Canti è il titolo della raccolta dei componimenti poetici leopardiani.

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Canti (superiori)
Tipo di risorsa Tipo: lezione
Materia di appartenenza Materia: Letteratura italiana per le superiori 2
Avanzamento Avanzamento: lezione completa al 100%

Esperimenti letterari ed edizioni

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Dopo la conversione "dall'erudizione al bello" del 1816, si apre per Leopardi una strada di sperimentazioni affatto diverse tra loro. Questo periodo è infatti ricco di esperimenti volti nelle più diverse direzioni: idilli pastorali, elegie (Il primo amore), "visioni" sul modello di Monti (Appressamento della morte), canzoni su argomenti moderni e cronachistici, tragedie pastorali, inni cristiani, un romanzo autobiografico. Molti di questi esperimenti, però, rimangono allo stadio progettuale o di abbozzo.

Fra il 1818 e il 1823 Leopardi compone dieci canzoni, pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824; due anni dopo, sempre nella città emiliana, stampa una raccolta di Versi comprendente due elegie, un'epistola in versi e sei componimenti riuniti sotto il titolo di Idilli; nel 1831, infine, a Firenze raccoglie le canzoni, i Versi e alcuni scritti giovanili e li unisce ad altri testi scritti tra il 1828 e il 1830, dando al volume il nome di Canti. Quest'ultima è la prima edizione dell'opera poetica fondamentale. Una seconda edizione napoletana, nel 1835, sarà arricchita di altri testi scritti nel frattempo. L'ultima edizione, postuma, esce nel 1845 a Firenze a cura di Ranieri. È arricchita di due poesie composte dopo il 1835.

Il titolo Canti era del tutto inedito per una raccolta di versi. Esso rimanda al carattere accentuatamente lirico di queste poesie, che si nutrono dell'intima soggettività dell'autore, anche quando si occupano di temi civili o filosofici; al tempo stesso, il titolo vuol raccogliere sotto una dicitura onnicomprensiva diversi generi poetici, alcuni aderenti alle categorie tradizionali (canzoni, elegie, epistole in versi) e altri, precisamente propri dei testi scritti dopo il 1828, caratterizzati da una forma più libera e originale, non rispondente ai codici prestabiliti, anche nella metrica.

Le canzoni

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Componimenti dall'impianto marcatamente classicistico, le Canzoni riproducono lo schema metrico fissato dalla lirica duecentesca e da Dante e utilizzano il linguaggio aulico della tradizione, con influenze soprattutto foscoliane e alfieriane. Le prime cinque (All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone), composte tra il '18 e il '21, affrontano tutte una tematica civile. La base di pensiero è il pessimismo ancora storico che caratterizza il pensiero leopardiano in questo periodo. Vi sono frequenti spunti polemici contro la realtà del tempo, inerte, corrotta, incapace di magnanimità e gesta eroiche, affogata in una "nebbia di tedio". A questa polemica è contrapposta l'esaltazione delle età antiche. La più significativa di queste cinque è Ad Angelo Mai, summa dei temi leopardiani del periodo.

Diversi sono il Bruto minore e l' Ultimo canto di Saffo. Innanzitutto qui non è Leopardi a parlare in prima persona, ma il discorso è delegato a due personaggi dell'antichità, entrambi suicidi: Bruto, il cesaricida, e la poetessa greca Saffo. C'è una svolta nel pessimismo storico: l'umanità è infelice per una condizione assoluta, non per il periodo in cui si trova a vivere. La colpa non è ancora della natura, ma degli dei e del fato, forze malvagie che godono nel perseguitare l'uomo. Contrapposto a esse è il singolo eroe, che rivendica la propria libertà in un gesto di sfida suprema, il suicidio. Questa è l'affermazione più decisa del titanismo che caratterizza il primo Leopardi.

Altre canzoni della seconda fase presentano caratteristiche ancora diverse. Alla Primavera (gennaio 1822) è una nostalgica rievocazione dell'immaginosità propria dell'antichità, paradiso perduto dei moderni. L' Inno ai patriarchi, o dei principi del genere umano (luglio 1822) è l'unico dei progettati Inni cristiani che sia stato portato a compimento; è una rievocazione di un'umanità primitiva, di una felice ingenuità. Alla sua donna (settembre 1823), infine, è dedicata a un'immagine platonica, ideale, di una donna creata dalla mente del poeta.

Gli idilli

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Carattere differente dalle Canzoni presentano gli Idilli, per le tematiche intime e autobiografiche e per il linguaggio più colloquiale e votato a una limpida semplicità. Sotto questo titolo Leopardi raggruppò alcuni componimenti scritti tra il 1819 e il 1821: L'infinito, La sera del giorno festivo (poi divenuto La sera del dì di festa), La ricordanza (poi Alla luna), Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria, pubblicati ne "Il Nuovo Ricoglitore" nel 1825 e poi nell'edizione bolognese dei Versi del 1826. Il titolo non compare nelle raccolte successive, ma la classificazione è rimasta di uso comune.

La parola idillio deriva dal greco εἰδύλλιον (eidýllion), diminutivo di εἶδος (éidos), "immagine, quadro", dunque il significato letterale sarebbe "quadretto". Il principale rappresentante della poesia idillica greca fu Teocrito, autore di componimenti ambientati in un mondo pastorale idealizzato, dove la pace e la serenità regnano sovrane. Il termine idillio, tuttavia, nulla aveva a che fare con la poesia pastorale, ma indicava solo la brevità dei testi; ma poiché Teocrito acquistò fama per le sue poesie a tema pastorale, la parola acquistò la sfumatura bucolica che ancor oggi lo caratterizza. Questi componimenti, scritti in endecasillabi sciolti, sono terreno di prova di un linguaggio poetico originalissimo, lontano dalla solennità e dai concettismi delle canzoni, giocato sul "vago e indefinito" e su una musicalità sotterranea ed essenziale.

Negli anni precedenti il 1819 Leopardi aveva tradotto gli idilli pastorali del poeta greco Mosco (imitatore di Teocrito) e aveva composto poesie pastorali. Ma gli idilli del '19-21 non hanno nulla a che fare con la tradizione bucolica classica, e nemmeno con l'idillio moderno, "borghese", affermatosi nel Settecento nelle letterature nordiche e che amava rappresentare scene dalla vita ordinaria di personaggi mediocri, pervase da una tranquilla serenità (il massimo esempio ne è l' Hermann e Dorothea di Goethe, del 1798; a questo si rifanno i Promessi sposi per rovesciarlo). Nel 1828 Leopardi definì gli idilli come espressione di "sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo". La rappresentazione della realtà esterna è dunque subordinata a fini soggettivi.

Il "risorgimento" e i "grandi idilli"

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Dopo la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio letterario che durerà fino alla primavera del 1828. Egli stesso lamenta lo sprofondamento in uno stato di aridità e di gelo, che gli impedisce di comporre poesia (la sola investigazione dell'"arido vero" lo porterà, in questo periodo, alla composizione delle Operette morali). Questa è anche la fase che corrisponde al passaggio al pessimismo assoluto, cosmico, che porta all'abbandono dei precedenti atteggiamenti titanici e a una disposizione più ironica e distaccata verso la realtà, anche influenzata dalla filosofia stoica (in questo periodo, effettivamente, Leopardi traduceva il Manuale di Epitteto. L'uscita dallo stato di aridità interiore si verifica nel periodo pisano, tra l'inverno e la primavera del 1828. È questo il "risorgimento" leopardiano, il risveglio della sua facoltà di sentire, di immaginare e creare. Alla primavera del 1828 risale A Silvia.

Neppure dopo il ritorno a Recanati e i sedici mesi passati nell'atmosfera opprimente della casa paterna il fervore creativo dello scrittore si interrompe. Nell'autunno del 1829 vedono infatti la luce Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e tra l'inverno del '29 e la primavera del '30 il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Sempre a questa fase, anche se senza datazione certa, risale Il passero solitario.

Questi componimenti riprendono temi, atteggiamenti e linguaggio degli idilli del '19-'21. Il linguaggio, sempre limpido e musicale, è impreziosito da termini e locuzioni "peregrine": per questo è d'uso comune designare i canti pisano-recanatesi del '28-'30 come "grandi idilli" (formula non leopardiana, ma estensione per analogia dagli Idilli).

La distanza dai primi idilli

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Se attentamente analizzati, questi componimenti dimostrano di non essere la semplice ripresa dei temi di dieci anni prima. In questo lasso di tempo, infatti, si collocano svolte fondamentali, quali la caduta delle illusioni giovanili, la consapevolezza del "vero", il passaggio al pessimismo assoluto. Se, dunque, la memoria fa riaffiorare la stagione passata delle illusioni e della speranza, pure non dimentica mai la consapevolezza del "vero", della vanità degli "ameni inganni". Per questo motivo i "grandi idilli" sono pervasi da immagini liete, ma come rarefatte, prive di corporeità fisica: sono costantemente accompagnate dalla consapevolezza del dolore, del nulla, della morte.

Sarebbe sbagliato appiattire i "grandi idilli" sulle immagini idilliche, come fece la critica crociana. Bisogna però osservare come la consapevolezza non distrugga le immagini liete; il vero, se pure pervade questi componimenti, lo fa con delicatezza e riserbo. C'è un perfetto equilibrio tra il "caro immaginar" e il "vero", forze contrapposte. Questo equilibrio determina anche l'assenza di slanci titanici e patetici, propri degli idilli di dieci anni prima. L'atteggiamento di lucida contemplazione dell' "acerbo vero" delle Operette è stato tradotto in poesia.

Coerente rispetto a questo atteggiamento è il linguaggio, diverso da quello dei primi idilli per la mancanza di espressioni intense e patetiche, spie di una lotta "aspra e tragica"; è un linguaggio più misurato, sia quando si rivolge alla tenerezza e alla dolcezza dell'evocazione dell'illusione giovanile, sia nella desolazione dell'evocazione del "vero". È dunque una lingua più piana e uniforme.

Anche la metrica differisce da quella dei primi idilli. Leopardi non usa più l'endecasillabo sciolto, ma una strofa di endecasillabi e settenari che si succedono liberamente, senza alcuno schema fisso; rime, assonanze, cesure, enjambements sono distribuiti altrettanto liberamente. È questa la forma poetica che viene comunemente denominata "canzone libera leopardiana". La libertà metrica è un perfetto contrappunto alla vaghezza e all'indefinitezza delle immagini e al movimento fantastico. Si tratta di una conquista originalissima nella poesia lirica italiana del primo Ottocento.

Le posizioni contro l'ottimismo progressista

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Leopardi ha con le ideologie del suo tempo un rapporto intenso, ma del tutto negativo e polemico. Leopardi è contrario all'esaltazione del progresso quale fonte di miglioramento infinito per la vita umana, alle tendenze spiritualistiche di stampo neocattolico seguite al tramonto dell'Illuminismo (talora combinate all'ottimismo delle correnti liberali moderate) e al ritorno all'idea dell'uomo come possessore di un posto privilegiato nel cosmo per decreto divino. A queste ideologie egli contrappone il suo pessimismo, talora arrivando allo scherno, affermando che l'infelicità e la sofferenza sono assolute e immodificabili; allo stesso tempo, in risposta alle correnti neocattoliche, egli si rifà al suo duro materialismo negando ogni speranza in una vita ultraterrena, considerando tali credenze superficiali e sciocche, allo stesso tempo vili e superbe.

Questa polemica è l'oggetto di varie opere. Tra quelle incluse nei Canti, segnaliamo la Palinodia al marchese Gino Capponi. Esterne alla raccolta si hanno invece: Ad Arimane, abbozzo di un inno al principio del male secondo l'antica religione persiana (che simboleggia la natura persecutrice delle sue creature); I nuovi credenti, satira di certi ambienti culturali napoletani di orientamento cattolico; i Paralipomeni della Batracomiomachia, poemetto satirico in ottave presentato come continuazione della Batracomiomachia. Nei Paralipomeni Leopardi, adombrato dalla costruzione favolosa, discute degli avvenimenti del '20-'21 e del fallimento dei moti liberali: i topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici, aiutati dai granchi, gli Austriaci. Il poeta si scaglia contro la reazione ottusa e brutale degli Austriaci, ma neppure i topi-liberali, dal troppo facile ottimismo, vengono risparmiati. Leopardi critica il liberalismo moderato dei patrioti dal punto di vista del suo pessimismo assoluto, negando ogni possibilità di reale progresso o miglioramento per un'umanità perseguitata dalla natura.

La ginestra e l'idea leopardiana di progresso

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La ginestra è espressione di una svolta fondamentale nel pensiero leopardiano, ed è allo stesso tempo il testamento spirituale del poeta. Egli non nega più la possibilità di un progresso civile, ma anzi cerca di costruire un'idea di progresso modellata sul suo pessimismo: le sopraffazioni e le ingiustizie della società cesserebbero, infatti, se gli uomini comprendessero che è la natura la loro vera minaccia e cercassero di fronteggiarla riuniti in "social catena". La filosofia di Leopardi, che non ha mai preso posizioni misantropiche, si abbandona a una generosa utopia basata sulla solidarietà tra gli uomini, a sua volta generata dalla diffusione del "vero".

Analisi

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Qui di seguito proponiamo l'analisi dei Canti più studiati (per i testi delle poesie, vedere qui).

L'infinito

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La poesia fu composta a Recanati nel 1819. Vi si scorge, anticipato in forma poetica, un nucleo tematico che informerà le riflessioni degli anni successivi: la "teoria del piacere", da cui si sviluppa la teoria del "vago e indefinito". Secondo tale teoria, particolari sensazioni visive o uditive hanno un carattere vago e indefinito che porta l'uomo a figurarsi con l'immaginazione l'infinito a cui aspira, irraggiungibile perché la realtà offre solo piaceri finiti. L'infinito coglie, come in un'istantanea, uno di questi momenti, in cui l'immaginazione sradica la mente dal reale e l'immerge nell'infinito (e non a caso gli appunti dello Zibaldone richiamano L'infinito come esempio).

La poesia è divisibile in due parti, corrispondenti a due differenti sensazioni di partenza. Il primo momento (vv. 1-8) è ispirato da una sensazione visiva (o meglio dall'impossibilità della visione), la siepe che arresta lo spaziare dello sguardo fino all'estremo orizzonte. Poiché la vista del "reale" è impedita, subentra il "fantastico": il pensiero elabora l'idea di un infinito spaziale, di spazi senza fine immersi in "sovrumani silenzi" e in una "profondissima quiete". Il secondo momento (vv. 8-15) prende avvio da una sensazione uditiva, lo stormire del vento tra gli alberi. Il vento (tradizionalmente immagine di qualcosa di effimero e vano) viene paragonato all'infinito silenzio immaginato e suggerisce l'idea dello sfumare delle cose umane nel silenzio dell'oblio. A questo punto, al poeta viene in mente un infinito temporale (l'"eterno"), in contrasto con il passato ormai svanito nella dimenticanza e con il presente che ugualmente sparirà presto nel nulla.

Tra i due momenti, poi, si registra un cambiamento di stato d'animo. C'è come un senso di sgomento nell'io lirico nei confronti delle immagini interiori dell'infinito spaziale ("per poco/il cor non si spaura"), che si trasforma in un dolce naufragio nell' "immensità" dell'infinito immaginato, fino all'oblio dell'identità dell'io stesso. La coscienza rende l'uomo consapevole del "vero", dunque lo spegnersi di essa dà una sensazione di piacere, garantisce una forma di felicità nello stordimento. Lo "spaurarsi" del cuore e la "dolcezza del naufragio" sono due aspetti dell' "orrore dilettevole" che secondo il sensismo è provocato dall'immaginazione dell'infinito.

È facile interpretare la lirica in chiave mistico-religiosa (come già fecero De Sanctis e la successiva critica idealista). Tuttavia, nel componimento non v'è traccia di riferimenti a un'ipotetica dimensione sovrannaturale: l'infinito non ha nulla di divino, di un'entità spirituale e trascendente (ciò è escluso esplicitamente nello Zibaldone: "L'infinità della inclinazione dell'uomo è una infinità materiale"). Inoltre questo "infinito" non è oggettivo, quale la divinità dovrebbe essere, bensì totalmente soggettivo, prodotto dall'immaginazione. Tenendo presente tutto ciò, non è però possibile escludere del tutto una componente mistica dal componimento. Bisogna assumere che essa dimori negli strati più profondi della personalità del poeta e che, per trovare espressione, debba passare attraverso le sue forme culturali, impregnandosi di sensismo e materialismo, uscendone con un volto mutato.

La poesia presenta una costruzione fondata su precise simmetrie. I due momenti, corrispondenti all'esperienza spaziale e a quella temporale dell'infinito, occupano ciascuno esattamente sette versi e mezzo. Il passaggio da un'esperienza all'altra avviene al verso 8, diviso da una forte cesura al centro ("il cor non si spaura.//E come il vento"). Se la pausa serve a distinguere i due momenti, pure vi sono elementi che ne sottolineano la continuità, il fatto che siano parte di un processo unico (nonostante l'apparente contrasto "spaura" - "m'è dolce"). Essi consistono in un elemento sintattico, la congiunzione coordinativa "e", e in uno metrico, la sinalefe che collega in una sillaba sola la vocale finale di "spaura" con la vocale successiva. A loro volta, queste due parti si dividono in altri due momenti al loro interno. Nel primo (vv. 1-3 e 8-10) si ha lo spunto per la riflessione, offerto dal dato reale, sensibile (la siepe, il vento); nel secondo (vv. 4-8 e 10-15) si ha l'allontanamento dal dato reale iniziale verso l'immaginazione dell'infinito.

Esistono simmetrie anche sul piano sintattico, poiché i due periodi che rendono le esperienze dell'infinito spaziale e temporale sono costruiti su due serie analoghe in forma di polisindeto: "interminati spazi [..] e sovrumani silenzi, e profondissima quiete", "l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei". La simmetria non si estende però al piano lessicale. Nella parte in cui è resa l'esperienza dell'infinito spaziale prevalgono parole molto lunghe ("interminati", "sovrumani", "profondissima"); nella parte in cui si rende l'esperienza dell'infinito temporale le parole sono più brevi ("eterno", "stagioni", "presente"). I polisillabi del primo membro danno l'impressione della vertigine in cui "il cor si spaura", mentre le parole più brevi e consuete del secondo membro richiamano la pace che abbraccia l'animo immerso nell'infinito. A ottenere questo effetto si aggiunge il livello fonico: l'impressione dell'infinità dello spazio è resa con l'uso di a toniche, che danno una sensazione di vastità ("interminati spazi", "sovrumani"), mentre lo sgomento è reso con vocali cupe, le velari o ("ove", "poco", "cor") e soprattutto con la u tonica nella parola chiave, "spaura", per di più in rilievo alla fine del periodo. Il naufragio finale vede la ricomparsa della vastità, delle a ("immensità", "naufragar", "mare").

Il senso di un'esperienza unitaria, sebbene divisa in due momenti fondamentali, è reso dal continuum metrico-sintattico che percorre il componimento. Nessun verso, eccezion fatta per il primo e per l'ultimo, è isolabile sintatticamente. Il discorso continua sempre nel verso seguente. Conseguentemente, su 15 versi vi sono ben dieci enjambements.

La sera del dì di festa

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Composta a Recanati nella primavera del 1820, la poesia si apre con una di quelle immagini care a Leopardi per il loro sentore di "vago e indefinito": un notturno lunare. Questa immagine prende le mosse da un'esperienza vissuta e passa attraverso il filtro delle reminiscenze di letteratura classica; nei Ricordi infatti si legge: "Veduta notturna con la luna a ciel sereno dall'alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero" (1819). La similitudine in questione si trova alla fine del canto VIII dell' Iliade, quando la notte cala sull'assedio troiano davanti alle mura greche, ed è tradotta dallo stesso Leopardi nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818): "Sì come quando graziosi in cielo/rifulgon gli astri intorno della luna,/e l'aere è senza vento, e si discopre/ogni cima de'monti ed ogni selva/ed ogni torre...". L'incipit della Sera del sì di festa riprende la trama verbale della traduzione da Omero; ne sono spie le espressioni "senza vento", "discopre" (nella poesia "rivela"), "ogni cima de' monti" (nella poesia "ogni montagna"). Questa sovrapposizione di esperienza vissuta ed esperienza immaginaria, con il sostegno di reminiscenze letterarie, sarà una costante nella poesia leopardiana.

Il poeta è convinto che nel mondo moderno la poesia "d'immaginazione" degli antichi non sia più possibile, per colpa del progresso della civiltà e della ragione, e che la sola praticabile sia la poesia "sentimentale", filosofica e consapevole del "vero". Dunque, al momento di abbandono all'immaginazione rappresentato dal notturno iniziale, subito sottentra la coscienza del vero. La poesia presenta due temi fondamentali, trattati in due parti distinte. Nella prima (vv. 4-24) si contrappongono due figure giovanili: quella della fanciulla, ancora carica di illusioni giovanili, in armonia con la quiete notturna, e quella del poeta, creato dalla natura per patire l'infelicità. L'io lirico prende piena coscienza della sua diversità rispetto all'umanità comune, che gli pesa addosso come un'arcana condanna, ma sottolinea anche il contrasto tra l'essere infelice e tormentato e la bellezza e la quiete della natura (motivo che si ritroverà nell' Ultimo canto di Saffo). La contrapposizione dell'io solitario e infelice agli uomini e alla natura è espressa in forme romantiche, titaniche, che non mancano di accenti patetici ("per terra mi getto, e grido e fremo"), tipiche del primo Leopardi.

La seconda parte (vv. 24-46) presenta un tema apparentemente molto diverso: lo sprofondare di tutte le cose nell'oblio, il tempo che scorre impietoso e vanifica "ogni umano accidente". La meditazione è accesa da un'altra sensazione di vago e indefinito, il canto che risuona nella notte, allontanandosi a poco a poco. Il canto fa risaltare il silenzio della notte e richiama per contrasto la vita e il movimento del giorno festivo, ormai dissolti senza lasciare traccia. Di qui parte la riflessione sulla gloria dei popoli antichi, ormai obliata. È la ripresa dello stormire delle fronde nell' Infinito, che evocava l'infinità del tempo, l'oblio cui vanno incontro le "morte stagioni" e che investirà anche la "presente e viva".

Queste due parti e i temi che sviluppano sembrano, a prima vista, essere completamente slegate tra loro. Va notato che il passaggio tra la prima e la seconda parte è a metà di un verso: "[...] in così verde etate! Ahi per la via [...]". La cesura è segnata dal punto esclamativo, ma anche da una sinalefe (si ripete, dunque, il procedimento utilizzato nel verso 8 dell' Infinito). La continuità metrica è esplicita, quella contenutistica implicita. Un possibile legame può essere: i giorni del poeta sono tremendi, ma anche questa stessa infelicità è destinata a finire e svanire nel nulla. L'infinito presenta una conclusione analoga, ma anche nella Sera lo stordimento dell'io nell'infinito è catartico? Esistono interpretazioni divergenti:

  • Il pensiero della vanità accrescerebbe la disperazione iniziale, in quanto riprende il motivo dell'indifferenza della natura verso il destino delle sue creature, poeta incluso.
  • Si verificherebbe anche qui una catarsi analoga a quella della chiusa dell' Infinito: la considerazione della vanità del tutto non accresce ma finisce per vanificare anche la disperazione iniziale, in una distaccata contemplazione di un destino di annullamento universale.

Ad Angelo Mai

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Il dedicatario della canzone, composta a Recanati nel gennaio 1820, è Angelo Mai, colui che aveva riportato alla luce alcune parti del De republica di Cicerone, con grande risonanza nel mondo intellettuale dell'epoca.

La canzone riassume le concezioni e i temi leopardiani di questo periodo:

  • il tema civile e patriottico

La decadenza dell'Italia presente viene rapportata al suo passato glorioso (identificato con il mondo classico) e amaramente deprecata. Un momento di riscatto è però indicato nel Rinascimento, che ha riesumato i "vetusti divini", cioè gli scrittori antichi, ma dopo questo periodo la "ruina" d'Italia è andata sempre peggiorando: gli italiani odierni sono incapaci di gesta eroiche, vivono nell'"ozio turpe", sono "immonda plebe" che nega ogni valore all'azione e al pensiero, che reputa "follia" il "grande"e il "raro" e s'interessa solo del "computar" (il calcolo utilitaristico ed economico). Dinanzi a questa situazione, il poeta assume atteggiamenti definibili titanici e combattivi (benché lo slancio eroico sfumi in una più disillusa disperazione). Il modello di questo titanismo è ovviamente Alfieri, che fa la sua comparsa nelle ultime due strofe e che "solo, inerme" ha dichiarato guerra ai tiranni almeno con le sue opere, dato che in questo "secol morto" ogni via d'azione è impraticabile.

  • il contrasto tra antichi e moderni

La polemica civile s'inserisce in una meditazione filosofica sulla storia, di più ampio respiro. L'antichità è la giovinezza dell'umanità: non essendo ancora consapevoli del "vero" ("natura/parlò senza svelarsi"), gli antichi avevano una fervida e ardita immaginazione ed erano capaci di illusioni generose e gesta eroiche. La civiltà ha inaridito gli uomini e li ha privati di queste facoltà: la ragione ha distrutto l'immaginazione e ha inibito ogni slancio, gettando l'uomo in un'inerzia vergognosa. Questo componimento è l'esempio poetico più chiaro del pessimismo storico proprio della prima fase del pensiero leopardiano.

  • il conflitto natura-ragione

Il conflitto tra antichi e moderni apre la strada per una riflessione sul conflitto tra la natura e la ragione. Il motivo è sviluppato nelle due strofe dedicate a Cristoforo Colombo e in quella dedicata a Ludovico Ariosto, e consiste nell'opposizione tra "caro immaginar" e "vero". I fanciulli sono più vicini alla natura e con l'immaginazione vedono il mondo infinitamente vasto, vario e suggestivo. Il progresso della conoscenza, negli anni successivi, mortifica questa visione: la consapevolezza del "vero" ci mostra anche, intera, la nostra miseria. Il mondo non ci pare più infinitamente grande, ma anzi limitato e meschino. Man mano che se ne acquista consapevolezza, "solo il nulla s'accresce": fino a giungere alla coscienza del fatto che tutto è vano, nulla, eccetto il nostro dolore. Per questo motivo Leopardi antepone la coscienza immaginosa e fantastica a quella razionale: constata anche, però, che la visione fanciullesca è stata irrimediabilmente corrotta e soffocata dalla realtà.

  • il "tedio"

La chiara coscienza del nulla produce "tedio", motivo ricorrente nella canzone. Questo tema può essere esaminato su due piani distinti, quello storico e quello esistenziale. Per quanto riguarda il primo, l'Italia moderna è oppressa dalla cappa soffocante e inerte della Restaurazione, che spegne ogni impulso all'azione, e che Leopardi, dall'angusto angolo della provincia pontificia, soffre in modo particolarmente acuto; in questa accezione, la "nebbia di tedio" è da identificarsi con l'"ozio turpe". Esistenzialmente, poi, la noia è la percezione del nulla dell'esistenza in assoluto; ciò è conseguenza della ragione, che ha dissolto le "belle fole" (e dunque anche questo aspetto esistenziale va collegato a una dimensione storica).

Per quanto riguarda il livello stilistico, la canzone appare costruita sull'opposizione di due poli: da una parte la condizione oziosa e inerte dell'Italia, che s'inscrive nel vuoto e nella noia dell'umanità moderna; dall'altra, il vagheggiamento nostalgico di un paradiso perduto di fervida immaginazione e somma vitalità (l'antichità, la fanciullezza). Questi due poli, in definitiva, sono nient'altro che il "vero" e il "caro immaginar". La polarizzazione è particolarmente evidente nel linguaggio, o meglio dei linguaggi: infatti è rilevabile un linguaggio del "vero" e un linguaggio dell'"immaginar". Il linguaggio del "vero" è aulico, solenne, tende a conferire fermezza e irrevocabilità alla desolazione della negatività del reale. Tale linguaggio presenta infatti un lessico composto di latinismi e arcaismi: "numi", "virtude", "viltade", "etade", "parenti", "vetusti", "ruina", "averno", "duolo", "polo", "prischi". Sul piano sintattico, una posizione di rilievo hanno certe formule secche e lapidarie, come da epitaffio, in genere collocate in chiusura di strofa ("A noi presso la culla/immoto siede, e su la tomba, il nulla"; "il certo e solo/veder che tutto è vano altro che il duolo"). A livello delle figure retoriche, il linguaggio del "vero" fa uso di metafore ardite, che tendono costantemente a conferire materialità all'astratto ("nebbia di tedio", "virtude rugginosa", "tedio che n'affoga", "le fasce cinse il fastidio"). Il linguaggio dell'"immaginar", invece, si nutre di quelle immagini vaghe, che stimolano la mente a viaggiare verso il "vago e indefinito", e di quelle parole che Leopardi ritiene "poeticissime", sempre per l'indefinitezza che suggeriscono: "tua vita era allor tra gli astri e il mare", "infiniti flutti", "ignota immensa terra" (esempi non a caso ricorrenti nelle strofe dedicate a Colombo e ad Ariosto.

Ultimo canto di Saffo

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Questa poesia, composta a Recanati nel maggio 1822, è un monologo lirico attribuito a Saffo, l'antica poetessa greca che, secondo la tradizione, si uccise gettandosi dalla rupe di Leucade per amore di Faone. Lo spunto è ovidiano (Eroidi, XV), ma il personaggio diviene alter ego del poeta.

L'infelicità del destino individuale dell'io lirico, condannato dal caso ad avere la propria anima imprigionata in un corpo ripugnante, pare essere il tema centrale del canto (motivo peraltro già presente nella Sera del dì di festa). Qui, però, l'idea di un'infelicità individuale si estende fino a divenire infelicità universale, che abbraccia tutta l'umanità. Il discorso passa perciò dall' io iniziale al noi: "Arcano è tutto,/fuor che il nostro dolor". Se in questo caso può ancora sussistere il dubbio che si tratti di un plurale di modestia (usato per limitare l'autorità dello scrivente), nell'ultima strofa appare chiaro che il pronome al plurale sottende tutta l'umanità: è una diagnosi della condizione dell'uomo in generale, condannato a perdere presto la freschezza della giovinezza e a patire malattie, decadenza fisica e morte.

L'infelicità non è più soltanto dei moderni, incapaci di illudersi per la corruzione di questa capacità da parte del progresso e della ragione. Essa è universale e fuori dal tempo: non appare casuale la scelta della poetessa greca come esempio di infelicità. La miseria umana non risparmia più nemmeno gli antichi, ritenuti in precedenza privilegiati perché più vicini alla natura e non soggetti alla forza distruttiva della ragione.

Questa concezione universale dell'infelicità nasce dal fatto che ora, alla natura benigna del primo Leopardi, si associa l'idea di un fato crudele, che elargisce sventure senza criterio e destina la "negletta prole", l'uomo, a una sofferenza senza rimedio e senza uscita. Il dualismo natura-fato è una fase transitoria: ben presto sarà la natura ad assorbire le caratteristiche di questo fato ostile (si ricordi l'operetta Dialogo della Natura e di un Islandese a proposito). Saffo diviene dunque portavoce di una coscienza affatto moderna (e del poeta stesso), priva delle illusioni prive e dolorosamente gravata dalla piena consapevolezza del "vero".

A Silvia

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Il componimento, risalente alla primavera pisana del 1828, inaugura la stagione dei "grandi idilli". È considerato, con L'infinito, il momento più alto della poesia leopardiana.

Quella proposta non è una vicenda d'amore: tra i due giovani non corre un preciso rapporto sentimentale, la situazione è vaga e indefinita. Ciò che accomuna la fanciulla del popolo e il poeta aristocratico è, al di là dei mondi distinti che abitano, la condizione giovanile con le sue speranze, i suoi sogni, le sue illusioni, che invariabilmente vanno incontro a una cocente delusione. Non solo la situazione, poi, è contraddistinta da una certa vaghezza; quest'ultima informa l'intera lirica. Innanzitutto la figura presenta una fisicità solo abbozzata: solo due particolari concreti di Silvia ci è dato conoscere, gli occhi "ridenti e fuggitivi" rifulgenti di bellezza e l'atteggiamento "lieto e pensoso" con cui si accinge a lasciare l'adolescenza per la prima giovinezza. Questa essenzialità della descrizione di Silvia è tanto più evidente se si pensa alla tradizione della raffigurazione della bellezza femminile del tempo, ricchissima di insistenze su una serie di caratteristiche fisiche. Più vaga ancora è la descrizione dell'ambiente esterno: il paesaggio primaverile è quasi privo di indicazioni concrete (forme, colori, odori), ridotto a una sobria serie di aggettivi ("quiete", "odoroso", "sereno", "dorate"). Non c'è urgenza fisica, sensuale nel mondo esterno, che pare rarefatto, assottigliato (in aperto contrasto con la chiarezza plastica e sensuale di certi paesaggi nei Sepolcri o nelle Grazie). Sobrietà e indefinitezza non sono casuali, ma seguono fedelmente la poetica del "vago e indefinito", i quali nel loro alone incerto adombrano il bello delle cose e della poesia. Il vago e l'indefinito sono un'illusione di infinito, quell'infinito a cui l'uomo irriducibilmente aspira, e che non è possibile perché disgiunto dal "vero".

La poesia trova il proprio spunto nel canto della fanciulla che giunge al poeta chiuso nel suo studio. Esso è certamente un'esperienza realmente vissuta, e se ne trova conferma nei Ricordi d'infanzia e adolescenza del 1819. Come di consueto, però, l'esperienza vissuta è sottoposta a una "depurazione", che la libera dall'urgenza materiale del vero. Questo procedimento si compie attraverso diversi "filtri":

  • Il filtro fisico.

Leopardi percepisce il mondo esterno attraverso la finestra del suo studio nella casa paterna (il "paterno ostello"), che non gli permette il contatto immediato con la realtà. L'io lirico non è mai completamente immerso nella realtà che descrive, anzi, ne è separato come da una sorta di diaframma. Questo diaframma è spesso proprio la finestra. La realtà è percepita attraverso le pareti di una stanza, lo studio dove il poeta pensa, studia, legge, scrive; cioè, attraverso le pareti del suo mondo interiore. La finestra mette simbolicamente in contatto due mondi, l'interiore e l'esteriore, l'immaginario e il reale. Limitando il contatto con il reale, accende l'immaginazione, come capita anche con la siepe dell'Infinito.

  • Il filtro dell'immaginazione.

Nel rapporto con il reale si determina una sorta di "doppia visione". In una nota dello Zibaldone del novembre del 1828 si legge: "All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io son vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose". Il canto della fanciulla, però, stimola l'immaginazione perché già di per sé è una sensazione particolare, di quelle vaghe e indefinite.

  • Il filtro della memoria.

Il ricordo, analogamente all'immaginazione, trasfigura le cose e le rende indefinite, adatte alla poesia. Leopardi annota nello Zibaldone che "un oggetto [...] affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico [...] si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago". In questo caso, un particolare del passato, il canto della fanciulla, è richiamato alla memoria e trasfigurato poeticamente; esso aveva inoltre già subito una trasfigurazione al momento della percezione, per via del "filtro dell'immaginazione". Il fatto è così doppiamente trasfigurato.

  • Il filtro letterario.

La "doppia visione" precedentemente ricordata è anche l'intromissione nella percezione del reale di reminiscenze letterarie. Al canto della fanciulla si sovrappongono così ricordi di passi poetici particolarmente cari al poeta: all'immagine di Silvia che canta mentre lavora al telaio si sovrappone il passo virgiliano del canto di Circe, udito dai Troiani mentre veleggiano nella notte dinanzi alle coste italiche: solis filia lucos/adsiduo resonat cantu [...] arguto tenues percurrens pectine telas (La figlia del Sole fa risuonare le selve del suo perpetuo canto, percorrendo col pettine sonoro le sottili tele, Eneide, VII, vv. 11-14). I dubbi su questa sovrapposizione sono pressoché nulli, in quanto il passo virgiliano è molto caro a Leopardi e variamente citato nella sua opera come mirabile esempio di poesia "d'immaginazione" antica, nonché citato nello Zibaldone poco dopo le osservazioni sul potere suggestivo del canto.

  • Il filtro filosofico.

L'illusione, trasfigurata dalla "doppia visione" e dalla memoria, non può comunque essere rivissuta con la stessa immediatezza e ingenuità degli anni giovanili. Il tempo che da allora è passato ha dato tempo alla presa di coscienza del "vero" di consolidarsi. L'illusione dunque risorge, ma sempre prepotentemente accompagnata dalla consapevolezza dell'arida realtà. Le immagini luminose del passato sono coni di luce gettati nella densa ombra del presente. La realtà nella poesia appare così smaterializzata in conseguenza del fatto che, oltre a essere un fantasma dell'immaginazione e della memoria, è appunto accompagnata da tale consapevolezza. La poesia leopardiana è giocata sul "non dire", ma è una sfida al silenzio e al nulla, dettata dal bisogno di affermare il bisogno di felicità, nonostante qualsiasi conquista filosofica. Il componimento si chiude con l'immagine della "fredda morte"; ciononostante, è pervaso da immagini di vita e di gioia, evocate dallo sfondo d'ombra e di nulla, come protesta contro una natura impietosa che non le ha permesse all'uomo.

La lirica è costruita con finissima sapienza stilistica a tutti i livelli.

  • Livello fonico.

Il gruppo di lettere vi ricorre frequentemente: "fuggitivi", "salivi", "avevi", "solevi", "sedevi", schivi", "festivi", "perivi". In tutte queste parole si nasconde Silvia, quell'immagine affiorata dalla memoria, che costituisce una trama sotterranea. Anche il particolare degli occhi di Silvia è connotato dal ricorrere dello stesso suono, con una specie di rima a distanza ("ridenti e fuggitivi", "innamorati e schivi").

  • Livello morfologico.

L'imperfetto e il presente si oppongono per tutta la poesia. L'imperfetto è il tempo della continuità nel passato, dunque segna il "naufragare" nei sogni giovanili dalla durata non definita (e quindi potenzialmente infinita), nell'illusione e nella memoria. È il tempo che domina nelle strofe 1, 2, 3 e 5, che rievocano il passato. Questa continuità nel passato è interrotta nelle strofe 4 e 6, in cui il poeta sospende la rievocazione per tornare bruscamente al presente e stilare un amaro bilancio, ardente di protesta contro la natura che nega la gioia all'uomo. È qui che irrompe il presente, il tempo del vero, della consapevolezza di esso, della delusione. Tuttavia, alla strofa 5 si noti "perivi, o tenerella", "e non vedevi il fior degli anni tuoi", "non ti molceva il core"; le deluse speranze della fanciulla sono espresse con l'imperfetto, la memoria smussa gli spigoli del vero.

  • Livello lessicale.

Il lessico risponde appieno alla poetica del "vago e indefinito": nelle strofe del ricordo e dell'illusione prevalgono parole che Leopardi considera altamente poetiche: "fuggitivi", "quiete" , "perpetuo", "vago", "odoroso", "da lungi", "dolce". Vi sono anche termini dalla coloritura arcaica, "peregrini", lontani dall'uso comune: "rimembri", "veroni", "ostello", "giovanezza".

  • Livello sintattico.

La sintassi è piana e limpida, tendente alla paratassi. I periodi sono brevi e le subordinate poco numerose: quelle che ci sono, sono prevalentemente temporali, spia del fatto che è la dimensione temporale della memoria a dominare. Nelle strofe 4 e 6, quelle del presente, la sintassi si fa più vivace: ricorrono esclamazioni, interrogazioni, anafore che accrescono la tensione. Le mosse di sdegno e di protesta rompono violentemente il flusso della memoria.

  • Livello metrico.

La metrica presenta una modulazione molto piana, sorretta da una nascosta musicalità. La libertà metrica è assoluta: endecasillabi e settenari si alternano senza uno schema fisso, come pure libera è la distribuzione delle rime. Ciò asseconda perfettamente la centrale tendenza alla vaghezza e all'indefinitezza nella poesia leopardiana. Questa libertà metrica è una grande innovazione nel contesto della poesia lirica italiana del primo Ottocento, ed è annunciata proprio da questo componimento. Alla musicalità contribuisce anche un particolare gioco metrico per cui, all'interno di diversi endecasillabi, assumono più rilievo dei più leggeri settenari, separati dal resto del verso da una cesura: "e tu, lieta e pensosa,// il limitare", "Era il maggio odoroso: // e tu solevi", "e quinci il mar da lungi, // e quindi il monte", "che speranze, che cori, // o Silvia mia!", "perivi, o tenerella. // E non vedevi", "la speranza mia dolce: agli anni miei". Conseguentemente, il discorso poetico ha una doppia modulazione: la prima esplicita, la seconda più riposta. Moltissimi endecasillabi, poi, presentano pause interne (versi 2, 4, 10, 12, 18, 19, 20, 22, 32, 35, 40, 41, 45, 46, 54, 58, 61). Questi versi compaiono soprattutto nel descrivere il canto di Silvia. I versi che paiono adombrati di "vago e indefinito" hanno un'estrema scorrevolezza musicale; i versi riflessivi, di protesta contro la natura ingrata, al contrario, sono più frantumati da pause.

Le ricordanze

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La poesia, che rientra nei "grandi idilli", fu composta a Recanati tra il 26 agosto e il 12 settembre del 1829.

Questo canto è folto di motivi, si configura come una summa delle tematiche dei "grandi idilli". Come indicato dal titolo, il tema fondamentale è il ricordo, il germe da cui scaturiscono i canti del '28-'30. Essi infatti nascono come recupero, attraverso la memoria, della giovanile facoltà di sentire e immaginare, creduta perduta dal poeta (e sul motivo del ricordo era già impostato il primo di essi, A Silvia). Nell'esteso canto i motivi si organizzano secondo una legge di alternanza e ripresa, con abile orchestrazione sinfonica. I due temi fondamentali, gli "ameni inganni" giovanili e la consapevolezza del "vero", si alternano infatti di strofa in strofa. Ai diversi temi corrispondono anche diverse tonalità stilistiche; l'alternanza fa sì che ogni tema e ogni tono prendano nuovo vigore dalla giustapposizione a quello precedente e contrario. La divisione tra una strofa e l'altra, poi, è come la pausa che separa i vari movimenti di una sinfonia. Non vi sono, tuttavia, scarti bruschi, perché al termine di ogni strofa è già annunciato il tema che sarà della successiva. La prima strofa, per esempio, è tutta tesa a rievocare l'immaginosità fanciullesca, ma al termine già propone il motivo della vita "dolorosa e nuda", che prevarrà nella seconda strofa. Viceversa, al termine di quest'ultima si propone l'immagine della giovinezza come "unico fiore" dell'"arida vita", che anticipa la tematica della terza strofa, di nuovo concentrata sulle illusioni giovanili (anticipandone, attraverso la metafora del fiore, lo stile e la tonalità).

Le strofe dedicate agli "ameni inganni" sono tutte pervase da quelle immagini vaghe e indefinite tanto care a Leopardi (rese attraverso parole particolarmente "poetiche": ad esempio quella d'apertura, "vaghe"). Ad esempio, nella prima strofa si ha subito l'immagine del cielo stellato, che accende l'immaginazione del fanciullo spingendolo a evocare tante "immagini" e tante "fole": il cielo stellato è suggestivo per la sua vastità spaziale indefinita e le lontananze immense che suggerisce, e la moltitudine delle stelle ha lo stesso effetto. Si ha, poi, il "canto/della rana rimota alla campagna", suono suggestivo perché proviene da lontano. La suggestione è anche amplificata dall'atmosfera notturna e dalla vaghezza del complemento di luogo "alla campagna". C'è poi il sussurro del vento tra i "viali odorati", altra sensazione pregnante per il poeta insieme ai suoni provenienti da lontano (come lo stormire delle fronde nell'Infinito). La vasta prospettiva spaziale ("la vista/di quel lontano mar, quei monti azzurri") induce a "pensieri immensi" e "dolci sogni"; vi si ripete la suggestione creata in A Silvia ("e quinci il mar da lungi, e quindi il monte"). I "monti azzurri" fanno le veci della siepe dell'Infinito: ostacolano la visuale e stimolano l'immaginazione a "fingere arcani mondi, arcana/felicità". Nella terza strofa è suggestivo il rintocco delle ore che proviene dalla torre del borgo, che giunge da lontano, nell'oscurità notturna. Nell'ultima strofa, infine, torna il motivo della voce della fanciulla, riprendente il canto di Silvia. In effetti, molti temi di "A Silvia" ritornano in questa strofa: il vagheggiamento della fanciulla che si avvia piena di speranza verso la giovinezza, assunta come simbolo della speranza giovanile e poi stroncata dalla morte; la costellazione tematica giovinezza-primavera-festa; la contemplazione del paesaggio idillico (si confrontino "gli odorati colli" con il "maggio odoroso" di A Silvia).

Le strofe dedicate al "vero" presentano invece un linguaggio più scarno, privo di suggestioni. Occasionalmente la freddezza e l'immobilità di morte della contemplazione del "vero" sono mosse da accenti patetici ("Oh speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età!") o da fremiti di sdegno ("intra una gente/zotica, vil [...]").

La quiete dopo la tempesta

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Composto dal 17 al 20 settembre 1829, è uno dei "grandi idilli".

L'immagine che apre la poesia è quella della vita semplice di un borgo, che si risveglia dopo un forte temporale. Le immagini iniziali, limpide e fresche, esprimono la sorpresa e la contentezza per il rapido cessare della tempesta e l'improvviso rianimarsi della piccola comunità. A queste ultime segue una serie di frasi interrogative che segna il passaggio dal particolare (il temporale) all'universale e traduce la vivace gioia appena rappresentata in una disillusa riflessione sull'infelice condizione umana e sull'illusorietà del piacere. I versi conclusivi, comprensivi di apostrofe rivolta alla natura maligna, vedono l'umanità tutta affratellata in un ineluttabile destino di infelicità e sofferenza.

La poesia appare nettamente divisa in due parti: la prima descrittiva e idillica (strofa 1), la seconda amaramente riflessiva (strofe 2 e 3). La descrizione iniziale non ha finalità ritrattistiche, non mira a rappresentare un preciso quadro realistico: è un paesaggio immaginato e costruito sulla suggestione di "vago e indefinito" dei suoni che giungono da lontano e dello spazio senza confini determinati, indefinitamente vasto (il sereno che "rompe là da ponente, alla montagna", il fiume che appare "chiaro" nella valle, il sole che sorride "per li poggi e le ville"; si noti anche il frequente ricorrere a complementi di luogo vaghi). Non è dunque una scena oggettiva, ma assolutamente interiorizzata, trasfigurata dalla "doppia visione" propria delle sensibilità acute e immaginative.

La seconda parte del canto è, come detto, riflessiva, "filosofica". Il concetto principale è il piacere visto come cessazione di un dolore o di un timore, il piacere "figlio d'affanno". È un concetto già enunciato nello Zibaldone nel 1822 e nella Storia del genere umano, ma se allora il male era visto come qualcosa di necessario alla felicità e convertibile in bene nel piano provvidenziale della natura, qui la natura è maligna, dispensatrice crudele di sofferenze (con sarcasmo le si rivolge l'apostrofe della terza strofa: "O natura cortese"). Anche il piacere è inesistente, vano. Esso, effettivamente, non esiste: è una "privazione di dolore".

L'impianto tematico è, come già in A Silvia e Le ricordanze, si basa sull'opposizione illusione/consapevolezza del vero, vagheggiamento della vita e della gioia/contemplazione del dolore e del nulla. La critica crociana, avversa al pensiero pessimistico di Leopardi, ha disprezzato la parte riflessiva a favore di quella idillica, considerata la sola originata da un'autentica ispirazione. Le due parti sono in realtà indisgiungibili: la poesia è fondamentalmente unitaria. Il suo senso profondo è l'attaccamento al fervore della vita, alla sua animazione, alla sua luminosità, alla vitalità e alla gioia, nonostante la desolata consapevolezza del "vero" e dell'impossibilità della felicità per gli uomini. È questo il ritmo generale dell'ispirazione del poeta. Ciascuno dei due poli, anche se apparentemente opposti, è necessario, e uno non nega l'altro. Lo stacco brusco di temi e tonalità, deprecato da Croce, è proprio ciò che anima questa poesia.

Anche la struttura stilistica appare bipartita. La prima parte del testo presenta una sintassi fluida, fatta di frasi brevi e piane. La seconda parte, maggiormente carica di pathos, è costituita da frasi concise, secche, epigrafiche, ed è caratterizzata da movimenti più ampi, vivacizzati da interrogazioni, esclamazioni e apostrofi sarcastiche.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il livello metrico. Nella prima parte, una trama di assonanze (esempio: "vale"-"appare") dà vita a una musicalità discreta, ulteriormente accentuata dalla rima al mezzo ("tempesta"-festa"). Nella seconda parte le rime si diradano; in particolare, i versi più densi di amarezza e desolazione, elencanti i mali dell'uomo, non ne presentano.

Il sabato del villaggio

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La poesia fu composta a Recanati, subito dopo La quiete dopo la tempesta, all'inizio dell'autunno del 1829.

Con l'immediatamente precedente Quiete, questo canto forma una sorta di dittico. La struttura è la stessa: prima una parte descrittiva dell vita di paese, poi una parte riflessiva che prende le mosse dalla precedente; anche tematicamente è complementare alla Quiete: se là il piacere era la cessazione di un dolore, qui è speranza e illusione nell'attesa di un godimento futuro.

La descrizione di vita borghigiana si apre con due figure femminili in contrapposizione: la "donzelletta" che vagheggia la gioia del giorno festivo venturo e la "vecchierella" che rimembra la gioia delle feste a cui prese parte in gioventù. Le due figure sono emblemi della speranza giovanile e della memoria, strettamente legate nel sistema leopardiano. La speranza e la giovinezza si collegano consuetamente col tema della festa e della primavera (come anche nella Sera del dì di festa, in A Silvia, nella strofa di Nerina delle Ricordanze, nel Passero solitario). La speranza giovanile e la primavera si concretano nel simbolo del "mazzolin di rose e di viole" tanto deprecato dal Pascoli, cui è contrapposto il "fascio dell'erbe" che corrisponde alla realtà quotidiana, alla "faticosa tela" di Silvia contrapposta al "vago avvenir" di cui ella è "contenta".

Come accennato prima di sfuggita, nel saggio Il sabato del 1896 Pascoli critica il fatto che Leopardi unisca rose e viole nello stesso mazzo (i due fiori appartengono a stagioni diverse, "rose di maggio e viole di marzo"). Questo è lo spunto per una polemica contro la genericità propria dell'intera tradizione poetica italiana, incapace di stabilire un rapporto immediato con la natura senza avvalersi di un filtro "libresco". In realtà, come sappiamo, la genericità corrisponde a un preciso intento di Leopardi, poiché è finalizzata a quell'impressione di "vago e indefinito" che elude l'"arido vero" e permette la poeticità.

Il filtro letterario, così aborrito da Pascoli, serve a trasfigurare immaginosamente la realtà (si veda il ricordo dei versi virgiliani che riecheggia in A Silvia). Questa considerazione non si limita alle rose e alle viole, ma si estende all'intero quadro borghigiano. Come nella Quiete, la descrizione non ha nulla di bozzettistico proprio perché molti elementi sono sottoposti al filtro letterario, che li allontana e li smaterializza, trasformandoli in prodotti della memoria e dell'immaginazione. La donzelletta rimanda a una solida tradizione di figure femminili che si ornano con ghirlande di fiori: la Matelda dantesca e la fanciulla della ballata delle rose di Poliziano, per esempio; le ombre che si allungano dai colli e dai tetti rinviano a Petrarca (Canzoniere, L, vv. 16-17), che a sua volta rimanda a Virgilio: Et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae (E già di lontano fumano i comignoli dei casolari / e più lunghe cadono le ombre dagli alti monti, Bucoliche, I, vv. 82-83). Il sistema sotterraneo di rimandi letterari non è solo uno sfizio erudito, ma è spia di quella "doppia visione" delle cose, non colte nella loro oggettività, ma sempre filtrate dall'immaginazione e dalla memoria, anche letteraria.

Il quadro di vita paesana è costellato da immagini che rimandano al "vago e indefinito": la sua oggettività realistica è veramente ridotta ai minimi termini. Il complemento di luogo "dalla campagna" suscita subito, al primo verso, l'impressione di una vastità spaziale indeterminata (vedi anche, dalla Quiete, "il sereno / rompe là da ponente alla montagna"); lo stesso accade per lo sfondo su cui è collocata la "vecchierella", "incontro là dove si perde il giorno" (la vaghezza è resa massima dal verbo "perdersi"); il gioco di luce e ombra creato dalla luna nascente è anche un'immagine poetica per la sua indefinitezza (vedi anche l'inizio della Sera del dì di festa).

A differenza della Quiete, però, la parte riflessiva che segue non dà l'impressione di un brusco stacco, non è amara, sarcastica, frammentata e tesa nello stile. La riflessione sentenziosa che nega la possibilità del piacere (il giorno festivo tanto aspettato e invocato porta solo noia e tristezza) occupa solo cinque versi e non è drammatica, né risuona di accenti di titanismo: è pacata e sobria. La conclusione filosofica, lungi dall'essere raziocinante, è affidata a un affettuoso colloquio col "garzoncello"; non insiste, poi, sul "vero", ma è piuttosto un invito a non sporgersi dai confini dell'illusione giovanile. C'è una delicata dissimulazione dell'"acerbo vero", non la sua enfatizzazione polemica.

Sul piano stilistico manca quell'opposizione tra la musicalità della parte descrittiva e lo stile teso della parte riflessiva che caratterizzava la Quiete. L'ultima strofa è di estrema levità ritmica, i versi hanno scorrevolezza musicale, le rime "giocano" tra loro: questi aspetti continuano l'andamento "idillico" delle strofe iniziali. Il lessico dell'ultima strofa rimanda per lo più al linguaggio del "caro immaginar", non a quello del "vero".

Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

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È l'ultimo dei canti recanatesi del '29-'30. Lo spunto è tratto da un articolo del Journal des savants, in cui si legge che i pastori nomadi dell'Asia centrale trascorrevano le notti sedute su un masso ad ammirare la luna e improvvisare canti tristissimi.

Il poeta non si esprime in prima persona: è un uomo primitivo, semplice e ingenuo, a prendere la parola. Il pessimismo storico della prima fase del pensiero di Leopardi vuole infatti che i primitivi fossero più vicini alla natura e più inconsapevoli del vero, e dunque più felici dei moderni. Qui invece il primitivo è in grado di "filosofare" come gli uomini civilizzati, ed è pienamente consapevole dell'infelicità propria e dell'universo intero. È questo l'indizio più chiaro del passaggio al pessimismo cosmico.

Non sono la memoria, il "caro immaginar" e l'effusione degli affetti i motivi principali del canto: è piuttosto una lucida riflessione che, prendendo le mosse da problemi elementari, finisce per abbracciare i grandi problemi metafisici. Si tratta quindi di poesia "sentimentale" e non più "ingenua", filosofica e fondata sul "vero". Per questo motivo il linguaggio, pur essenziale e straordinariamente puro, manca di accenti affettuosi che scaturiscono dal vagheggiamento dell'illusione.

Anche il paesaggio non è quello familiare, riportato alla luce dalla memoria che fruga gli anni giovanili. È un paesaggio astratto, metafisico. Si ravvisa la suggestione del tempo e dello spazio infiniti: i "sempiterni calli", gli "eterni giri", il "corso immortale" della luna, il "tacito, infinito andar del tempo", il "deserto piano" che "in suo giro lontano al ciel confina", l'"aria infinita", il "profondo infinito seren", la "solitudine immensa". Non si tratta di un infinito solo immaginato, ma di un prodotto della ragione; nella contemplazione non c'è più salvezza, la coscienza non naufraga più dolcemente nel mare dell'infinito, perché rimane vigile e sensibile alla sofferenza e all'insensatezza dell'esistenza.

Per queste caratteristiche, il Canto notturno fa presagire la stagione successiva della produzione leopardiana, quella del ciclo di Aspasia, una poesia severa, fondata sul puro pensiero.

Il passero solitario

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La datazione di questa poesia è controversa: nei Canti è collocata prima dell'Infinito, ma vari elementi ne impediscono l'appartenenza alla stagione dei primi idilli. La struttura metrica è quella dei "grandi idilli" (strofe libere di endecasillabi e settenari, mentre i primi idilli sono in endecasillabi sciolti), la prima comparsa è nell'edizione napoletana del 1835 e, infine, un appunto in cui si legge "passero solitario" si trova in un elenco di possibili argomenti per idilli del '19-'20. Il poeta deve aver ripreso ed elaborato uno spunto risalente agli anni giovanili; la collocazione in apertura dei primi idilli può essere dovuta alla tematica della poesia, (l'infelicità individuale opposta alle gioie altrui); il poeta, inoltre, parla della propria condizione giovanile come se fosse presente, senza rievocarla con la memoria (come in A Silvia e nelle Ricordanze).

Il canto è costruito su una similitudine tra il passero e il poeta: come il passero vive in solitudine, non prendendo parte ai giochi degli altri suoi simili, così il poeta si isola dagli altri giovani e disdegna i loro divertimenti. La prima strofa è dedicata al passero, la seconda al poeta, la terza (più breve) riprende il confronto ponendo faccia a faccia la vecchiezza di entrambi: la costruzione è simmetrica. Si noti la simmetria rovesciata nella disposizione dei temi tra le prime due strofe:

Strofa I

A) Solitudine del passero (vv. 1-49)
B) La festa degli uccelli (vv.5-11)
C) Il passero è incurante degli svaghi (vv.12-16)

Strofa II
C) Il poeta non si cura di sollazzo, riso e amore (vv. 17-26)
B) La festa dei giovani (vv. 26-35)
A) Solitudine del poeta (vv. 36-44)

Si noti anche la collocazione simmetrica, molto evidente all'inizio del verso, dei pronomi personali: "Tu pensoso in disparte" (v.12)/ "Io solitario" (v.36).

Il canto è idillico in primo luogo per la fitta distribuzione di immagini vaghe e indefinite: subito si ha il canto del passero che si perde in un'indeterminata lontananza, di nuovo evocata dal complemento di luogo vago "alla campagna"; il motivo fonico è poi ripreso dal belar delle greggi e dal muggir degli armenti. Anche la torre che si erge nel cielo evoca un'idea di infinito ("Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l'indefinito", Zibaldone, 1° agosto 1821). Alla suggestione contribuisce l'antichità della torre, perché "l'antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni", perché "produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde". "Antica" e "solitario" sono parole ritenute "poeticissime" da Leopardi, perché suscitano idee indefinite.

La costellazione dei temi, giovinezza-gioia-festa-primavera, compare sia nella prima strofa a proposito del passero, sia nella seconda a proposito del poeta. Nella seconda strofa ritornano le sensazioni vaghe e indefinite, soprattutto foniche, come il "suon di squilla" che si ode "per lo sereno", il "tonar di ferree canne" che rimbomba di villaggio in villaggio. L'ultima parte della seconda strofa istituisce un forte contrasto tra la solitudine del poeta e la gioia giovanile della festa. Neanche qui però domina il linguaggio del "vero", ma continua il linguaggio dell'"immaginar": ricorrono termini "poetici" intrisi di vago e indefinito, "solitario", "rimota", "lontani", ancora "alla campagna". Questa soluzione stilistica è spia di una conclusione importante: per Leopardi la giovinezza è pur sempre la stagione privilegiata, per quanto solitaria e senza gioia possa essere. L'età del "vero" è la "vecchiezza": il linguaggio del "vero", infatti, compare nella seconda parte dell'ultima strofa, dedicata alla vecchiaia del poeta (si noti come la parte dedicata alla vecchiaia del passero ne sia immune): la sintassi è più ampia e complessa, animata da interrogazioni, esclamazioni ed anafore; il lessico non è più improntato alla vaghezza, ma alla negatività data da parole come "vecchiezza", "detestata", "muti", "vòto", "noioso", "tetro", "sconsolato".

Amore e Morte

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Risalente al secondo periodo fiorentino (seconda metà del 1833), il canto fa parte del "ciclo di Aspasia", cioè di una serie di cinque componimenti ispirati all'infatuazione del poeta per una donna (Fanny Targioni Tozzetti), adombrata sotto il nome della cortigiana greca cara a Pericle.

L'amore e la morte, temi centrali del canto, informano gran parte della poesia leopardiana. Qui, però, sono affrontati in un modo nuovo. A differenza di quanto sostenne nell'operetta Storia del genere umano, in cui si indica l'amore come mezzo per tornare alle illusioni della fanciullezza e della giovinezza, in questo componimento Leopardi non presenta l'amore come illusione che vela la realtà, ma come mezzo per affrontare con più coraggio la vita: esso rende infatti forti ed eroici e spinge a grandi gesti. È chiaramente visibile l'atteggiamento inconsuetamente energico e combattivo dell'ultimo Leopardi, impegnato in una lotta faccia a faccia con il "vero".

Resta però una frattura insanabile tra le immagini felici suggerite dall'amore e il "deserto" della vita reale. L'illusione c'è, ma non può più abbellire la realtà. Il contrasto netto illusione/vero che pervadeva gli idilli sembra cessare. L'amore non evoca più i "dolci sogni" della giovinezza, ma è diventato un "fier disio", una forza oscura dalla potenza devastante, che tutto travolge e porta con sé. L'unica possibilità per affrancarsi da tale tensione tragica è la morte. La morte non è più il vanificarsi delle illusioni giovanili (come volevano i primi idilli, le canzoni e i grandi idilli), ma è ora invocata come bene supremo.

L'amore e la morte innalzano a un livello eroico anche gli umili, "l'uom della villa", la fanciulla "timidetta e schiva". Persino essi, grazie all'amore, giungono alla facoltà di considerare la morte come contestazione ultima di una realtà che non contempla la possibilità della felicità. L'ultima strofa, in particolare, si focalizza su questa facoltà nobilitante. Si palesa qui in primo piano la figura del poeta, fino ad ora rimasta nell'ombra di un discorso oggettivo e assertivo. L'immagine che propone di sé è marcatamente eroica: la realtà è vista come inerte oggetto del dominio di una potenza malefica e ostile (il fato o la natura, non più distinti), il cui scopo è la sofferenza e la distruzione delle sue creature. La visione cristiana che si andava riaffermando negli anni della Restaurazione la sofferenza era considerata una prova inviata all'uomo da un Dio benevolo, come una "provida sventura" di cui ritenersi privilegiati (è questa la concezione che informa I promessi sposi di Manzoni). Leopardi, materialista e strenuamente ateo, considera "vile" tale atteggiamento e, con slancio titanico, denuncia la crudeltà gratuita della natura e la sfida. Per l'uomo non c'è nessun premio celeste dopo la sofferenza terrena: per il poeta si tratta di una consolazione stolida e vana, propria di animi infantili.

La novità nel trattamento dei temi è accompagnata da un particolare impianto stilistico: non ci sono più immagini vaghe e indefinite, non c'è più il linguaggio dell'"immaginar", la sintassi non è più scorrevole e piana, i versi non sono più modulati fluidamente e musicalmente. Il linguaggio è prevalentemente severo, con abbondanza di termini astratti o metafore di penetrante espressività (ne sia esempio il "fier disio/che già, rugghiando, intorno intorno oscura"). Anche la metrica è antimusicale, con versi continuamente interrotti da cesure ed enjambements.

A se stesso

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Lo spunto per questa poesia, composta probabilmente nel 1835, dovette essere il disinganno a cui andò incontro l'amore per Fanny Targioni Tozzetti.

Questo componimento conclude e suggella il "ciclo di Aspasia". Vi è affermata la scomparsa dell'amore, l'"inganno estremo", che era stato cantato nel suo momento culminante anche in Amore e Morte. Il distacco definitivo dalla fase giovanile delle illusioni è segnato: a differenza che negli idilli del '28-'30, ora persino il desiderio di "cari inganni", di illusioni recuperate dalla memoria. L'illusione è negata fermamente e perentoriamente. Non c'è più neppure l'atteggiamento contemplativo e distaccato delle Operette: qui regna il contegno agonistico, che disprezza quel se stesso che ha ceduto di nuovo ai "cari inganni", la natura e la forza maligna del fato, che ha per fine il male (quello che il poeta chiama altrove Arimane). Ora la la coscienza dell'"infima vanità del tutto" non genera più la noia, bensì un atteggiamento combattivo, superbo, sprezzante.

La tensione eroica trova corrispondenza nella potente tensione stilistica, che rende questo testo esemplare della poetica dell'ultimo Leopardi. L'andamento del discorso poetico è estremamente frastagliato. Si avvicendano proposizioni brevissime (composte talvolta da una sola parola: "Perì"), che provocano la rottura dei versi in molteplici pause. La discontinuità è data anche dai forti enjambements: "Assai/palpitasti"; "è degna/la terra"; "amaro e noia/la vita"; "disprezza/te, la natura, il brutto/poter". Come si vede, i procedimenti già rintracciati in Amore e Morte tornano qui in forma estremizzata. Anche il lessico è spoglio e secco. Rari sono gli aggettivi, perciò il discorso consta soprattutto di verbi e sostantivi, con prevalenza netta di questi ultimi. Sono sostantivi ricchi di espressività e densi di concetti: "terra", "mondo", "natura", "noia", "vita", "morire", "fato", "poter", "vanità": ciascuno di questi sostantivi concentra su di sé l'attenzione, essendo situato all'inizio o alla fine del verso. Come già in Amore e Morte, la distanza rispetto al linguaggio degli idilli, pregno di parole "vaghe e indefinite" e dalla sintassi limpida, è tanta. La critica crociana ha preferito privilegiare gli idilli, considerando solo questi "poetici", svalutando questa fase della produzione leopardiana. In realtà, guardando in profondità e senza pregiudizi, si vede come non ci si trovi dinanzi a una mancanza d'ispirazione, ma a una poesia totalmente nuova, diversa da quella dei periodi precedenti ma non per questo inferiore.

Palinodia al marchese Gino Capponi

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Composta forse nel 1835 e comparsa per la prima volta nell'edizione napoletana, la poesia (il titolo, Palinodia, significa "ritrattazione") è costruita sulla finzione ironica del poeta di ritrattare le sue concezioni pessimistiche e la sua polemica contro l'esaltazione del progresso a lui contemporanea. La forma è quella dell'epistola in versi, la satira prende ispirazione dal Giuseppe Parini del Giorno. Il marchese e letterato Gino Capponi conobbe Leopardi a Firenze nel 1827: liberale moderato, insieme a Vieusseux fondò l' "Antologia" e l'"Archivio storico italiano".

L'ottimismo progressista, fautore di un futuro di mirabile felicità grazie al progresso, è l'oggetto dell'amara satira di Leopardi. Portatori di queste concezioni erano i liberali toscani che facevano capo alla rivista "Antologia", che il poeta ben conosceva. Per questo motivo la finta ritrattazione è rivolta al marchese Gino Capponi, esponente di spicco di quel gruppo. A proposito di questa polemica si è diffuso un equivoco, e cioè che Leopardi critichi i liberali perché troppo "cauti" e non autenticamente progressisti. In realtà il poeta deride le concezioni liberali perché ritiene che i mali dell'uomo facciano parte dell'ordine della natura e che quindi siano ineliminabili, e che sia sciocco pensare di portare l'uomo alla felicità attraverso riforme politiche e progresso tecnologico, dato che l'infelicità è un dato immodificabile. L'idea di un'umanità felice è per Leopardi un inganno, così come lo è l'idea di una società più giusta nei suoi ordinamenti politici: secondo lui, nessuna forma di governo può evitare che il virtuoso sia sopraffatto e che trionfino la prepotenza e la frode, perché è legge di natura. Ogni valore al progresso in assoluto è negato, poiché esso non può intervenire su una legge di natura, e deride le concezioni progressiste e ottimistiche come sciocche illusioni infantili.

Si potrebbe pensare che Leopardi sia un reazionario. In realtà non è così: reazionario era chi voleva il ritorno dell'ancien régime, della monarchia assoluta, del principio d'autorità che negava la libertà (in politica come in filosofia), della legittimazione religiosa delle disuguaglianze sociali e dei soprusi dei privilegiati come voluti da Dio, della Chiesa che, alleata con la monarchia, manteneva l'ordine ed era ostile alla diffusione dell'istruzione, potenziale fonte di spirito critico. Leopardi aborre tutte queste convinzioni: lo conferma lo sdegno con cui smentisce la voce che attribuisce a lui i Dialoghetti del padre Monaldo, che sostengono posizioni del genere. Il pessimismo assoluto non può rientrare in nessuna categoria ideologica, in nessuno schieramento politico. Questo fa di Leopardi un intellettuale sostanzialmente isolato, che in virtù del proprio pessimismo guarda dall'alto le ideologie ed è portato a svalutarle.

Proprio questo sguardo "dall'alto" gli permette di vedere con lucidità e profondità le tendenze della sua epoca. Non è legittimo, quindi, parlare di un Leopardi "progressivo" (come vuole una celebre formula di Cesare Luporini), bensì di un Leopardi "negativo", cioè uno scrittore estremamente critico e demistificante nel cogliere ed estrapolare il negativo dal suo tempo e dalle società umane in senso generale (diverso sarà il discorso per il messaggio ultimo della Ginestra, però). Nonostante i favoleggiamenti su una ventura età dell'oro grazie al progresso, Leopardi mostra come l'uomo dovrà ugualmente faticare e che, se disprezzerà oro e argento, sarà solo perché utilizzerà biglietti di banca al loro posto. Indica poi come siano proprio le rivalità commerciali a scatenare guerre sanguinose, per il dominio delle materie prime e dei mercati (e qui lo sguardo del poeta è quasi profetico).

L'ultimo mito che Leopardi si appresta a dissolvere è quello, nato nella società ottocentesca, della felicità derivante dall'abbondanza di beni materiali. È un mito creato da una società industriale, basata sulla produzione di merci da mettere sul mercato. Il poeta coglie, con incredibile preveggenza, i germi di quello che diventerà, con lo sviluppo di quel sistema economico, il moderno consumismo. Anche la polemica contro le "gazzette" come unica fonte di sapere è acuta; Leopardi intuisce i pericoli insiti nei giornali (e, poi, nei moderni mass-media): la manipolazione dell'informazione e conseguentemente delle opinioni, la creazione di un'opinione pubblica omologata e standardizzata, la diffusione di falsi miti, assorbiti passivamente da masse senza spirito critico. La Palinodia, dunque, oltre a essere un testo essenziale per comprendere le posizioni ideologiche di Leopardi, è anche sorprendentemente vivo, moderno, profetico.

La ginestra o Il fiore del deserto

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Composta nel 1836 presso Torre del Greco in una villa alle falde del Vesuvio, comparve nell'edizione postuma del 1845. Il componimento si configura come un poemetto di 317 versi, in cui sono trattati i temi più diversi con i toni più diversi. Vediamo di analizzarlo strofa per strofa:

  • prima strofa

La prima strofa è impostata sull'opposizione deserto/ginestra, aridità/profumo (= vita). Il primo elemento, il "deserto", evoca un paesaggio marcatamente antiidillico; il contrasto si avverte specialmente se si pensa ai paesaggi di A Silvia, delle Ricordanze e degli altri idilli. Il paesaggio idillico, effettivamente, è richiamato solo per essere negato per contrasto: dove ora c'è solo lava, "fur liete ville e colti", "muggito d'armenti". Il paesaggio si articola in tre quadri: il "formidabil monte" (il vulcano), immagine concreta della potenza distruttiva della natura; le "erme contrade" nei dintorni di Roma, desolate e abbandonate, corrose dal tempo e dunque rimando all'irrimediabile svanire di tutte le cose; le "ceneri infeconde" e l'"impietrata lava", immagini di morte, immagini tangibili del destino inflitto dalla natura alle sue creature. Per contro, l'altro membro dell'opposizione, la ginestra, è contenta dei deserti e li abbellisce, è sempre compagna di afflitte fortune, è gentile (in contrasto con la spietatezza del vulcano), ha compassione per i malanni altrui, consola l'arida desolazione del deserto col suo profumo. La ginestra è pregna di valore simbolico: rappresenta la pietà verso la sofferenza delle vittime delle persecuzioni della natura. Per Leopardi, però, la pietà è veicolata soprattutto dalla poesia, unico conforto all'infelicità umana. È dunque possibile scorgere l'identificazione tra la ginestra e il poeta (accomunati anche dalla solitudine: "tuoi cespi solitari"). Nella ginestra egli proietta soprattutto la sua pietà per le vittime della natura; viene così anticipato, sin dalla prima strofa, in questo simbolo, il motivo della necessaria solidarietà tra gli uomini, che sarà esplicato più avanti. Ma c'è un'altra identificazione tra il poeta e il fiore. La ginestra rappresenta una vita che resiste agli stenti del deserto, alla potenza distruttiva delle intemperie; vi si proietta perciò l'atteggiamento coraggioso, non rassegnato e sfidante la natura nemica, proprio dell'ultimo Leopardi. Ai due poli corrispondono anche tonalità e mezzi stilistici differenti. La sublimità grandiosa e orrida delle immagini del monte distruttore, dei deserti di cenere e della lava "impietrata" contrasta con la delicata musicalità dei versi dedicati alla ginestra ("di dolcissimo odor mandi un profumo"). La musicalità, però, non è più il linguaggio dell'illusione, come accadeva negli idilli, bensì della pietas. Nell'ultima parte della strofa c'è un brusco scarto dal motivo lirico a quello polemico contro l'ottimismo di chi esalta la magnificenza dell'uomo, condotto con corrosivo sarcasmo.

  • seconda strofa

In questa e nella strofa seguente l'argomento è polemico, derivante dal motivo introdotto al termine della prima strofa. L'oggetto della polemica è il ritorno di correnti ideologiche e filosofiche di stampo spiritualistico e religioso che si verifica durante la Restaurazione. Tutto ciò appare al materialista Leopardi come l'abbandono della via seguita dal pensiero moderno a partire dal Rinascimento fino all'Illuminismo, grazie al quale le tenebre della barbarie erano state dissolte, e il ritorno all'oscurantismo e alla superstizione del Medioevo. Il poeta denuncia i miti dominanti, rovescia le convinzioni che vi stanno alla base: l'esaltazione del progresso è parallela a un ritorno alla barbarie, la libertà è decantata mentre si ritorna alla schiavitù dei dogmi e dell'autorità. Solo il pensiero libero può portare il destino dell'umanità a un futuro migliore. Questo trionfo della visione neocattolica è attribuito a vigliaccheria (come anche in Amore e Morte): l'età attuale ha paura di guardare il "vero" coi propri occhi e fugge la filosofia che lo svela, aggrappandosi alla religione come a un'ancora di salvezza. Questi atteggiamenti, considerati vili e spregevoli, sono disprezzati da un Leopardi eroico e solitario, combattivo e orgoglioso della propria nobiltà spirituale; il motivo è sviluppato nella terza strofa.

  • terza strofa

La vera nobiltà spirituale è saper guardare coraggiosamente al destino comune, saper dire il vero sulla condizione vana e infelice del genere umano e mostrarsi forti nella sofferenza e solidali con gli altri uomini, e non esaltare con "fetido orgoglio" la grandezza dell'uomo e profetizzare per esso un destino di fulgida felicità. Qui è una svolta fondamentale del pensiero del poeta. La pars destruens della critica verso i miti del progresso è per la prima volta affiancata da una pars construens: egli propone una sua alternativa alle idee che osteggia. La felicità è sempre esclusa, ma è possibile un progresso che assicuri una società più giusta, che incoraggi rapporti più umani tra gli uomini. Se nella Palinodia era negato il progresso in assoluto, nella Ginestra è ammesso in questa forma. Alla falsa idea di progresso del suo tempo, consistente nella falsa idea di una nuova età dell'oro sotto l'egida delle riforme politiche e delle conquiste tecnologiche, che avrebbero assicurato la pace, la ricchezza e il dominio sulla natura, Leopardi contrappone il progresso autentico, civile e morale. Esso si fonda proprio sul pessimismo, sulla lucida coscienza della condizione infelice dell'umanità. Gli uomini, avendo questa coscienza, possono coalizzarsi e cercare di far fronte agli attacchi della natura maligna. Questo rinsalderebbe i rapporti sociali, la "social catena", nell'unire le forze contro la nemica implacabile. Di qui nascerebbe "vero amor" tra gli uomini, ma anche "giustizia" e "pietà", rapporti civili onesti e morali. Questa società più giusta e civile (dalla quale, si ricordi, è esclusa la possibilità della felicità) troverebbe il proprio fondamento soggettivo nel bisogno concreto degli uomini di salvaguardare la propria sopravvivenza: il progresso non può essere costruito su miti e "superbe fole". La guerra di tutti contro tutti, motivo supplementare d'infelicità, troverebbe fine in questa mesta solidarietà; l'uomo sarà soccorso e confortato dagli altri uomini quando la natura gli si accanirà contro. L'intellettuale ha un compito nella creazione di questa società: deve rendere "palesi al vulgo" tali concetti, diffondere la consapevolezza del "vero", spingere gli uomini alla fraternità indicando loro il nemico comune da combattere.

  • quarta strofa

La quarta strofa segna un netto stacco dalla precedente, provocando uno squarcio nella trama sinfonica del componimento. Essa si apre con uno scorcio paesaggistico, lo stesso paesaggio desolato della prima strofa, la distesa di lava solidificata, connotata dall'aggettivo "bruno" riferito al colore scuro, che evoca immagini di lutto. Qui si affaccia anche la figura del poeta. Negli idilli, il poeta non è mai immerso nella realtà esterna, ma la scruta sempre attraverso una sorta di "diaframma" fisico (di solito la finestra) che permette di interiorizzarla e sottoporla al lavorìo dell'immaginazione e della memoria. Qui invece non ci sono più barriere: l'io è immerso nella realtà, senza sfuggirla, ma affrontandola eroicamente. È una realtà scabra, inclemente, orrida, funebre: in una parola, antiidillica. Non è più trasfigurata da alcuna illusione, ma rappresenta senza veli la tragica condizione dell'uomo. Da ciò risulta la poetica nuova di Leopardi, non più spinta dal "caro immaginar", ma interamente dal "vero". La prospettiva si fa poi di più ampio respiro e si volge al cielo. Anche il cielo non ha più nulla di idillico, non evoca più ricordi di "fole" infantili, bensì un'ampia meditazione sulla nullità della terra e dell'uomo nell'universo. Non è più un infinito immaginato e vagheggiato: è vero. Con un ritorno tematico rispondente alla struttura sinfonica della poesia, l'idea della piccolezza umana costituisce lo spunto per una ripresa della polemica contro le posizioni religiose, che vogliono l'uomo signore e fine dell'universo, oltre che interlocutore di occasionali conversazioni con le divinità che scendono ogni tanto sulla terra. Di fronte a questi "sogni" del passato, già respinti dal moderno progresso filosofico, Leopardi è incerto tra il "riso" e la "pietà". In effetti, nella poesia si fondono entrambi: il "riso" per la stoltezza, la "pietà" per l'infelicità degli uomini. Il vasto respiro del lirismo e della meditazione corrisponde a un movimento sintattico parallelamente vasto. La meditazione sull'infinità dell'universo occupa un lunghissimo periodo, ricco di subordinate, che crea una sospensione che si protrae fino a precipitare nella brusca frase risolutiva, la principale "che sembri allora, o prole/dell'uomo?". S'inserisce poi un altro periodo lunghissimo, dedicato alle "favole" degli uomini, che si congela anch'esso in un'interrogazione: "qual pensiero [...] il cor m'assale?". Questo ampio movimento sintattico è suggellato, alla fine della strofa, da una frase lapidaria: "Non so se il riso o la pietà prevale".

  • quinta strofa

È qui ripreso il motivo della prima strofa, la potenza distruttiva della natura. Essa non s'interessa del destino dell'uomo più di quanto non s'interessi di quello delle formiche. Come un pomo cadendo da un albero schiaccia un formicaio, così l'eruzione del Vesuvio distrusse Pompei ed Ercolano nel 79 d.C. La scena è dinamica, ed è resa tale da un altro ampio movimento sintattico (vv. 212-226) che si risolve in tre rapidi verbi principali ("confuse/e infranse e ricoperse"), in cui il polisindeto è funzionale a rendere la rapidità della distruzione. Particolarmente pregnante è anche la metafora dell'"utero tonante", che rimanda evidentemente a una natura "madre di parto e di voler matrigna", dal cui grembo escono tanto la vita come la morte, indifferentemente.

  • sesta strofa

La quarta strofa era giocata sul contrasto tra infiniti spazi cosmici e risibile piccolezza della terra e dell'uomo; la sesta propone un analogo contrasto, ma spostato su una dimensione temporale: il contrasto tra l'insignificante tempo umano e il tempo eterno della natura. Il tempo umano scorre vario e trasforma continuamente le cose, mentre la natura maligna incombe immutata, in una ferma minaccia. Sono passai più di mille anni dall'eruzione che distrusse Ercolano e Pompei, e il vulcano minaccia ancora di distruggere gli stessi luoghi. La prima metà della strofa è costruita sul contrasto tra un'immagine potenzialmente idillica ("il villanello", il "piccolo campo", l'"ostel villereccio") e l'immagine della sinistra maestà della natura distruttrice, che preclude ogni quiete idillica. La seconda metà della strofa insiste sul motivo delle rovine che tornano alla luce grazie agli scavi archeologici, con una descrizione intrisa del gusto romantico per le rovine e l'atmosfera lugubre della notte. Torna anche, con insistenza, il motivo del tempo immobile della natura che ignora il tempo dinamico umano con la sua minaccia, intravista nel bagliore sinistro della lava che si riflette tra le rovine. Il motivo è espresso, nella conclusione, in forma riflessiva: la natura sta "ognor verde" mentre cadono regni, nascono e muoiono popoli e linguaggi. La strofa porta il suggello di una sentenza perentoria, lapidaria: "e l'uom d'eternità s'arroga il vanto", in cui riecheggiano all'unisono il "riso" e la "pietà".

  • settima strofa

L'ultima strofa corrisponde circolarmente alla prima. Torna a dominare la scena la ginestra: ne viene richiamata la valenza simbolica, la pietà per la condizione infelice delle creature ("di selve odorate/queste campagne dispogliate adorni"). Ma essa acquista anche nuovi significati (che erano solo impliciti nella strofa iniziale). La ginestra diviene per l'uomo un modello di comportamento nobile ed eroico: come l'uomo è fragile e inevitabilmente dovrà piegare il capo dinanzi alla natura implacabile, ma non per questo la sua dignità è cancellata. La ginestra non ha mai piegato il capo in segno di codardia verso l'oppressore, né lo ha eretto con orgoglio sconsiderato per giungere al cielo, né ha mai tentato di dominare le altre creature. Nella ginestra confluisce quindi l'immagine ideale e fittizia della nobiltà dell'uomo, argomento della terza strofa.

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