Classico Latino: Cicerone filosofo (superiori)

Marco Tullio Cicerone nasce nel 106 a.C. ad Arpino, da famiglia equestre. Studia retorica e filosofia a Roma, e inizia a frequentare il foro. Nell'81 a.C. debutta come oratore forense. Nell'80 a.C. difende la causa di Sesto Roscio entrando in conflitto con sostenitori del regime sillano. Tra il 79 a.C. e il 77 a.C. compie un viaggio in Grecia e in Asia dove studia filosofia e retorica. Al ritorno sposa Terenzia, dalla quale gli nascono Tullia e Marco. Nel 75 a.C. è questore in Sicilia. Nel 70 a.C. sostiene l'accusa dei siciliani contro l'ex governatore Verre, e si conquista fama di oratore principe. Nel 69 a. C è edile. Nel 66 a.C. pretore e dà il suo appoggio alla proposta di concedere a Pompeo poteri eccezionali per la lotta contro il re del Ponto Mitridate. Nel 63 è console e reprime la “congiura” di Catilina. Dopo la formazione del primo triumvirato la sua fama inizia a declinare. Nel 58 a.C. deve recarsi in esilio con l'accusa di avere messo a morte senza processo i complici di Catilina e la sua casa viene rasa al suolo. Richiamato a Roma, vi torna trionfalmente nel 57 a.C.. Fra il 56 a.C. e il 51 a.C. tenta di collaborazione con i triumviri, e continua a svolgere attività forense. Compone il De oratore, il De re publica, e inizia a lavorare al De legibus. Nel 51 a.C. è governatore in Cilicia. Allo scoppio della guerra civile, nel 49 a.C., si schiera con Pompeo. Si reca in Epiro con gli altri senatori, ma non è presente alla battaglia di Farselo. Dopo la sconfitta di Pompeo ottiene il perdono di Cesare. Nel 46 a.C. scrive il Brutus e l'Orator. Divorzia da Terenzia e si unisce in matrimonio con la sua giovane pupilla Publilia, dalla quale divorzierà dopo pochi mesi. Nel 45 a.C. muore la figlia Tullia. Inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tiene lontano dagli affari pubblici. Nel 44 a.C., dopo l'uccisione di Cesare, torna alla vita politica; inizia, dalla fine dell'estate, la lotta contro Antonio con le Filippiche. Dopo essere stato abbandonato da Ottaviano, che si stringe in triumvirato con Antonio e Lepido, il nome di Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio il 7 dicembre del 43 a.C..

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Classico Latino: Cicerone filosofo (superiori)
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Busto di Cicerone presso i Musei Capitolini

De Officiis

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Il De officiis di Marco Tullio Cicerone. Frontespizio di un'edizione a stampa Christopher Froschouer del 1560

Il De officiis (lat. Sui doveri) è un'opera politico-filosofica di Cicerone che tratta dei doveri a cui ogni uomo deve attenersi in quanto membro dello stato. Il titolo, carico di valenze politiche, risponde alla volontà di indicare l'azione adeguata a un determinato ruolo e fa riferimento in generale agli atteggiamenti della vita pratica. L'officium di Cicerone, pur avendo un fondamento filosofico, è un concetto prettamente politico; in una lettera ad Attico, infatti, l'autore scrive:

«Perché dubiti che il termine si attagli perfettamente anche alla vita pubblica? Non parliamo forse di officium dei consoli, del senato, di un generale?»

(M. T. Cicerone, I doveri)

Composta in breve tempo, dall'ottobre al dicembre del 44 a.C., durante gli spostamenti tra Roma, Pozzuoli e Arpino causati dalla lotta contro Marco Antonio, è stata la sua ultima opera, strutturata come un trattato di etica pratica legata all'azione politico-sociale. Paolo Fedeli ricorda che l'intento di Cicerone era anche quello di esprimere la convinzione in merito alla migliore educazione e formazione del modello ideale di aristocratico. Pensato per contribuire alla formazione filosofica e all'educazione politica del figlio Marco, il trattato mira nello specifico, in un momento cruciale per la repubblica, a trasmettere gli ideali della morale tradizionale ai ceti "emergenti", ovvero alle fasce dell'ordine equestre e ai ceti possidenti italici, al fine di amalgamarli all'aristocrazia romana e di farli diventare il nuovo ceto dirigente.

«Tutto ciò significa che il processo di integrazione degli homines novi deve essere sapientemente pilotato dai membri della élite»

(M. T. Cicerone, I doveri)

Fonti

Fonte principale del De officiis è il trattato Sul conveniente, perì toù kathèkontos (Περί τοũ καθήκοντος) dello stoico Panezio di Rodi; altre fonti potrebbero essere, come ipotizza Quintino Cataudella, Isocrate e l'Anonimo di Giamblico.

L'opera di Panezio, di cui ci sono pervenuti pochi frammenti, è da Cicerone corretta, ridotta, ripresa nell'impianto; l'originalità ciceroniana sta nell'avervi aggiunto esempi romani, oltre ai riferimenti alla sua esperienza politica personale. A Panezio viene rimproverato di aver trascurato il conflitto fra utile e onesto, che sarà pertanto oggetto del terzo libro di Cicerone, affrontato quindi in piena autonomia.

Contenuti

L'opera è divisa in tre libri: il primo tratta il concetto dell'honestum (bene morale) in relazione al quale si stabiliscono i doveri, ossia i comportamenti moralmente validi e che si sviluppa in quattro virtù fondamentali (sapienza, giustizia, fortezza e temperanza); il secondo tratta l'utile, dove i doveri stabiliti in base a questo criterio sono gli stessi del precedente libro; infine il terzo ed ultimo libro tratta del conflitto tra utile ed onesto.

Libro I

Dopo il proemio con la dedica dell'opera al figlio Marco e l'esplicita dichiarazione di dipendenza dalla filosofia stoica da parte dell'autore, viene definito il concetto di officium: Cicerone distingue tra dovere perfetto (o azione retta), e dovere medio (o azione conveniente, adeguata). Questa tipologia di dovere sarà oggetto del trattato. L'essenza dell'officium viene indagata riflettendo sul concetto di honestum, ciò che è moralmente buono e che consiste nel vivere secondo le attitudini poste in noi dalla natura. Segue infatti un excursus sugli istinti fondamentali della natura umana (socievolezza, ricerca della verità, preminenza sugli altri uomini e sulle cose, armonia) e sulle quattro parti dell' honestum che da essi scaturiscono: le virtù della sapienza, della giustizia, della fortezza e della temperanza. Alla breve trattazione della sapientia, ovvero la cognizione del vero, segue un'ampia discussione sulla iustitia, che consiste nel non nuocere a nessuno se non si è ricevuta ingiuria e nell'adoperare i beni comuni come comuni e quelli privati come propri; viene quindi chiarito il concetto di beneficientia, cioè della liberalità, che si manifesta nel mettere a disposizione le qualità e gli averi personali del singolo per il benessere della comunità, facendo tuttavia attenzione a non privare alcuni dei propri possedimenti per il profitto di altri. Se, infatti, l'ingiustizia per omissione consiste nel trascurare i propri doveri verso gli altri e la società, l'ingiustizia attiva si manifesta nell'aggressione ai diritti, agli averi e alla vita altrui.

È poi la volta dell'analisi della magnitudo animi che si rivela nell'intraprendere azioni grandi e utili alla collettività senza cedere a pericoli e fatiche, resistendo ai turbamenti d'animo e preferendo al prestigio personale la vera gloria che scaturisce dal servizio in favore della patria. È esaminata infine l'ultima parte dell'honestum, la temperantia, ovvero la padronanza sui moti dell'animo e la giusta misura di ogni cosa, un decoro morale, insomma, che si rispecchi anche negli atteggiamenti del corpo e nelle abitudini esteriori. Il libro si conclude con la comparazione tra le virtù tenendo conto dei relativi doveri: al primo posto si collocano quelli attinenti alla conservazione dello stato; in talune circostanze, tuttavia, gli officia derivanti dalla temperantia sono da preferire perché vi sono azioni così turpi da non poter essere commesse neanche per salvare la patria.

Libro II

Nel proemio Cicerone dice al figlio Marco di voler trattare «dei doveri che riguardano le comodità della vita, la facoltà di poter disporre di quei beni di cui gli uomini fanno uso, la potenza e la ricchezza»

Espone i motivi per cui ha deciso di dedicarsi alla filosofia (fondamentalmente qui si scaglia contro Gaio Giulio Cesare, che lo aveva privato di consilium e auctoritas, le tradizionali prerogative dei membri più influenti dell'ordine senatorio).

Comincia la trattazione dell'utile: riconosce l'importanza della cooperazione, giacché le azioni grandi e giovevoli possono essere compiute solo attraverso l'aiuto reciproco degli uomini. Afferma pertanto che il compito della virtù è di «unire gli uomini fra loro e trarli a favorire il proprio vantaggio […] sono invece la saggezza e la virtù delle personalità eminenti a stimolare lo zelo e degli altri uomini». Vana è la speranza di essere amati se si è temuti: si rischia addirittura di cadere in sciagura.

Ricorda poi il comportamento tenuto da Lucio Cornelio Silla in occasione della guerra civile (proscrisse senatori e cavalieri, mentre diede la cittadinanza romana a migliaia di schiavi a lui devoti) e da Cesare, che «confiscò i beni dei singoli cittadini ma ridusse al medesimo stato di miseria tutte le provincie e tutte le regioni».

Così come la cooperazione e l'essere amati, altrettanto importante è la gloria, nel momento in cui si conducono le più importanti imprese; per conseguirla occorre adempiere ai doveri della giustizia.

Spiega allora come ottenere la benevolenza (con i benefici, con la buona intenzione, con la liberalità, con la giustizia, con la lealtà, con l'essere considerati giusti e avveduti).

Si sofferma in seguito a elencare le differenze tra uomini celebri e appartenenti a grandi famiglie e gli homines novi: i primi saranno conosciuti sin dalla nascita, e le loro azioni verranno continuamente monitorate da tutti, i secondi, invece, avranno bisogno di compiere grandi azioni per emergere.

Passa poi in rassegna i tipi di donatori, prodighi e liberali: «gli uni sperperano il loro denaro in banchetti e distribuzioni di carne, in spettacoli di gladiatori, in giochi e cacce […]; gli altri invece sono quelli che con le loro ricchezze riscattano i prigionieri dai predoni, o si addossano i debiti degli amici, li aiutano nel collocare le figlie, nel procurarsi un po' di sostanze o ad accrescerle» e conclude dicendo che è necessario evitare il sospetto di avarizia. Il II libro si conclude col «Confronto fra due cose utili».

Libro III

Cicerone inizia il terzo libro del De officiis confrontando la propria condizione con quella di Publio Cornelio Scipione, in particolare confrontando l'otium di quest'ultimo, che era volontario, col suo, che era obbligato dalle circostanze. Successivamente Cicerone rileva l'assenza della comparatio fra honestum e utile nella trattazione di Panezio, argomento per lui fondamentale e di cui tratterà. Honestum e utile sono, nel pensiero ciceroniano, strettamente interdipendenti, tanto che sembrerebbe quasi inutile compararli, sottintendendo così facendo una non corretta disgiunzione fra i due termini.

Infatti, mentre i due termini sembrano chiari in generale, nelle circostanze della vita, possono esserci numerosi dubbi e errori. Cicerone intende trattare di diverse virtù, ovvero la iustitia, la prudentia, la magnitudo e la modestia, anche se in realtà tratterà essenzialmente delle prime due. Danneggiare gli altri per utilità propria è contro natura poiché distrugge la società, e lo stesso è confermato dalle leggi, che tendono alla conservazione della società.

È secondo natura invece seguire la virtù, che è utile all'intera comunità. È secondo natura inoltre aiutare tutti, non solo i propri familiari o i propri concittadini, ma anche gli stranieri, affinché la società umana non venga distrutta. Spesso siamo abbagliati e attratti non dal vero utile ma solo da un'apparenza di esso; egli dunque consiglia di rinunciare all'utile nel caso in cui vi sia in esso anche solo un dubbio di turpitudo.

Fra l'utilità personale e quella dello stato bisogna sempre preferire la seconda. Il discorso a proposito della iustitia si conclude con la differenza fra le leggi della natura, che sono proprie dei filosofi e che si impongono tramite la ragione, e le leggi dei popoli, che invece si impongono tramite la forza. Cicerone afferma che spesso sembra più utile perseguire il proprio interesse, commettendo un'ingiustizia che appare poco grave ai nostri occhi, ma in realtà è meglio rinunciare a quel vantaggio piuttosto che perdere il nome di bonus vir. Cicerone parla in seguito del rapporto con gli altri popoli e dei doveri verso tutti gli uomini; tratta inoltre del dovere di rispettare patti e promesse e di agire in buona fede. La presente trattazione della prudentia manca di una conclusione finale. La magnitudo è per Cicerone la maggiore caratteristica dell'uomo saggio. Dopo l'esempio in negativo di Ulisse, che volle evitare di partire per Troia tramite una finzione, venendo meno ai patti, segue l'esempio in positivo di Marco Atilio Regolo. Cicerone conclude con una constatazione della degradazione morale dei suoi tempi: il comportamento degli uomini del passato sembra eccezionale, a suo dire, nel periodo in cui egli vive, ma in passato simili comportamenti equivalevano all'ordinarietà. La trattazione della modestia viene completamente trascurata da Cicerone, che si limita a dimostrare come gli epicurei vadano contrastati in ogni modo. Loro infatti, a dire di Cicerone, pongono la voluptas al di sopra di tutto, intaccando così tutte le più importanti virtù.

Non può esservi per Cicerone mai nessun contatto fra honestum e voluptas. L'opera si conclude con un saluto al figlio Marco e con la necessità per l'autore di tornare a Roma interrompendo il viaggio ad Atene, e mettendo così il bene della patria prima del proprio interesse.

Riferimenti politici dell'opera

Cicerone polemizza contro le leggi agrarie dei Gracchi: quella di Tiberio Sempronio Gracco, che mirava a liberare l'ager publicus dall'occupazione illegale dei privati, è considerata da Cicerone un pericolo per la stabilità dei rapporti sociali e un tentativo di acquisire consenso da parte del proletariato militare e della plebe urbana. Cicerone condanna anche la legge frumentaria di Gaio Sempronio Gracco: questa legge prevedeva la distribuzione gratuita di grano alla popolazione ed egli la addita come causa dello svuotamento dell'erario, anche se questa era la motivazione solitamente usata dagli optimates per contrastare una spesa pubblica non gradita. Inoltre Cicerone condanna la politica dei populares che solleticano i piaceri del popolo in questo modo, abituando loro a nutrirsi senza fatica; nella Pro Sestio 103, si legge infatti: «con simili disposizioni la plebe veniva distolta dall'operosità e resa incline alla pigrizia, e il tesoro pubblico si svuotava».

Parimenti alle leggi agrarie dei Gracchi, le confische di Silla prima e di Cesare poi, sono dunque da ritenersi ingiuste. Infatti nel libro I Cicerone afferma che: «Lucio Silla e Giulio Cesare, che tolsero i beni ai legittimi proprietari per assegnarli ad altri, non devono essere considerati liberali: nulla infatti vi è di liberale, se non è nello stesso tempo giusto».

Nel De officiis, Cesare, continuamente presente nello sfondo dell'opera, è ritratto come un essere quasi mostruoso; la sua ascesa al potere è il risultato della simulatio e della contraffazione. Assetato della cupiditas gloriae, ha sovvertito tutte le leggi divine e umane. Questo infatti è il motivo per cui l'uccisione di Cesare, in quanto tiranno, non solo è giustificata ma degna di lode; nel terzo libro c'è un esplicito riferimento all'uccisione di Cesare da parte di Bruto: «Quale delitto più grande di uccidere non solo un uomo, ma anche un amico? Ma si macchia forse di delitto chi ha ucciso un tiranno, anche se suo amico? Non sembra così al popolo romano, che fra tante belle azioni giudica questa la più bella».

Tuttavia, eliminato il tiranno col cesaricidio, a Roma - scrive Cicerone ad Attico - persiste ancora la tirannide, incarnata dalla figura di Antonio. Quest'ultimo, attaccato esplicitamente nelle Filippiche, è nel De officiis oggetto di critiche indirette, quali un possibile riferimento all'acquisto dei beni di Pompeo oppure alla falsificazione del testamento di Cesare da parte sua. Nel terzo libro si legge: «Supponiamo che un uomo per bene abbia il potere di inserire il suo nome nel testamento dei ricchi con un semplice schiocco di dita: non dovrebbe valersi di questo potere, neanche se fosse del tutto sicuro che nessuno mai lo venisse a sapere. […] Ma un uomo giusto, quello che noi intendiamo per uomo per bene, non sottrarrebbe nulla ad altri, per appropriarsene lui.».

Eredità

L'eredità dell'opera è enorme. Nonostante non fosse un'opera Cristianesimo, Sant'Ambrogio, nel 390, ne dichiarò legittimo l'uso per i cristiani, così come ogni altra opera di Cicerone o del filosofo Seneca il Giovane, popolare in ugual misura. Durante il Medioevo il saggio assunse autorità morale: molti dei padri della Chiesa, sia Agostino di Ippona che San Girolamo che, ancor di più, Tommaso d'Aquino, ebbero familiarità con questo scritto.

Ad illustrarne l'importanza vi sono una moltitudine di copie amanuensi, sopravvissute nelle biblioteche di tutto il mondo, risalenti a prima dell'invenzione della stampa. Solo il grammatico latino Prisciano è meglio attestato, con le sue circa 900 copie amanuensi ancora esistenti. Dopo l'invenzione della stampa, il De officiis fu il secondo libro a essere stampato, preceduto solo dalla Bibbia di Gutenberg.

La natura razionale dell'uomo (I, 4, 11-14)

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A tutti gli esseri animati la natura gli ha dato l'istinto di conservazione. All'uomo gli ha concesso anche la ragione che gli consente di cogliere il senso del presente e di stabilire connessioni con il passato e il futuro permettendo tutti gli uomini di costruire la propria vita. Ma la ragione ha fatto di più permettendo lo sviluppo della lingua che ha permesso la comunicazione e la socializzazione e che è stata la base per la creazione di una vita sempre più civile e ingenerando proprio nell'uomo il bisogno alla partecipazione della vita sociale. L'uomo grazie alla razionalità non si è limitato solo a cercare i mezzi per soddisfare bisogni materiali ma anche conoscere i fenomeni naturali palesi e occulti. E questo gli ha permesso di fruire consapevolezza delle bellezze e delle armonie del reale, cose vietate agli altri esseri viventi. Queste conoscenze hanno ingenerato in lui anche il senso morale che gli permette di fare cose senza recar danno agli altri anzi aiutandoli ed essendo per loro utili. Di queste cose è costituito l'onesto che è una categoria del vivere comune di per sé, cioè per natura, degna di lode.

Testo in Latino

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11. Principio generi animantium omni est a natura tributum, ut se, vitam corpusque tueatur, declinet ea, quae nocitura videantur, omniaque, quae sint ad vivendum necessaria anquirat et paret, ut pastum, ut latibula, ut alia generis eiusdem. Commune item animantium omnium est coniunctionis appetitus procreandi causa et cura quaedam eorum, quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc maxime interest, quod haec tantum, quantum sensu movetur, ad id solum, quod adest quodque praesens est se accommodat, paulum admodum sentiens praeteritum aut futurum. Homo autem, quod rationis est particeps, per quam consequentia cernit, causas rerum videt earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras, facile totius vitae cursum videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.

12. Eademque natura vi rationis hominem conciliat homini et ad orationis et ad vitae societatem ingeneratque inprimis praecipuum quendam amorem in eos, qui procreati sunt impellitque, ut hominum coetus et celebrationes et esse et a se obiri velit ob easque causas studeat parare ea, quae suppeditent ad cultum et ad victum, nec sibi soli, sed coniugi, liberis, ceterisque, quos caros habeat tuerique debeat, quae cura exsuscitat etiam animos et maiores ad rem gerendam facit. 13. Inprimisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio. Itaque cum sumus necessariis negotiis curisque vacui, tum avemus aliquid videre, audire, addiscere cognitionemque rerum aut occultarum aut admirabilium ad beate vivendum necessariam ducimus. Ex quo intellegitur, quod verum, simplex sincerumque sit, id esse naturae hominis aptissimum. Huic veri videndi cupiditati adiuncta est appetitio quaedam principatus, ut nemini parere animus bene informatus a natura velit nisi praecipienti aut docenti aut utilitatis causa iuste et legitime imperanti; ex quo magnitudo animi existit humanarumque rerum contemptio. 14. Nec vero illa parva vis naturae est rationisque, quod unum hoc animal sentit, quid sit ordo, quid sit quod deceat, in factis dictisque qui modus. taque eorum ipsorum, quae aspectu sentiuntur, nullum aliud animal pulchritudinem, venustatem, convenientiam partium sentit; quam similitudinem natura ratioque ab oculis ad animum transferens multo etiam magis pulchritudinem, constantiam, ordinem in consiliis factisque conservandam putat cavetque ne quid indecore effeminateve faciat, tum in omnibus et opinionibus et factis ne quid libidinose aut faciat aut cogitet. Quibus ex rebus conflatur et efficitur id, quod quaerimus, honestum, quod etiamsi nobilitatum non sit, tamen honestum sit, quodque vere dicimus, etiamsi a nullo laudetur, natura esse laudabile.

Traduzione in Italiano

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11. Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l'istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il ricovero, e altre cose dello stesso genere. Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell'accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole. Ma tra l'uomo e la bestia c'è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l'uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l'uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla.

12. Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in una comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e comunità umane, e sollecita le sue energie a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e al miglioramento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione. Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione. 13. Ma soprattutto è propria esclusivamente dell'uomo l'accurata e laboriosa ricerca del vero. Ecco perché, quando siamo liberi dalle occupazioni e dalle ansie inevitabili della vita, allora ci prende il desiderio di vedere, di udire, d'imparare, e siamo convinti che il conoscere i segreti e le meraviglie della natura è la via necessaria per giungere alla felicità. E di qui ben si comprende come nulla sia più adatto alla natura umana di ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero. A questo desiderio di contemplare la verità, va unita un certo desiderio d'indipendenza spirituale, per cui un animo ben formato per natura non è disposto ad obbedire ad alcuno, se non a chi lo educhi e lo ammaestri, oppure, nel suo interesse, con giusta e legittima autorità gli dia degli ordini. Di qui sorge la grandezza d'animo, di qui il disprezzo delle cose umane. 14. E non è davvero piccolo pregio della natura razionale il fatto che l'uomo, unico fra tutti gli esseri viventi, senta quale sia il valore dell'ordine, del lecito e della misura nelle azioni e nelle parole. Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto il senso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l'armonia; solo la natura razionale dell'uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagli occhi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l'ordine si debbano conservare nei pensieri e nelle azioni; e mentre essa si guarda dal commettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell'uomo, bada anche, in ogni pensiero e in ogni azione, che non faccia e non pensi nulla obbedendo al capriccio. Ora, dall'intrinseca unione di questi quattro elementi è formato quello che andiamo cercando, cioè ciò che è onesto, il quale, anche se non gode di molta fama tra gli uomini, non cessa pertanto d'essere onesto; e anche se nessuno lo loda, noi diciamo a ragione che questo, per sua natura, è ben degno di lode.

Analisi del Testo

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11.

Principio: Formula con cui si inizia la serie di argomenti da trattare.

Vitam corpusque: Endiadi entrambi esplicativi di se.

Principio... paret: Periodo abbastanza complesso con una dipendente declinet ea (quae... videantur) e l'altra da omniaque... anquirat et paret (quae sint...) che amplia simmetricamente i concetti riguardanti le cose da rifiutare e quelle da ricercare.

Ut pastum... eiusdem: Sono elencate le cose ricercate da tutti gli essere animati. Ut "come".

Commune: È neutro "è cosa comune".

Procreandi causa: Costrutto (causa + genitivo del gerundio) esprime la cosiddetta causa finale.

Quaedam: Ha valore attenuato.

Eorum, quae procreata sint: Perifrasi per indicare "prole".

Hoc maxime interest: "C'è una grandissima differenza".

Quod: Introduce due proposizioni esplicativo-dichiarative che spiegano la differenza tra uomo e bestia.

Quod... se accomodat: È la prima di due proposizione esplicativo-dichiarative.

Adest... praesens: Notare la varatio cui Cicerone è stato costretto dal fatto che adsum non ha la forma principale.

Praeteritum aut futurum: Il singolare, in luogo del più comune plurale, è dovuto al parallelismo istituito con il precedente singolare id... quod.

Homo... videt: È la seconda proposizione esplicativo-dichiarativa retta anche essa dal precedente quod (hoc maxime interest, quod) coordinata a haec... se accommodat.

Autem: Ha valore fortemente avversativo.

Quod... particeps: Proposizione causale inclusiva come anche la relativa per quam... cernit il che genera una struttura sintattica ad incastro.

Causa rerum: Cicerone allude alle cause immediate delle cose mentre le più remote sono specificate subito dopo.

Antecessiones: Il termine riferito al movimento degli astri è piuttosto raro ed è attenuato da quasi.

Similitudine comparat: I due termini sono sinonimi si traduce "istituisce confronti".

Rebusque... futuras: "Collega intimamente le cose future alle presenti" notare le endiadi adiungit atque adnectit che rendono ridondante la frase dato che Cicerone per obbedire a risonanze interne usa il ritmo binario.

Homo... necessarias: Notare struttura paratattica tipiaca del carattere enumerativo delcrittura. Da notare inoltre come i verbi cernit e videt disegnano bene un uomo immerso nella sua realtà pronto a scrutarla e a comprenderla.

12.

Eadem... natura: Serve a marcare con forza che per una vita umana migliore di quella delle bestie concorre in modo determinante la "natura razionale" dell'uomo che ha ingenerato in lui la consapevolezza delle sue azioni e l'orientamento nello spazio e nel tempo.

Ad... societatem: Complemento di fine. La ripetizione di ad serve ad accentuare ed isolare nel loro specifico significato sia il linguaggio che la vita comune su cui si basa l'esistenza degli individui.

Praecipuum... amorem: Notare la differenza con la precedente espressione riferita agli animali: cura quaedam.

In eos, qui procreati sunt: La stessa perifrasi che abbiamo incontrato nel paragrafo precedente.

Impellitque: Il verbo regge due proposizioni consecutivo-finali introdotte da ut (velit e studeat).

Coetus et celebrationes: Il primo termine indica adunanze casuali di persone. Il secondo riunioni organizzate. L'uomo deve frequentare le une e le altre per una partecipazione piena ed effettiva alla vita delle società.

Ad cultum et ad victum: La disposizioni delle parole genera un hysteron proteron. Notare che il primo termine indica un modo di vivere civile e raffinato, il secondo i mezzi necessari per soddisfare i bisogni materiali. È comunque un endiade.

Sibi soli... coniugi... liberis ceterisque: Dativo di vantaggio retti da parare.

Caros: Predicativo di quos.

13.

Hominis: Genitivo di pertinenza.

Inquisitio atque investigatio: Endiadi.

Cum... tum: Sono in stretta correlazione temporale.

Necessariis: Indica le attività e le occupazioni quotidiane cui l'uomo per provvedere al mantenimento suo e dei famigliari non può sottrarsi.

Avemus: Indica desiderio ardente di qualcosa.

Aliquid: Si può omettere nella traduzione in quanto i verbi da soli hanno già in sé una connotazione dell'indefinito.

Videre, audire, addiscere, cognitionem: I primi due segni indicano percezioni sensoriali indispensabili alla conoscenza. Il terzo indica la conoscenza progressiva del mondo grazie all'esperienze di cose nuove. Il quarto in evidente varatio rispetto ai primi tre che sono segni verbali, indica appunto la conoscenza di fatti segreti o prodigiosi, cioè una conoscenza, par di capire, che va oltre il sensibile. La disposizione degli elementi, in una sorta di climax ascendente, sembra voler significare e delineare gradi diversi del processo di conoscenza.

Ad beate vivendum: Proprosizione finale.

Ex quo... intellegitur: "Da ciò si comprende" regge l'infinito id esse.

Quod: La solita prolessi del relativo che anticipa id.

Ut... velit: Proposizione consecutiva.

Ex quo: "Di qui".

Exsistit: "Nasce".

14.

Illa: Prolettico di quod... modus.

Quod: Ha valore cuasale-dichiarativo.

Sentit: Regge interrogative indirette a) quid sit ordo, b) quid sit a sua volta reggente dell'inclusiva relativa quod deceat con il verbo al congiuntivo per attrazione modale c) qui modus (sit).

Itaque: Et ita.

Eorum ipsorum: Cicerone vuole evidenziare il possesso della vista da parte degli animali e nel contempo la loro incapacità a fruire della bellezza delle cose.

Quam similitudinem... cogit: Ordinare natura ratioque, transferens similitudinem quarum ab oculis ad animum, multo magis putat pulchritudinem, constantiam, ordinem conservandam (esse) etiam in consiliis factisque, et cavet ne faciat quid indecore effeminateve, tum (cavet) ne aut faciat aut cogitet quid lubidinose in omnibus et opinionibus et facis. Ma pur essendo natura ratioque il soggetto di putat e di cavet è più preferibile pensare che sia "uomo" in modo che c'è una maggiore coerenza con il messaggio di testo. Quindi si può tradurre "poiché la natura razionale trasferisce per analogia l'impressione di queste (proprietà) dagli occhi alla mente, (l'uomo) ancora di più è portato a ritenere (putat) che la bellezza, l'armonia e l'ordine si debbano serbare anche nei pensieri e nei fatti, e si guarda dal commettere azioni indecorose o effemminate (quid indecore effeminateve), come pure si guarda (tum cavet) dall'agire e dal pensare sregolatamente in ogni suo pensiero e azione".

Ab oculis ad animum: Cioè dal sensibile all'intellegibile.

In conciliis factisque: Richiama in factis dictisque.

Conservandam: Sott. esse è concorato al femminile non soltanto con pulchritudinem e constantiam ma anche a senso con ordinem.

Cavet: Regge la due finali negative ne faciat e aut faciat aut cogitet.

Quid... quid: Stanno per aliquid come norma dopo ne.

Tum: Ha valore aggiuntivo.

Opinionibus et factis: Ancora una variazione lessicale rispetto alle coppie precedenti.

Quibus... laudabile: "Di tutte queste cose si compone si forma quell'onesto che stiamo indagando, il quale, anche se non sia pubblicamente esaltato, tuttavia è onesto, e di esso diciamo secondo verità che è di per sé (natura) degno di lode, anche se non è lodato da nessuno". Il periodo sembra molto complesso ma ha una struttura elegante e chiara. Dalla principale (Quibus ex rebus conflatur) e dalla sua coordinata (et efficitur id... honestum) dipende la relativa (quod quaerimus) posta ad incastro nella coordinata per collegare direttamente ad honestum alla realtiva quod... tamen honestum sit. Ad incastro nella relativa è stata sistemata una proposizione concessiva (etiamsi nobilitatum non sit). Segue una relativa oggettiva (quod vere dicimus... natura esse laudabile) ed un'altra concessiva (etiamsi a nullo laudetur).

Natura esse laudabile: Che l'onesto fosse degno di lode per natura era sostenuto dagli stoici. Da notare le caratteristiche stilistiche con le espressioni binarie (in factis dictisque - in consiliis factisque - opinionibus et factis) e in ritmo ternario (ordo, quod deceat, modus - pulchritudinem, venustatem, convenientiam paritium - pulchritudinem, constantiam, ordinem) che con il loro ripetersi da un lato mostrano l'enfatizzazione data dall'autore e dall'altro la ricchezza espressiva di Cicerone che come si è notato altrove dispone di un lessico molto ampio anche a livello sinonimico.

L'utile individuale e l'utile collettivo (III, 6, 26-32)

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Cicerone affronta il problema del rapporto tra l'utilità del singolo e quella della comunità umana. Egli parla di legge morale per la quale ogni uomo deve perseguire il bene comune senza far male agli altri Questa legge fa parte del patrimonio etico-filosofico degli Stoici e non può essere infranto. Di qui Cicerone richiama al loro dovere chi ritiene che devono comportarsi secondo la legge morale solo con i propri familiari e di poter comportarsi in modo opposto con gli altri cittadini. Il comportamento di questi non fa altro che dissolvere ogni associazione umana. Vi sono altri che rispettano solo i concittadini ma non i forestieri e questi non solo distruggono la società umana ma peccano anche di empietà verso gli edi che tale società hanno voluto. Fin qui il discorso di Cicerone verte sostanzialmente sulla giustizia che egli definisce omnium... domina et regina virtutum. Nei paragrafi 29-32 però il discorso si fa più stringente perché permeato di fatti concreti. L'autore si chiede: a) se è giusto che un saggio pur di non morire di fame tolga il cibo ad un uomo inetto e buono a nulla; b) se è giusto che un uomo che muoia di freddo spogli dell'abito Falaride, famigerato tiranno di Agrigento. Cicerone per la prima questione risponde che chiunque toglie qualcosa ad un altro commette un'azione inumana e contro la legge di natura, a meno che non si tratti di un indigente che attraverso quell'esproprio possa rimanere in vita recando giovamento allo stato e alla società. Altrimenti è giusto che ognuno supporti la sua condizione e la sua sventura senza recar danno ad altri. Per Cicerone, come è chiaro, l'unica utilità è quella comune. Ma in questi concetti si può vedere anche la sua posizione conservativa tendente a salvaguardare gli interessi dei ceti dominanti. Per quanto riguarda Falaride, Cicerone sostiene che spogliare dei suo beni e uccidere un tiranno non costituisce mai un'azione contro natura in quanto un tiranno appartiene ad una genia che va contro il genere umano e che è meglio eliminare per evitare che nuoccia ai cittadini.

Testo in Latino

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26. Ergo unum debet esse omnibus propositum, ut eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum; quam si ad se quisque rapiet, dissolvetur omnis humana consortio.

27. Atque etiam si hoc natura praescribit, ut homo homini, quicumque sit, ob eam ipsam causam, quod is homo sit, consultum velit, necesse est secundum eandem naturam omnium utilitatem esse communem. Quod si ita est, una continemur omnes et eadem lege naturae, idque ipsum si ita est, certe violare alterum naturae lege prohibemur. Verum autem primum, verum igitur extremum. 28. Nam illud quidem absurdum est, quod quidam dicunt, parenti se aut fratri nihil detracturos sui commodi causa, aliam rationem esse civium reliquorum. Hi sibi nihil iuris, nullam societatem communis utilitatis causa statuunt esse cum civibus quae sententia omnem societatem distrahit civitatis. Qui autem civium rationem dicunt habendam, externorum negant, ii dirimunt communem humani generis societatem; qua sublata beneficentia, liberalitas, bonitas, iustitia funditus tollitur; quae qui tollunt, etiam adversus deos immortales impii iudicandi sunt. Ab iis enim constitutam inter homines societatem evertunt, cuius societatis artissimum vinculum est magis arbitrari esse contra naturam hominem homini detrahere sui commodi causa quam omnia incommoda subire vel externa vel corporis vel etiam ipsius animi. ~Iustitia enim una virtus omnium est domina et regina virtutum.

29. Forsitan quispiam dixerit: Nonne igitur sapiens, si fame ipse conficiatur, abstulerit cibum alteri homini ad nullam rem utili? Minime vero: non enim mihi est vita mea utilior quam animi talis affectio, neminem ut violem commodi mei gratia. Quid? si Phalarim, crudelem tyrannum et immanem, vir bonus, ne ipse frigore conficiatur, vestitu spoliare possit, nonne faciat? Haec ad iudicandum sunt facillima. 30. Nam si quid ab homine ad nullam partem utili utilitatis tuae causa detraxeris, inhumane feceris contraque naturae legem, sin autem is tu sis, qui multam utilitatem rei publicae atque hominum societati, si in vita remaneas, adferre possis si quid ob eam causam alteri detraxeris, non sit reprehendendum. Sin autem id non sit eiusmodi, suum cuique incommodum ferendum est potius quam de alterius commodis detrahendum. Non igitur magis est contra naturam morbus aut egestas aut quid eiusmodi quam detractio atque appetitio alieni, sed communis utilitatis derelictio contra naturam est; est enim iniusta. 31. Itaque lex ipsa naturae, quae utilitatem hominum conservat et continet, decernet profecto, ut ab homine inerti atque inutili ad sapientem, bonum, fortem virum transferantur res ad vivendum necessariae, qui si occiderit, multum de communi utilitate detraxerit, modo hoc ita faciat, ut ne ipse de se bene existimans seseque diligens hanc causam habeat ad iniuriam. Ita semper officio fungetur utilitati consulens hominum et ei, quam saepe commemoro, humanae societati. 32. Nam quod ad Phalarim attinet, perfacile iudicium est. Nulla est enim societas nobis cum tyrannis et potius summa distractio est, neque est contra naturam spoliare eum, si possis, quem est honestum necare, atque hoc omne genus pestiferum atque impium ex hominum communitate exterminandum est. Etenim, ut membra quaedam amputantur, si et ipsa sanguine et tamquam spiritu carere coeperunt et nocent reliquis partibus corporis, sic ista in figura hominis feritas et immanitas beluae a communi tamquam humanitate corporis segreganda est. Huius generis quaestiones sunt omnes eae, in quibus ex tempore officium exquiritur.

Traduzione in Italiano

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26. Uno solo, dunque, deve essere lo scopo di tutti: che coincida l'utile individuale con quello di tutti, in quanto se ciascuno se lo arrogherà, tutta la società umana andrà in frantumi.

27. E anche se la natura prescrive che l'uomo provveda ad un altro uomo, qualunque esso sia, per il fatto stesso che è uomo, ne consegue necessariamente, secondo la stessa legge di natura, che l'utilità di ogni individuo coincide con quella comune. E se le cose stanno così, noi tutti siamo regolati da un'unica e medesima legge di natura, e se è proprio cosi, certamente la legge di natura ci proibisce di far violenza ai nostri simili. 28. Vera la premessa, vera, dunque, la conseguenza. Infatti è certamente assurda quella frase che dicono alcuni, che essi non sottrarrebbero nulla al padre, o al fratello per il proprio vantaggio, ma che diverso è il criterio da seguire nei riguardi degli altri cittadini. Costoro pensano di non avere alcun vincolo giuridico o sociale, a causa dell'utile, con i propri concittadini, opinione, questa, che disintegra ogni società umana. Coloro, poi, i quali affermano che si deve avere considerazione per i concittadini, ma non per i forestieri, spezzano il comune vincolo sociale del genere umano, soppresso il quale, la beneficenza, la generosità, la bontà e la giustizia sono sradicate sin dalle fondamenta; e coloro che distruggono queste virtù devono essere giudicati empi anche verso gli dei immortali. Abbattono, infatti, proprio quella società stabilita dagli dei tra gli uomini, società il cui vincolo più saldo consiste nel ritenere che sia più contro natura che l'uomo sottragga all'uomo per il proprio vantaggio, piuttosto che subisca ogni danno o esterno o fisico o anche morale * * * che mancano di giustizia: infatti questa sola è la signora e la regina di tutte le virtù.

29. Forse qualcuno potrebbe dire: un sapiente, nel caso che fosse oppresso dalla fame, non potrebbe sottrarre del cibo ad un altro uomo, che non gli è di alcuna utilità? [Nient'affatto, perché la mia vita non è per me più utile di una tale disposizione dell'animo, e cioè di non far violenza ad alcuno per un mio vantaggio personale.] E allora? Se un uomo onesto, per non morire di freddo, potesse spogliare del vestito Falaride, tiranno crudele e disumano, forse che non lo farebbe? 30. Per questi interrogativi è assai facile trovare una risposta: infatti se tu avessi sottratto qualcosa ad un uomo che non è di alcuna utilità per il tuo particolare vantaggio, avresti compiuto un'azione disumana e contraria alla legge di natura; se invece tu fossi tale da poter apportare molto giovamento allo Stato e alla società umana, rimanendo in vita, se sottraessi ad un altro per quel motivo non saresti da biasimare; ma se invece la motivazione non è di tal genere, ciascuno deve sopportare la propria situazione di svantaggio piuttosto che sottrarre qualcosa dai vantaggi di un altro. Non sono, dunque, contro natura la malattia, la povertà o altri mali simili, più che il sottrarre o il desiderare le cose altrui, ma è contro natura il trascurare l'utilità generale, perché è ingiusto. 31. Così sarà la stessa legge naturale, che conserva e assicura il benessere generale, a stabilire senza dubbio che i beni necessari alla vita siano passati dall'uomo incapace ed inutile all'uomo sapiente, buono e coraggioso, che, morendo, sottrarrà molto all'utilità generale, purché costui, avendo un alto concetto di sé ed amando troppo se stesso, non tragga da ciò il pretesto per compiere un'ingiustizia. Si compirà sempre il proprio dovere, provvedendo all'utilità degli uomini ed a quella società umana, che io spesse volte ricordo. 32. Per ciò che riguarda, difatti, l'esempio di Falaride, la risposta è assai facile; non sussiste per noi alcun rapporto sociale coi tiranni; piuttosto vi è un estremo distacco; non è contro natura - se è possibile - spogliare dei suoi beni colui che è addirittura onesto uccidere, e tutto questo genere pestifero ed empio deve essere sterminato dalla comunità umana. Infatti come si amputano certe membra, se esse cominciano a mancare di sangue e quasi di vita e nuocciono alle altre parti del corpo, cosi questa belva feroce e selvaggia dall'aspetto d'uomo deve essere allontanata, per cosi dire, dal corpo comune dell'umanità. Di tal genere sono tutte quelle questioni, nelle quali si studia il dovere in rapporto alle circostanze.

Analisi del Testo

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26.

Unum... propositum: Espressione prolettica della completiva ut... sit.

Omnibus: Dativo di possesso.

Quam: = Et eam, riferito ad utilitas.

Si... rapiet, dissolvetur: Periodo ipotetico della realtà.

Si... praescribit... necesse est: Altro periodo ipotetico della realtà ciò indica che il discorso è condotto su basi assolutamente realistiche e obiettive.

Hoc: Prolittico della completiva ut... consultum velit.

Quicumque sit: Il pronome composto con -cumque esige sempre l'indicativo. Il congiuntivo qui è richiesto dall'attrazione modale.

Quod... sit: Proporizione dichiarativa anche qui con il congiuntivo richiesto dall'attrazione modale.

Consultum velit: Sott. esse "voglio che sia provveduto a..." la perifrasi (= consulat) enfatizza il significato del verbo.

Omnium: Genitivo oggettivo.

Prohibemur: Notare la costruzione personale del verbo.

28.

Nam... reliquorum: Cicerone avanza una prima ipotesi circa una doppia morale consistente nel rispetto dei beni dei parenti e in un atteggiamento nei confronti degli altri "infatti è davvero assurdo quel che sostengono alcuni, che nulla toglierebbero al proprio padre o al proprio fratello per il proprio tornaconto, mentre diverso sarebbe l'atteggiamento nei confronti degli altri cittadini".

Illud: Prolettico di ... nihil detracturos....

Sui commodi causa: Nota la costruzione di causa con il genitivo. Si tratta della cosiddetta causa finale.

Aliam... esse: Proprosizione coordinata alla precedente per asindeto con valore avversativo.

Civium reliquorum: Genitivo oggettivo.

Iuris: Genitivo partitivo. Si allude, ovviamente, ai legami giuridico.

Communis utilitatis causa: V. sui commodi causa.

Quae: = Et haec.

Qui: Prolettico del successivo ii.

Civium: Genitivo oggettivo, come anche externorum.

Habendam: Sott. esse.

Externorum negant: Sott. rationem habedam. Notare la coordinazione per asindeto avversativo.

Qua sublata: Ablativo assoluto. Qua è riferito a societatem.

Quae: Acc. neutro plurale riferito ai quattro sostantivi precedenti.

Quae qui: Notare l'efficacia del poliptoto.

Ab iis: = A deis.

Sui comuni causa: V. par. 28.

Externa: Si allude alla perdita delle ricchezze o degli onori.

Quae vacent iniustitia: I codici riportano iustitia ma non avrebbe senso coerente. Alcuni pensano che sia caduta qualche parola tra animi e quae. Comunque il verso è guasto basta considerare le espressioni poste subito dopo.

Haec... virtutum: Si riconferma la difficoltà interpretativa del verso infatti haec ha senso solo se riferito a iustitia che però non è coerente con le espressioni precedenti. Bisogna tradurre "infatti questa sola virtù (cioè la giustizia) è signora e regina di tutte le virtù" ma è una traduzione letteraria troppo pesante nella nostra lingua quindi conviene "la giustizia soltanto è signora e regina di tutte le virtù". In questo paragrafo ci sono molte ripetizioni terminologiche che non sono proprie dello stile di Cicerone. Solo con la mancaza di un lavoro di lima e revisione si può spiegare ciò. Ci si riferisce ai due casi più vistosi: 1) societatem evertunt, cuius societatis; 2) una virtus omnium est domina et regina virtutum.

29. In questo paragrafo Cicerone pone due domanda a cui risponderà nel parr. 30-31 e al par. 32.

Dixerit: Congiuntivo potenziale "potrebbe domandare".

Nonne: Particella interrogativa che si usa quando si presuppone risposta affermativa. In questo caso la risposta, che cerca di dare Cicerone non è affatto semplice ma chi si aspetta risposta (quispiam) si aspetta risposta affermativa.

Minime... gratia: Deve trattarsi di una interpolazione. Non ha senso la presenza di questo passo qui in quanto Cicerone introduce la risposta soltanto a fine paragrafo (Haec ad iudicandum sunt facillima) ma il discorso non è in sintonia con quanto si dice subito. Traduci: "no per davvero: infatti la mia vita è per me meno utile di un sentimento dell'anima tale da spingermi a danneggiare qualcuno per mia utilità".

Commodia mei gratia: Solito costrutto che si ripete.

Quid?: Introduce la seconda domanda "che cosa ? / come ?"

Phalarim... faciant: Ordina: si vir bonus, ne conficiatur ipse frigore, possit spoliare vestitu Phalarim, crudelem tyrannum et immanem nonne faciat ? e traduci: "se un uomo perbene, per non morire di freddo, potesse spogliare dell'abito Falaride, tiranno crudele e feroce, non dovrebbe farlo?".

Phalarim: È il tiranno di Agrigento che governò la città dal 570 a.C. al 554 a.C.. La tradizione lo ha rappresentato come disumano e feroce. Si narra che faceva arrostire in un toro di bronzo i suoi avversari e la stessa sorte colpi Perillo che lo aveva realizzato. Stesso Dante (Inferno, XXVII, 7-9) dice di lui: "Come il bie cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l'aveva temperato con sua lima".

Ne... conficiatur: Finale negativa.

Nonne: V. nota al precedente nonne.

30.

Si... detraxeris... faceris: Periodo ipotetico del I tipo e i verbi sono al futuro anteriore perché esprimo azioni contemporanee.

Quid: Per aliquid, come di norma dopo il si.

Sin... sis... non sit reprehendum: Qui l'ipotesi è vista come possible e il periodo ipotetico è di II tipo.

Tu: È il tu generico.

Qui... adferre possis: Proposizione relativa con valore consecutivo.

Si... remaneas: Protasi da collegarsi in rapporto di limitazione ad adferre possis.

Si... detraxeris: Anche questa protasi da collegare a non sit reprehendu ha valore limitativo. L'intero passo, come si vede, gioca su periodi ipotetici intrecciati da protasi limitative, in una struttura complessa ma chiara.

Cuique: Dativo d'agente.

Quid: Sta per aliquid pertanto quid eius modi'Testo in corsivo letteralmente significa: "alcunché di tal fatta".

Derelictio: Voce attestata soltanto in questo luogo. Si tratta di un hapax legomenon.

31.

Homine... virum: Notare la differenza tra i due segni, di cui il primo connotato da inerti atque inutili e il secondo da sapientem, bonus, fortem.

Qui: Si riferisce ovviamente a virum.

Si occiderit... detraxerit: V. nota a si... detraxeris... feceris di par. 30.

Modo: Significa "purché, solo che, se".

Hanc causam: Causam è predicativo di hanc che si riferisce a ipse... diligens e usato al posto di hoc. Infatti hanc è accordato con il predicativo causam.

Officio: Ablativo retto da fungetur.

Quam saepe commemoro: Cicerone esplicitamente ricorda che il concetto di utilità comune è di tale importanza che egli si sente costretto ad insistervi costantemente.

32.

Nam: Viene qui introdotta la risposta alla seconda ipotesi presentanta al par. 29.

Ad Phalarim: V. par. 29.

Iudicium: "La risposta".

Societas: "Alleanza, legame".

Et potius... est: "Anzi c'è il più grande contrasto".

Neque... necare: "E non è contro natura spogliare colui che, potendolo, sarebbe onorevole uccidere": Cicerone ammette che è lecito non solo porta via i beni al tiranno ma anche uccidere il tiranno che, come si dirà dopo, potrebbe recare soltanto danno alla comunità umana.

Si possis: Questa protasi della possibilità ha un particolare significato. Cicerone è come se dicesse: "bada, però, che non è poi tanto semplice sbarazzarsi di un tiranno".

Est honestum: Verbo all'indicativo rispetto al condizionale italiano.

Genus: "Genia".

Exterminandum est: "Deve essere bandita" oppure "deve essere tolta di mezzo". Da notare lo straordinario vigore dell'espressione ciceroniana. Cicerone qui allude ai tiranni in generale e allude certamente anche agli uccidori di Cesare che elogia per la loro impresa.

Ut membra... segreganda est: "Come vengono amuptate alcune membra, se essa stesse cominciano a restare prive di sangue e come di spirito vitale e nuoccino alle altre parti del corpo, così codesta ferocia e mostruosità di belva in sembianza umana, deve essere separata, per così dire, dal corpo comune dell'umanità".

Ista: Questo aggettivo è connotato da un senso dispregiativo.

Feritas et immanitas: Astratti usati qui per enfatizzare e sottolineare il senso di barbarie che caratterizzano le azioni di un tiranno. Notare altresì che tali segni sono posti in netta contrapposizione con il successivo humanitas.

In quibus... exquiritur: "Nelle quali si cerca il nostro dovere secondo le circostanze".