpretazione è una tecnica che non pone particolari problemi oltre a quello del fondamentale rispetto della cd. comune intenzione delle parti. (N.B. In tema di interpretazione del contratto, l'art. 1367 c.c. non impone di attribuire all'atto un significato tale da assicurare la sua più estesa applicazione, ma richiede soltanto, per il principio di conservazione, che il significato attribuitogli possa avere un qualche effetto).
L'integrazione è uno strumento che può servire per ampliare o restringere il contenuto delle clausole contrattuali, ma pone la questione della possibilità, per il giudice, di limitare l'autonomia negoziale modificando gli effetti del contratto.

L'integrazione in particolare modifica

L'integrazione ha funzione di completamento, in quanto serve ad ovviare a lacune emergenti dal testo contrattuale (al contrario dell'interpretazione, che ha la funzione di far affiorare elementi inespressi desumibili dal testo contrattuale). Per una parte della dottrina (SANTORO PASSARELLI), l'art. 1374 pone una gerarchia tra le diverse fonti del regolamento contrattuale, che vede al primo posto la volontà delle parti, seguita dalla legge, dagli usi e dall'equità (questi tre elementi opererebbero in funzione esclusivamente suppletiva, poiché il contratto è atto di autonomia privata e l'integrazione eteronoma non può mai porsi in contrasto con l'autoregolamento fissato in base al consenso).
Per le SS.UU. e la dottrina più recente, il 1374 opera esclusivamente in relazione a quelle conseguenze del contratto in ordine alle quali le parti non hanno espresso la loro volontà o l'abbiano espressa in modo lacunoso ed ambiguo.
In altre parole, l'art. 1374 attribuisce al contratto i cd. effetti extraconvenzionali, integrando gli effetti convenzionali in fase attuativa, se durante l'adempimento sorgono problemi non espressamente contemplati e regolati dalle parti. Non vi è un semplice obbligo delle parti di adeguarsi alle prescrizioni della legge, agli usi o all'equità: al contrario, queste prescrizioni concorrono direttamente a formare il contenuto del contratto o ad integrarlo laddove esso sia lacunoso.

N.B. L'integrazione ope legis non riguarda il diverso caso disciplinato dall'art. 1339: quest'ultimo sostituisce clausole negoziali volute dalle parti ma difformi dalla legge, mentre il 1374 integra una lacuna della volontà negoziale al fine di attribuirvi non già gli effetti derivanti dalla norma imperativa, bensì dalla pattuizione stessa.
Ad es. il venditore ha l'obbligo contrattuale di consegnare la cosa venduta (1476); anche nella risoluzione del contratto di vendita, l'acquirente è obbligato alla custodia della res fino al momento della riconsegna al venditore. In entrambi i casi, il tipo contrattuale (vendita) non prevede un espresso obbligo di custodia, ma questo può desumersi in via integrativa da altre disposizioni (art. 1476, 1206) che vanno a colmare l'eventuale lacuna nel regolamento negoziale lasciata dalle parti.

L'integrazione secondo gli usi modifica

Quelli normativi (ad es. usi del commercio internazionale: cd. lex mercatorum) sono ammissibili solo se integrano disposizioni di legge (secundum legem) dalle quali sono espressamente richiamati, si applicano sia se sono conosciuti sia se sono ignorati dalle parti, la loro violazione dà luogo a ricorso per Cassazione e possono essere derogati per volontà delle parti.
Quelli contrattuali si fondano sulla pratica commerciale, non richiedono espressa previsione normativa, possono derogare anche a norme di legge (praeter legem), la loro applicazione deve essere esclusa attraverso clausole espresse (altrimenti si intendono applicabili), e la loro violazione non dà luogo a ricorso per Cassazione.
Secondo parte della dottrina, solo gli usi normativi avrebbero funzione integrativa, mentre quelli contrattuali hanno mera funzione interpretativa, consistendo in pratiche negoziali cui espressamente rinviano le norme sull'interpretazione oggettiva (sarebbe inammissibile una loro vincolatività non imposta dalla legge e spesso non conosciuta dalle parti).
Dottrina più recente ritiene che anche gli usi negoziali siano vincolanti ai fini dell'integrazione, sebbene rappresentino una grave menomazione dell'autonomia contrattuale.
Per distinguere gli usi negoziali dagli usi normativi, si ritiene opportuno verificare:

  • se esiste una norma che espressamente li richiama (usi normativi, per i quali opera una presunzione di conoscenza nonché l'opinio necessitatis, cioè la convinzione di agire secondo legge),
  • o se la norma non disciplina la materia e rinvia all'uso per la sua integrazione (uso negoziale).

Gli usi negoziali regolano una fattispecie che la legge non disciplina in tutto o in parte: ecco perché spesso gli usi negoziali vengono recepiti nel testo contrattuale sotto forma di condizioni generali di contratto, soggette peraltro agli artt. 1340-1341 c.c. quando presentano natura di clausole vessatorie. Anche l'uso aziendale (natura negoziale) rileva sotto il profilo dell'integrazione del contratto, benché carente dei caratteri della generalità e dell'opinio juris seu necessitatis, a meno che non risulti che tale ricezione sia stata esclusa dalla volontà delle parti.
Si pensi agli appalti pubblici, regolati da leggi speciali o da capitolati generali con efficacia normativa, dove la «consegna dei lavori» all'appaltatore si configura come un obbligo della p.a., il cui inadempimento è pur sempre fonte di responsabilità contrattuale per l'Amministrazione, in quanto il dovere di collaborazione della stessa non cessa di essere contrattuale solo perché deriva dalla legge, essendo questa una delle fonti d'integrazione del contratto ex art. 1374 c.c.

L'integrazione secondo le condizioni generali di contratto modifica

Secondo alcuni, l'integrazione del contratto avviene anche ad opera delle condizioni generali, predisposte da uno solo dei contraenti per contrattazioni uniformi, quando queste siano inserite o esplicitamente richiamate nel contratto.

L'integrazione secondo buona fede modifica

Nell'integrazione del contratto vengono il rilievo la buona fede e l'equità.
La buona fede può trovare spazio qui solo nell'ipotesi in cui insorga una questione in ordine all'attuazione del rapporto: trattasi di buona fede in senso oggettivo, fondata sul principio di correttezza del comportamento, e consiste:

  1. nel dovere di salvaguardia, cioè di preservare l'utilità della prestazione. Si pensi al dovere di comunicare alla controparte (che si appresta ad eseguire la prestazione) circostanze o fatti che possono risultare difformi dagli interessi contrattuali e quindi porsi in contrasto con il perseguimento dell'interesse delle parti stesse;
  2. nel dovere di non frapporre ostacoli cavillosi e ostruzionistici per eludere l'esecuzione del contratto, ovvero nel dovere di sopportare un minimo sacrificio che valga però a salvaguardare l'interesse della controparte (esempio tipico è l'art. 1227, comma 2).

La buona fede integrativa ha un contenuto etico oggettivo, poiché prende in considerazione il comportamento dei contraenti e non il profilo dell'ignoranza di ledere l'altrui diritto.

L'integrazione secondo equità modifica

È l'ultimo dei criteri di integrazione degli effetti del contratto: di qui la sua funzione sussidiaria.
Molto discusso è il concetto di equità, soprattutto in giurisprudenza dove spesso si assume che l'equità consiste nel «deviare o deflettere dal diritto per mitigarne il rigore se applicato indiscriminatamente».
Equità dunque non significa arbitrio: la pronuncia di equità contiene necessariamente dei riferimenti espliciti o impliciti alla qualificazione giuridica dei fatti e delle loro conseguenze, e questi elementi di diritto costituiscono le fondamentali premesse logiche della decisione finale equitativa.
Il principio tendenziale cui si ispira l'equità è quello del contemperamento degli opposti interessi, tenendo conto cioè dell'effettiva utilità che ciascuno dei contraenti può ricavare dal contratto, in relazione al programma negoziale da essi preordinato.
Di conseguenza, l'equità è un modo particolare di formazione di regole a partire dal caso concreto: ad es. quando si tratta di ridurre l'eccessivo importo della clausola penale, il giudice deve tenere presente sia la volontà delle parti sia una valutazione di mercato.

L'interpretazione dei facta concludentia modifica

Il problema dei comportamenti concludenti si inquadra nell'àmbito delle dichiarazioni negoziali, che possono avere forma scritta, orale, gestuale, ecc. Si pone la questione se tali comportamenti abbiano sempre rilevanza negoziale o se al contrario vi siano ipotesi in cui questi non sono sorretti da una reale volontà di impegnarsi (v. ad es. l'inerzia che talora assume valenza contrattuale, ciò che per la dottrina è negazione del principio consensualistico).
L'opinione più accreditata ritiene che il negozio di attuazione sia ipotesi peculiare di volontà non esplicitamente dichiarata ma direttamente attuata.
La caratteristica precipua è data dal fatto che chi manifesta tale volontà non la indirizza ad altri: mancherebbe cioè la funzione partecipativa dell'atto (ad es. l'esecuzione del contratto che precede l'accettazione della proposta, l'esecuzione volontaria di testamento e donazione nulli, la convalida tacita attraverso l'esecuzione del negozio viziato, ecc.).
Manifestazioni tacite e comportamento concludente non sarebbero in regime di incompatibilità tra loro: il comportamento concludente si avrebbe nei casi (alcuni tipizzati dal legislatore) in cui il soggetto tiene un «comportamento non dichiarativo» che, per la sua univocità e concludenza, assume un rilievo significativo in quanto incompatibile con altra manifestazione di volontà negoziale.
Si pensi all'alienazione di beni ereditari, in ordine al quale si discute se ricorra:

  • un vero e proprio negozio di attuazione (per cui sarebbe ammissibile l'azione di riduzione, rileverebbero i vizi della volontà, ecc.)
  • ovvero un comportamento concludente (atto giuridico volontario ma privo di carattere negoziale, per cui eventuali vizi possono essere presi in considerazione solo per escludere la consapevolezza dell'atto, cioè per escludere che il soggetto sapesse di essere chiamato ad una successione già aperta).

Dottrina autorevole ritiene che, mancando la funzione partecipativa, per i negozi di attuazione e per i comportamenti concludenti eventuali vizi influiscono non sulla validità ma sull'esistenza stessa di tali atti, in quanto il vizio esclude in radice la consapevolezza dell'atto.
La dichiarazione tacita invece sarebbe pur sempre espressiva di una volontà manifestata, anche se tale manifestazione si realizza attraverso altro negozio giuridico (es. alienazione di beni ereditari che comporta accettazione da parte del chiamato) o attraverso un vero e proprio comportamento concludente.
Il silenzio di regola non ha un significato preciso e non è espressivo di alcuna volontà, tranne le ipotesi in cui il legislatore o le parti intendono attribuirgli un significato negoziale. Per queste ipotesi, si prospetta la fattispecie (mutuata dalla dottrina tedesca) del negozio per inavvertenza o trascuratezza, o quella dei comportamenti legali tipizzati (es. proroga tacita dei contratti di durata, accettazione tacita dell'eredità, ecc.), che negozi non sono ma lo diventano, in quanto il legislatore vi ricollega effetti vincolanti per l'autore a prescindere dalla sua reale volontà di impegnarsi (il comportamento tenuto in particolari circostanze viene dalla coscienza sociale considerato come impegnativo per esigenze di sicurezza dei traffici giuridici).
Per ragioni di certezza dei rapporti e di tutela dei terzi, si pongono in primo luogo problemi di identificazione e poi di interpretazione di una volontà negoziale espressa nelle forme suddette.
Le figure più discusse sono la destinazione del padre di famiglia, la distruzione dei beni ereditari, l'atto di adempimento. Si discute se l'atto di adempimento sia mero atto o negozio giuridico: il problema ha risvolti pratici, perché se si dice che l'adempimento è atto meramente esecutivo di impegni pregressi, non occorre la volontà di impegnarsi e non rilevano eventuali vizi della volontà dell'adempiente, e sono inapplicabili le norme sull'interpretazione dei contratti. Il soggetto deve realizzare quel comportamento, cui il legislatore ricollega determinati effetti, e non importa che lo realizzi in stato di capacità o di incapacità.
Non così, se invece si ritiene che l'adempimento è un negozio (ad es. nelle obbligazioni alternative o generiche, dove rileva una scelta discrezionale del debitore), in quanto la manifestazione di volontà è tesa a creare un vincolo: il debitore si vincola ad eseguire una delle prestazioni possibili. Poiché questa scelta potrebbe comportare nocumento nella sfera giuridica dell'autore, il legislatore si preoccupa di predisporre particolari cautele, richiedendo l'immunità da vizi della volontà, un certo attenuato formalismo, ecc.
La distruzione dei beni ereditari è equiparata all'accettazione dell'eredità, perché il legislatore ritiene irrilevante una diversa volontà di chi esegue l'atto (una parte della dottrina ravvisa una sorta di sanzione per il comportamento scorretto dell'erede).
La destinazione del padre di famiglia (art. 1062) è ritenuta un mero atto giuridico, con cui si acquista a titolo originario una servitù prediale.
Il meccanismo dell'acquisto opera quando un unico proprietario possiede due fondi limitrofi (di cui uno è intercluso dal secondo) e li vende separatamente: poiché la ratio della norma è quella di creare una situazione tale che, se i fondi fossero appartenuti a diversi proprietari sarebbe esistita una servitù a favore di uno dei due, l'atto di destinazione opera automaticamente, nel senso che il fondo intercluso è dominante rispetto all'altro su cui insiste la servitù (di passaggio, o di presa d'acqua, o altra servitù prediale), tranne il caso in cui nel contratto di alienazione vi sia apposita clausola (non necessariamente esplicita) che esclude la creazione della servitù.

Il principio di conservazione modifica

L'interpretazione del contratto va sempre fatta nel senso che il contratto possa produrre qualche effetto (art. 1367), ma il principio di conservazione opera pure a livello di integrazione, mantenendo l'efficacia del contratto ad es. attraverso la sostituzione di clausole difformi con norme imperative (art. 1339).
La conservazione a livello interpretativo opera attraverso la cd. conversione del negozio nullo: il negozio nullo è improduttivo di effetti in relazione al “tipo legale” prescelto dalle parti, ma può essere “convertito” in un altro negozio, con funzione più ristretta, purché: - abbia la medesima forma e sostanza di quello nullo;
- venga rispettato l'intento delle parti (si possa cioè ragionevolmente ritenere che le parti avrebbero voluto il secondo negozio, qualora avessero previsto la nullità del primo).
Si discute se si possa prescindere dalla ricerca dell'intento pratico delle parti per risalire alla volontà presunta del nuovo negozio.
Per la teoria volontaristica del negozio, la ricerca ermeneutica è indispensabile (interpretazione integrativa) per verificare l'ipotetica volontà di un nuovo negozio.
Per la teoria precettiva, tale ricerca è inutile, in quanto la legge (art. 1424) integra la volontà privata e consente la conversione del negozio nullo come tale (ma idoneo a produrre gli effetti di un diverso negozio) a prescindere dalla ricostruzione della volontà delle parti. Pertanto, la volontà delle parti non ha qui alcun rilievo, perché si deve tener conto solo della volontà della legge.
L'interpretazione in base alla quale si opera la conversione ha una portata riduttiva: si deve ricostruire la volontà delle parti per poter affermare che il negozio più ampio (ma nullo) si converte in un negozio più ridotto (ma valido ed efficace). È questa l'ipotesi della conversione sostanziale o propria (convenzionale).
La nullità può dipendere da qualsiasi causa, purché non si tratti di un caso di inesistenza del negozio (concezione ampia del concetto di nullità).
Dalla conversione propria va tenuta distinta la conversione legale, direttamente stabilita dalla legge in alcune ipotesi particolari, cioè quando si tratta di attribuire un'efficacia ridotta ad una clausola nulla (es. art. 629, 630, 1059, ecc.). Si ha poi la conversione formale o impropria quando un negozio non ha i requisiti di forma previsti dalla legge ma può produrre i propri effetti rientrando in uno schema negoziale del quale ha i requisiti formali. Ad es. può esservi conversione del testamento pubblico in testamento olografo quando manca l'autentica della firma da parte del notaio.
Per SANTORO PASSARELLI, la conversione formale non rientra nella tecnica della conversione vera e propria, essendo solo un problema di forma e non di contenuto più o meno ridotto.
Si pensi all'ipotesi della cd. trascrizione sanante (art. 2657 nn. 6 e 7): il terzo avente causa da un contratto nullo può conservare il suo acquisto in base alla trascrizione dell'atto nullo e alla buona fede.